..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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martedì 31 luglio 2018

Autogestione come emancipazione del lavoro


Allorché Guy Debord, nel 1954, scriveva sul muro di un viale della rive gauche «Ne travaillez jamais» «Non lavorate mai», lo slogan – ripreso da Rimbaud – era ancora pesantemente debitore del surrealismo e della sua progenie di artisti. L’Internazionale Situazionista ereditò dai surrealisti questa opposizione tra i mezzi politici concreti della emancipazione del lavoro e il fine utopico della sua abolizione. Il suo merito principale fu quello di ricondurre un’opposizione esteriore, mediata dal programma socialista, ad un’attività interna, più adeguata alla propria concezione della rivoluzione. Quest’ultima consisteva in una rielaborazione radicale della liberazione del lavoro, attraverso la quale si sottolineava il rifiuto di ogni separazione tra l’azione rivoluzionaria e la trasformazione totale della vita – un’idea già presente, seppure in modo implicito, nel progetto originario della «costruzione di situazioni». In virtù di questa capacità di ripensare lo spazio-tempo della rivoluzione, il superamento da parte dell’IS dell’opposizione tra liberazione e abolizione del lavoro si sostanziava, in definitiva, nella riunificazione dei due poli in un unità immediatamente contraddittoria, che trasponeva l’opposizione tra mezzi e fini in una opposizione tra forma e contenuto.
All’inizio degli anni ’60, l’IS aderì anima e corpo al programma rivoluzionario del comunismo dei consigli, esaltando la forma-consiglio – lo strumento attraverso il quale gli operai realizzerebbero l’autogestione della produzione e si impossesserebbero dell’intera potenza sociale – quale «forma infine compiuta» della rivoluzione proletaria. Da quel momento, tutti i limiti e le potenzialità dell’IS furono inscritti nella tensione tra l’appello ad «abolire il lavoro» e lo slogan fondamentale: «tutto il potere ai consigli operai!». Da un lato, il contenuto della rivoluzione coincideva dunque per l’IS con una rimessa in causa del lavoro in quanto tale (e non semplicemente della sua organizzazione), il cui fine doveva essere il superamento della separazione tra lavoro e tempo libero; dall’altro lato, la forma della rivoluzione era ricondotta all’appropriazione e alla gestione democratica delle fabbriche da parte degli operai. Ciò che ha impedito all’IS di sciogliere questa contraddizione è il fatto che le due polarità di forma e contenuto, nella teoria situazionista, rimanevano entrambe ancorate alla prospettiva della affermazione del movimento operaio e della emancipazione del lavoro. L’IS individuava il fondamento che rendeva possibile la critica dell’alienazione nella prosperità tecnologica propria del capitalismo moderno («la società dei divertimenti» generata dalle potenzialità dell’automazione) e nella forza del movimento operaio, capace tanto di indirizzare – attraverso le lotte quotidiane – quanto di appropriarsi – mediante i consigli rivoluzionari – questi progressi tecnici. Era dunque sulla base del potere operaio all’interno dei luoghi della produzione che, per l’IS, l’abolizione del lavoro, da un punto di vista tecnico e organizzativo, diventava possibile. Trasferendo le tecniche dei cibernetici e le attitudini degli anti-artisti bohémien nelle mani callose e agguerrite della classe operaia organizzata, i situazionisti furono in grado di immaginare l’abolizione del lavoro come risultato immediato della liberazione del lavoro; vale dire di immaginare il superamento dell’alienazione dell’attività come prodotto di una ristrutturazione tecnico-creativa della fabbrica da parte dei lavoratori stessi. In questo senso, l’IS rappresenta l’ultimo sincero atto di fede in una concezione dell’autogestione intesa come parte integrante del programma di emancipazione del lavoro.

martedì 24 luglio 2018

L’anarchia di Achille Vittorio Pini


Lo Stato avrà ragione di esistere ed esisterà fintantoché rimarrà intatta la proprietà individuale, causa prima di tutti i mali che corrompono la società attuale, quindi i nostri sforzi saranno rivolti alla sua completa distruzione senza di cui riuscirà vano ogni nostro desiderio di miglioramento e rimarremo continuamente gli schiavi di un padrone, non importa se bianco, rosso o nero”. Così scrive Vittorio Pini su “Il Pugnale”, giornale che egli stampa a Parigi alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento e che dura appena il tempo di due numeri. Con i capelli e gli occhi neri, il viso smunto, nasce a Reggio Emilia trenta anni prima da una famiglia poverissima, e ancora ragazzino vede morire di miseria sei fratelli e il padre garibaldino. Dodicenne lavora già in tipografia e lì – a contatto con giornali repubblicani e internazionalisti reggiani, come “La Minoranza” e “L’Iride” – comincia a interessarsi di politica e ad avvicinarsi alle idee democratiche-radicali. Si trasferisce prima a Milano, dove svolge vari lavori, dal tipografo al pompiere, dal commerciante di vini allo scrivano, poi, dal 1886, in Svizzera e, infine, in Francia. A Parigi le sue idee sono ormai assai chiare: alla fine di una riunione alla quale partecipano militanti anarchici da diverse parti d’Europa vengono raccolti, come è d’uso, fondi per la propaganda, ma con magri risultati. Pini, allora, ben sapendo che per fare attività rivoluzionaria sono necessari non pochi denari, esclama: «se noi non li abbiamo, li ruberemo!». Egli fa parte di quegli anarchici convinti che l’espropriazione – o «riappropriazione» – sia un diritto, se non un dovere, e che la rivoluzione sia l’addizione di atti individuali di ribellione che contribuiscono a demolire il sistema. Dà vita al gruppo de Gli Intransigenti di Parigi e Londra, che si confonde con altri raggruppamenti simili: Gli Introvabili, Gli straccioni di St. Denis, I Cosmopoliti di Montmartre, Gli Antipatrioti, La Pantera e altri. Nel n. 1 del bollettino rivoluzionario anarchico “Il Ciclone” del settembre 1887 Pini e i suoi si scagliano contro qualsiasi mediazione, in nome di tutte le sofferenze patite dal proletariato: «siamo esseri che tutti gl’insulti abbiamo sofferto: galera, prostituzione, fame, delitto». La sua battaglia alla borghesia è senza tregua: «Mezzi d’emancipazione: espropriazione, pugnale, dinamite, petrolio» questi per finire sono i sottotitoli di alcune delle sue pubblicazioni.

sabato 21 luglio 2018

Io so che la mia testa non sarà l’ultima che mozzerete

Non mi spetta sviluppare qui la dottrina dell’anarchia. Solo voglio accennare al suo lato rivoluzionario, al suo lato distruttore e negativo per il quale compaio innanzi a voi. In questo momento di lotta acuta tra la borghesia e i suoi nemici, io sono quasi tentato di dire col Souvarine del Germinal (Romanzo di Emile Zola): “Tutti i ragionamenti sull’avvenire sono delittuosi, perché impediscono la distruzione pura e semplice e ostacolano il cammino della rivoluzione”.
Dacché un’idea è matura ed ha trovato una formula, bisogna senza più tardare cercarne la realizzazione. Io ero convinto che l’organizzazione è cattiva ed ho voluto lottare contro di essa per affrettarne la sparizione. Io ho portato nella lotta un odio profondo, ogni giorno ravvivato dallo spettacolo nauseante di questa società in cui tutto è basso, tutto è losco, tutto è brutto, in cui tutto è di ostacolo all’espansione delle passioni umane, alle tendenze generose del cuore, al libero slancio del pensiero. Io ho voluto colpire tanto fortemente e tanto giustamente quanto ho potuto.
Io so che la mia testa non sarà l’ultima che mozzerete; altre ne cadranno ancora, perché i morti di fame cominciano a conoscere la strada dei vostri caffé. Atri nomi voi aggiungerete alla lista sanguinosa dei nostri morti. Voi avete impiccato a Chicago, decapitato in Germania, garrottato a Xeres, fucilato a Barcellona, ghigliottinato a Montbrison e a Parigi, ma ciò che non potrete mai distruggere è l’Anarchia. Le sue radici sono troppe profonde; essa è nata nel seno stesso di una società putrida che si sfascia; essa è una reazione violenta contro l’ordine stabilito. Essa rappresenta le aspirazioni egualitarie e libertarie che battono in breccia l’autorità odierna; essa è dappertutto e ciò che la rende inafferrabile finirà coll’uccidervi.

(Dichiarazione di Emile Henry al processo per gli attentati alla rue des Bons Enfants e al Caffè Terminus 1894)


giovedì 19 luglio 2018

I Katanga a Parigi nel ‘68


É utile fornire al loro riguardo qualche spiegazione perché il legame tra i Katanga e il movimento del maggio può non essere così evidente. Il nome “katanga” era stato dato a questi giovani da un giornalista parigino in carenza di immaginazione. Aveva paragonato i giovani del servizio d’ordine ai mercenari della guerra del Katanga; il che significava che facevano solo da semplici esecutori al soldo degli studenti. Chi erano veramente? Non ho conosciuto i katanghesi, ma credo di poter affermare che avevano più o meno la stessa origine sociale: giovani tra i diciassette e i trent’anni, operai di fabbrica, alcuni disoccupati, abitanti nelle banlieurs delle grandi città e, per quello che qui ci interessa, della regione di Parigi. Per evitare di tracciarne un ritratto troppo idilliaco, diciamo che qualcuno aveva uno stile da teppista, vicino a quella gioventù delinquente che incontriamo nella nostra vita. Ma niente di grave.
Cosa ci facevano alla Sorbonne, Censier, Odeon e nelle manifestazioni di studenti? […] il servizio d’ordine. Resta un’importate questione: un servizio d’ordine di studenti non dovrebbe essere formato solo da studenti? Cosa si stavano a fare lì quei giovani, che con tutta evidenza nulla avevano a che fare con l’università?
Il maggio ’68 non e stato una semplice occupazione di quartiere o universitaria, ma un movimento di grande ampiezza che ha messo in pericolo il governo dell’epoca. Gli scontri con la polizia e i provocatori a volte sono stati molto violenti: per affrontarli ci voleva un servizio d’ordine - come si dice - muscoloso. Gli studenti, più dotati per la scrittura e la lettura che per il combattimento di strada, non avevano trovato tra di loro le risorse sufficienti. È per questo che hanno accettato l’edea dei Katanghesi. E poi, bisogna riconoscerlo, su una barricata un teppista vale almeno due studenti.

lunedì 16 luglio 2018

La mutazione del cervelli è in corso

L'alternativa che possiamo immaginare per il futuro è dunque questa: sottomissione della mente alle regole della neuro-macchina globale secondo il principio competitivo dell'economia capitalistica, oppure l'emancipazione della potenza automa dell'intelletto generale.
Il processo di trasformazione sta spostandosi dal campo della progettualità politica ala sfera concettuale pratica della neuro-plasticità.
La mutazione del cervelli è in corso come tentativo spasmodico di fare i conti con la caotica infosfera, oltre che ridefinire la relazione tra cervello e infosfera. Fenomeni traumatici di adattamento attraversano lo spazio del cervello sociale. Non solo la dimensioni psichica dell'inconscio ne è disturbata, ma il tessuto del sistema neurale stesso è soggetto al trauma del sovraccarico e della disconnessione. L'adattamento del cervello alle nuove condizioni dell'ambiente implica una enorme sofferenza, una tempesta di violenza e di follia.
Il problema è: la coscienza giocherà un ruolo in questo processo di mutazione? Sarà l'immaginazione capace di agire consapevolmente nel processo di riadattamento neuro-plastico? E l'organismo cosciente è in grado di agire quando viene preso in una situazione di spasmo?
L'immaginazione è la facoltà che rende possibile andare al di là dei limiti del linguaggio, la capacità di ricomporre i frammenti immaginari (e anche concettuali e linguistici) che raccogliamo dall'esperienza del passato. L'immaginazione prende frammenti dal magazzino della memoria, che in effetti non è un magazzino ma una macchina dinamica di rielaborazione. Allora l'immaginazione ridisegna i confini e le forme, e questo ridisegno rende possibile vedere un nuovo orizzonte, e proiettare un mondo che non avevamo visto prima.
Come possiamo rimanere umani, come possiamo parlare di solidarietà se abbandoniamo il campo dell'azione politica, ormai svuotato e inefficace?

giovedì 12 luglio 2018

Noi crediamo

Malatesta e Gagliardi
Noi crediamo che la più gran parte dei mali che affliggono gli uomini dipende dalla cattiva organizzazione sociale, e che gli uomini, volendo e sapendo, possono distruggerli.
La società attuale è il risultato delle lotte secolari che gli uomini han combattuto tra di loro. Non comprendendo i vantaggi che potevano venire a tutti dalla cooperazione e dalla solidarietà, vedendo in ogni altro uomo (salvo al massimo i più vicini per vincoli di sangue) un concorrente ed un nemico, ha cercato di accaparrare, ciascun per sé, la più gran quantità di godimenti possibile, senza curarsi degli interessi degli altri. Data la lotta, naturalmente i più forti, o i più fortunati, dovevano vincere, ed in vario modo sottoporre ed opprimere i vinti
Tale stato di cose noi vogliamo radicalmente cambiare. E poiché tutti questi mali derivano dalla lotta fra gli uomini, dalla ricerca del benessere fatta da ciascuno per conto suo e contro tutti, noi vogliamo rimediarvi sostituendo all’odio l’amore, alla concorrenza la solidarietà, alla ricerca esclusiva del proprio benessere la cooperazione fraterna per il benessere di tutti, alla oppressione ed all’imposizione scientifica la verità.
Quindi diciamo: Abolizione della proprietà privata della terra, delle materie prime e degli strumenti di lavoro, perché nessuno abbia il mezzo di vivere sfruttando il lavoro altrui, e tutti, avendo garantiti i mezzi per produrre e vivere, siano veramente indipendenti e possano associarsi agli altri liberamente, per l’interesse comune e conformemente alle proprie simpatie.
Abolizione del governo e di ogni potere che faccia la legge e la imponga agli altri: quindi abolizione di monarchie, repubbliche, parlamenti, eserciti, polizie, magistratura ed ogni qualsiasi istituzione dotata di mezzi coercitivi.
Organizzazione della vita sociale per opera di libere associazioni e federazioni di produttori e di consumatori, fatte e modificate secondo la volontà dei componenti, guidati dalla scienza e dall’esperienza e liberi da ogni imposizione che non derivi dalle necessità naturali, a cui ognuno, vinto dal sentimento stesso della necessità ineluttabile, volontariamente, si sottomette.
Garantiti i mezzi di vita, di sviluppo, di benessere ai fanciulli, ed a tutti coloro che sono impotenti a provvedere a loro stessi.
Guerra alle religioni ed a tutte le menzogne, anche se si nascondono sotto il manto della scienza. Istruzione scientifica per tutti e fino ai suoi gradi più elevati.
Guerra alle rivalità ed ai pregiudizi patriottici. Abolizione delle frontiere, fratellanza fra tutti i popoli.
Ricostruzione della famiglia, in quel modo che risulterà dalla pratica dell’amore, libero da ogni vincolo legale, da ogni oppressione economica o fisica, da ogni pregiudizio religioso.
Questo il nostro ideale.
(da Il nostro programma di Errico Malatesta)

martedì 10 luglio 2018

10 luglio 1960: i funerali delle vittime della rivolta di Palermo


Il 10 luglio 1960 si svolsero a Palermo i funerali di Francesco Vella e Andrea Gangitano, due delle quattro vittime degli scontri avvenuti due giorni prima.
L'8 luglio la Cgil ha indetto uno sciopero generale per i fatti di Reggio Emilia. A Palermo il centro è presidiato dalla Celere fin dalle prime ore del mattino. Il corteo è scortato da ingenti schieramenti di polizia. Improvvisamente partono le cariche: la celere assalta il corteo, caricandolo con le camionette, lanciate ad alta velocità.
La risposta del corteo non si fa attendere: vengono lanciati sassi, bastoni e quello che si trova in giro. La zona che va da piazza Politeama a piazza Verdi si trasforma in un campo di battaglia. Al centro della strada viene eretta una barricata. È a questo punto che le forze dell'ordine cominciano a sparare sulla folla.
Il primo ad essere colpito è un ragazzo di 16 anni, Giuseppe Malleo, che viene colpito al torace da una pallottola di moschetto. Morirà in ospedale pochi giorni dopo.
Poco dopo muoiono Andrea Gangitano (18 anni), colpito da una raffica di mitra, e Francesco Vella, organizzatore delle leghe edili che viene colpito mentre soccorre un ragazzo di 16 anni colpito da un lacrimogeno.
La polizia continua a sparare all'impazzata: la quarta vittima è una donna di 53 anni, Rosa La Barbera, raggiunta in casa da una pallottola mentre chiudeva le imposte.
Successivamente viene indetta un'altra manifestazione, alle 18 davanti al municipio. La polizia respinge i manifestanti con l'impiego di lacrimogeni e nuovamente con l'uso di armi da fuoco.
La mobilitazione durerà fino a tarda notte.
Il bilancio finale della giornata è di 300 fermi, 40 persone medicate per ferite da armi da fuoco, di cui 5 sono in gravi condizioni, centinaia sono i feriti e i contusi.
Alla fine 71 dimostranti saranno arrestati.
Seguiranno tre diversi procedimenti penali, il più importante dei quali sarà quello di Palermo che comincerà il 16 ottobre 1960.
Tutti i 53 imputati saranno condannati, dopo appena 12 giorni di dibattimento, a pene che vanno fino a 6 anni e 8 mesi di reclusione.
I celerini che hanno sparato ed ucciso non saranno mai incriminati.
Lo stesso giorno, sempre l'8 giungo 1960, la polizia spara anche a Catania. In piazza Stesicoro i manifestanti cercano di erigere una barricata. Le jeep si lanciano sul corteo a forte velocità e gli agenti danno il via a d una sparatoria. Vengono colpiti dai proiettili 6 giovani.
Uno di essi, Salvatore Novembre, un ragazzo di 19 anni, viene poi massacrato dalle manganellate.
Si accascia a terra sanguinante: "mentre egli perde i sensi, un poliziotto gli spara addosso ripetutamente, deliberatamente. Uno due tre colpi fino a massacrarlo, a renderlo irriconoscibile. Poi il poliziotto si mischia agli altri, continua la sua azione". I poliziotti impediranno, mitra alla mano, a chiunque di portare soccorso al giovane che si dissanguerà lentamente. Solo 45 minuti dopo sarà consentito di accompagnarlo su un'auto privata in ospedale, dove il giovane morirà poco dopo. Le autorità cercheranno poi di imbastire una montatura per "accertare, ove sia possibile, se il proiettile sia stato esploso dai manifestanti".
Il 9 luglio si svolgeranno imponenti manifestazioni a Reggio Emilia (centomila manifestanti), Palermo e Catania.
Tambroni arriverà a collegare le manifestazioni ad un viaggio a Mosca di Togliatti, affermando che "questi incidenti sono frutto di un piano prestabilito dentro i palazzi del Cremlino".

8 luglio 1962: la rivolta di Piazza Statuto


L'otto luglio 1962, a Torino in Piazza Statuto si verificano violenti scontri tra gli operai metalmeccanici in sciopero e le forze dell'ordine. Gli scontri proseguivano dal giorno precedente e continueranno fino al 9. Lo sciopero era stato indetto per il 7 da Fiom e Fim in solidarietà alle lotte portate avanti alla Fiat dall'inizio di giugno.
Lo sciopero ebbe un successo assoluto: nella maggior parte delle fabbriche i picchetti bloccarono completamente la produzione, alcuni dirigenti vennero malmenati e fu impossibile per la polizia mantenere la situazione sotto controllo davanti ai cancelli.
A Mirafiori ed in altri stabilimenti si ebbero scontri sin dal primo mattino e proprio nella mattinata si diffuse la notizia che fece scoppiare la rivolta di piazza Statuto: la Uil e la Sida erano giunte ad un accordo separato con la dirigenza della Fiat. La risposta operaia fu rapida e determinata: in breve tempo circa 7'000 operai si radunarono in piazza Statuto per dare assalto alla sede della Uil.
Gli scontri iniziarono particolarmente intensi. Da un lato gli operai disselciano la piazza e spaccano le enormi e pesantissime lose dei marciapiedi, impugnano cartelli stradali e catene, dall'altro la polizia carica inondando di gas lacrimogeni la piazza e lanciando a folle velocità le jeep.
Importante è ricordare il ruolo che ebbero il Pci e la Cgil nello svolgersi degli avvenimenti. Di fronte ad uno scontro radicale, che non seppero né valutare lucidamente né controllare,. i dirigenti intervennero per cercare inutilmente di convincere gli operai a fermare gli scontri e liquidarono l'accaduto definendo i manifestanti "elementi incontrollati ed esasperati", "piccoli gruppi di irresponsabili", "giovani scalmanati".
Alla fine dei disordini gli arrestati e i denunciati furono un migliaio.
La composizione di quella piazza, animata principalmente da operai giovani ed immigrati meridionali ci fa capire come le tre giornate di piazza Statuto segneranno un momento di svolta nella storia del movimento operaio. A due anni dai fatti di Genova, ritroviamo in piazza lavoratori che molto hanno in comune con i "ragazzi con le magliette a strisce". Piazza Statuto fu senza dubbio il luogo nel quale si ebbe una delle prime e più significative esplosioni conflittuali di cui fu protagonista l'operaio massa.
Da quei tre intensissimi giorni gli operai non poterono che uscire avendo chiaro che, come scrisse Quaderni Rossi "decidere tocca a voi, voi dovete prendere in mano il vostro destino. Questo sciopero è una grande occasione per far fare un passo avanti alla organizzazione della classe. Da questa lotta potrete uscire avendo fatto di ogni squadra, di ogni reparto, di ciascuno degli stabilimenti Fiat la realtà di una organizzazione, di una disciplina operaia capace in ogni momento di contrapporsi allo sfruttamento, agli arbitrii, al dispotismo del padrone e dei suoi lacchè".


7 luglio 1960: i morti di Reggio Emilia


É il 7 Luglio del 1960 e a Reggio Emilia ormai da diversi mesi l'insofferenza verso il governo Tambroni si sta traducendo in un crescendo di scioperi e manifestazioni, puntualmente caricati dalla polizia che altrettanto puntualmente viene respinta dalla rabbia popolare.
Non fa eccezione la manifestazione antifascista del giorno precedente a Porta San Paolo, al termine della quale, però, alcuni agenti lanciano un funesto messaggio: "La prossima volta, invece di farci picchiare, gli spareremo in faccia".
Il clima di tensione viene ulteriormente confermato da alcune indiscrezioni riferite al segretario emiliano del Pci, Renato Nicolai, a cui viene comunicato che la Questura di Reggio Emilia ha ricevuto precise disposizioni da Roma in merito all'atteggiamento da tenere durante lo sciopero generale indetto per il 7 Luglio in seguito ai fatti di Licata (dove due giorni prima la linea dura imposta da Tambroni ha già ucciso il venticinquenne Vincenzo Napoli) e Porta San Paolo: per i poliziotti l'ordine è di arrivare in assetto da guerra e di "dare una lezione" ai manifestanti.
Il comizio del Pci previsto per quel giorno in una sala di Piazza della Libertà si trasforma così in una manifestazione di massa a cui affluiscono decine di migliaia di persone; mentre molti stazionano al di fuori della sala straripante di gente, alcune motociclette sfilano per il centro con cartelli che recitano "Abbasso il fascismo", "Viva la Resistenza", "Via il governo Tambroni".
La polizia assedia a lungo la piazza e le vie adiacenti, in attesa di un pretesto qualsiasi per iniziare le violenze ma il momento sembra non arrivare; così, quando sono ormai le 16, la Questura decide di attaccare e dà ordine di disperdere gli scooteristi coi cartelli: nel giro di pochi secondi partono cariche e lacrimogeni e nella piazza invasa dal fumo la gente corre tra idranti e caroselli, riparando nelle strade circostanti.
Dopo un primo momento di smarrimento, però, i manifestanti si organizzano e rientrano nella piazza respingendo polizia e blindati con una fitta sassaiola.
Ma ecco che ad un tratto nel fragore della lotta si sente un rumore inusuale, inaspettato, un colpo secco: la polizia spara sui manifestanti.
Il primo a cadere è Lauro Ferioli, muratore di 22 anni, colpito in pieno petto mentre si lancia incredulo verso la polizia in un disperato tentativo di fermarli.
Marino Serri, 40 anni, operaio ed ex partigiano, ha assistito alla scena e col volto rigato da lacrime di rabbia si espone gridando "Assassini, assassini!" ma non fa in tempo a concludere perché una nuova raffica colpisce a morte anche lui.
Ovidio Franchi, operaio di 19 anni, è ferito all'addome; si aggrappa ad una serranda mentre un compagno cerca di soccorrerlo ma un agente sopraggiunge e con disgustosa freddezza spara su entrambi, uccidendo Ovidio.
Segue Emilio Reverberi, 39 anni, anche lui operaio ed ex partigiano; ed infine Afro Tondelli, operaio di 35 anni, assassinato da un poliziotto inginocchiato e concentrato nel prendere la mira.
Gli spari si susseguono per quaranta minuti, almeno 500 i colpi esplosi in mezzo allo sgomento ed al terrore che serpeggiano per la piazza.
Pasquale Alvarez, uno dei feriti, riporterà in seguito: "Fischiavano le pallottole da tutte le parti. Era tremendo, indescrivibile. La folla, per fuggire alle cariche forsennate delle camionette che inseguivano la gente sotto i portici, mi ha spinto verso via Crispi. Credevo sparassero in aria. Poi ho visto un ragazzo cadere. Più tardi ho saputo che era Franchi".
La folla continua a lottare eroicamente per due ore; a fine giornata si contano 5 morti e centinaia di feriti tra i manifestanti.
Non paghi della violenza cieca ed inaudita esercitata in piazza, gli agenti si schierano poi di fronte agli ospedali per impedire ai donatori di sangue di accedere alle strutture e costringendoli quindi a nascondersi a bordo di ambulanze fingendosi feriti.
Il Vicequestore Giulio Cafari Panico, accusato di omicidio colposo plurimo, e l'agente Orlando Celani, imputato d'omicidio volontario per aver sparato ad Afro Tondelli, vengono entrambi assolti nel 1964, il primo per non aver commesso il fatto, il secondo per insufficienza di prove.
Nei giorni successivi molte altre città italiane sono teatro di proteste e ovunque vengono applicati con freddezza i dettami di Tambroni, che portano alla morte di Francesco Vella, Giuseppe Malleo, Andrea Gangitano e Rosa La Barbera a Palermo e di Salvatore Novembre a Catania.
Ma il sangue versato, a Reggio Emilia come altrove, non fa che accrescere la rabbia che percorre l'Italia intera e che porterà Tambroni alle dimissioni prima della fine di Luglio.

sabato 7 luglio 2018

L’anarchia in poche parole


Antiautoritarismo: il rifiuto del principio dell'autorità, il rifiuto del comando e dell'essere comandati.
Libertà: libertà da ogni rapporto di dominazione, sia individuale che sociale; libertà di sviluppare la propria personalità. La libertà altrui che feconda la propria.
Solidarietà: come strumento per una socialità aperta, senza competizione.
Rifiuto della delega: come strumento di azione diretta, intervento e condivisione responsabile.
Individualismo: come punto di partenza della socialità e quindi fonte di rispetto, salvaguardia e sviluppo delle singole attitudini, diversità, esperienze coerenza tra mezzi e fini come metodologia antiautoritaria.
Autogestione: come formula organizzativa.
Organizzazione orizzontale: organizzazione non gerarchica basata sulle diverse capacità ed accordi e non su imposizioni o comandi.
Uguaglianza nella diversità: uguali possibilità di sviluppo delle diversità dei singoli.

venerdì 6 luglio 2018

La libertà è per tutti gli organismi.

La libertà è, per tutti gli organismi, funzione della direzione, funzione delle nicchie significative in natura e delle comunità significative in società. Certo, i due piani non sono del tutto concomitanti, ma ci sono tutte le ragioni per considerarli derivativi: comunità da nicchia, essere umano da animale selvatico. A suo modo, la nostra perdita di comunità è stata una forma di domesticazione, una condizione priva di senso e di direzionalità, proprio come la perdita della sua nicchia lo è stata per l'animale. Al pari dei nostri bovini, dei polli, dei cani, dei gatti e delle piante coltivate, abbiamo perso il nostro essere selvatico in un mondo pacificato, iperamministrato e altamente razionalizzato. Il mondo privato che avevamo creato nelle nostre comunità prepolitiche, le nicchie che occupavamo nei gli spazi nascosti della vita sociale, stanno rapidamente scomparendo. Al pari della struttura genetica degli animali domestici, le strutture psichiche degli esseri umani addomesticati stanno subendo una pericolosa degradazione. Più che mai dobbiamo recuperare il continuum tra la nostra "prima natura" e la nostra "seconda natura", tra il nostro mondo naturale e il nostro mondo sociale, il nostro essere biologico e la nostra razionalità. Latenti in noi ci sono memorie ancestrali che solo una società e una sensibilità ecologiche possono "risuscitare". La storia della ragione umana non ha ancora raggiunto il suo culmine e tanto meno la fine. Quando avremo "risuscitato" la nostra soggettività e l'avremo riportata ai suoi vertici di sensibilità, allora assai probabilmente questa storia sarà appena cominciata.