..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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mercoledì 30 dicembre 2015

Contestare questo monopolio espropriante

Contestare le istituzioni significa, contestare questo monopolio espropriante che mantiene in uno stato di inferiorità e di dipendenza permanente anzi progressiva, gli individui che compongono la società e che invece di maturare attraverso e grazie ad essa sono costretti sempre più e in ogni campo ad obbedire a chi comanda con una giustificazione che riduce di molto la differenza tra metodi violenti e metodi democratici, quando questi si avvalgono di mezzi di persuasione che fanno del consenso una vera e propria abdicazione alla libertà di giudizio e cioè all’esercizio effettivo della coscienza. La società dei consumi interiorizza semplicemente la costrizione sociale, trasformando la paura della repressione in vergogna della emarginazione. Il paradosso è che la libertà circolante nella democrazia dei consumi “libera” tutte le forme di licenza corruttrice ed oltretutto miope e contraddittoria in funzione di un unico scopo, quello dell’interesse esclusivamente individuale che, per corrispondenza all’abrasione sociale dell’individualità, elimina semplicemente la relazionalità come condizione e partecipazione all’umanità.

lunedì 28 dicembre 2015

Ricordando un compagno: Luigi Assandri

Di famiglia contadina, originario dell'Acquese (basso Alessandrino) dove è nato nel 1915, era approdato all'anarchismo nel dopoguerra. Diceva di aver sentito per la prima volta nominare Bakunin, Kropotkin e il loro pensiero da un soldato russo che si era unito alla sua banda partigiana (a riprova che nemmeno sotto il tallone di Stalin le idee libertarie erano state estirpate).
A liberazione avvenuta si arruola in polizia per congedarsene dopo breve tempo. Sua era la frase: "Anche un poliziotto può diventare anarchico, ma un anarchico non può mai trasformarsi in poliziotto".
Trova lavoro alle Ferriere FIAT, la fabbrica dove vi era un consistente numero di anarchici durante il fascismo e la resistenza. Si avvicina al movimento libertario divenendone un attivissimo propagandista. In fabbrica si dedica alla lotta anarco-sindacalista diventandone un acceso sostenitore contribuendo alla rinascita dell'USI. Acerrimo avversario della CGIL, si scontra in fabbrica con l'egemonia staliniana (raccontava di essere scampato a una raffica di mitra sparatagli alle spalle all'interno di un reparto) e nel movimento con gli anarchici favorevoli all'entrismo nel sindacato ormai dominato dai comunisti, con cui entrerà in annose polemiche.
Il 68 apre una nuova stagione della vita di Luigi, numerosi giovani si avvicinano alle idee anarchiche e lui diventa un importante punto di riferimento torinese. A differenza di altri vecchi compagni, anche se con un glorioso passato ormai piegati dalle disillusioni e dall'isolamento politico in cui erano stati relegati, Luigi ama stare con i ragazzi (i masnà, come li chiamava in piemontese), partecipa alle loro iniziative, discute con loro giorno e notte, li riempie di giornali opuscoli libri, li porta a mangiare a casa sua dove la sua compagna, Adele, li colma di attenzioni e, quando sono senza quattrini, compra loro le sigarette. Non è un teorico né un intellettuale, solo un semplice operaio autodidatta dotato di una profonda conoscenza delle idee e della storia dell'anarchismo, ma riesce lo stesso ad insegnare nel senso più profondo del termine, trasmettendo dei valori e una grande determinazione nella loro difesa.
Partecipa alle attività del circolo anarchico di via Ravenna di Torino, ma la sua attività più nota è quella di propagandista portando al massimo lo spirito di pratica dell’autodidatta. Compra un ciclostile e comincia a stampare in proprio a casa sua, prima decine e poi centinaia fra opuscoli, libri, e manifesti, dedicando la questa attività e ore libere dal lavoro e quelle strappate al riposo. Comincia così a manifestare uno degli esempi di autoproduzione, coadiuvato soltanto dalla compagna Adele.
Sviluppa uno stile grafico personalissimo ed inconfondibile arrivando a collages che non hanno bisogno di didascalie. In molti abbiamo amato l’opera caotica molto nera, povera e naif di Luigi, così come abbiamo amato la grafica e l’impaginazione poverissima, severa ma felice di Franco Leggio e la sua Fiaccola espressione di una personalità più vasta di anarchico. Molti libertari ed anarchici, non solo torinesi, hanno potuto leggere l’introvabile Stirner, e non solo lui, grazie alle ristampe di Luigi degli anni ’70.
Gli opuscoli che stampa li diffonde personalmente per le strade di Torino. In tutti i cortei in città c’è Luigi, da solo, con una borsa piena zeppa, che distribuisce i suoi opuscoli anarchici.
Si lascia un po’ di tempo libero per andare a funghi, tornare alla montagna. Lo ricordo ancora la mattina presto. verso le sei e trenta, col suo zainetto sulle spalle alla stazione di Porta Nuova  che va a prendere il treno per recarsi in montagna, prendendomi in giro col suo invito ad andare con lui, sapendo che non potevo perché avevo appena iniziato il mio turno di lavoro.
In città tutti lo conoscevano e lo stimavano. Ogni occasione era buona per propagandare le idee anarchiche, non solo con la stampa ma soprattutto con la parola: se anche casualmente incontrava qualcuno disposto al dialogo, persino nemici o avversari (fascisti e comunisti) intavolava lunghe e vivaci discussioni sull'anarchia, sulle infamie del capitalismo, dei regimi dittatoriali di destra e di sinistra, della chiesa e del militarismo. Insieme ad Adele partecipava ad ogni iniziativa, manifestazione, meeting congresso o convegno in cui gli anarchici si ritrovavano, sempre carico dei suoi materiali di propaganda.
La morte di Adele, avvenuta nei primi anni Novanta, chiude la fase della sua esistenza militante, pur restando sempre anarchico sino alla fine. Cede la sua biblioteca all'Anarkiviu "Tommaso Serra", smette di diffondere i suoi opuscoletti, dedicandosi unicamente alla ritrovata passione giovanile per il ballo.
Abbiamo amato lo stile di Luigi che sapeva porgere l’anarchia con la mitezza del suo sguardo, con la parola, con lo scritto, con la grafica, ma soprattutto con la migliore e più comunicativa propaganda del fatto: la sua vita; facendo desiderare, al di là dell’opera, di vivere anche noi 10, 100, 1000 vite come la sua.
Il 22 novembre 2008 Luigi se ne è andato. Il suo corpo è stato cremato al cimitero monumentale di Torino. Ad accompagnarlo nell'ultimo viaggio diverse bandiere rossonere, portate da compagni di tutte le età.

mercoledì 23 dicembre 2015

La trasgressione come sperimentazione di libertà

Quello che si intende per sperimentazione concreta di libertà e di comunità è tutto dentro la dinamica dell'opposizione ostinata all'esistente societario. La libertà, infatti, può essere sperimentata solo attraverso le forme di negazione materiale dell'illibertà sociale o comunque introiettata individualmente; la comunità reale può essere pre-vissuta come comunità di intenti, di tensioni, di agire. Ciò non è permesso. Per questo la trasgressione assume valenza positiva, seppur degna di smitizzazione e soprattutto di non fissazione. La trasgressione in sé non porta valori comunque umani, ma ne nega altri codificati; se essa, però, si trasforma in riaffermazione differente di ciò che prima ha rifiutato non è altro che forma recuperata, produttiva di comportamento sociale controllabile. La trasgressione cui noi ci riferiamo è quella che contiene tanto la negazione del presente quanto l'allusione al futuro. Non ci interessano certo i ladri che si fanno banchieri né i banchieri che diventano ladri! La trasgressività è quanto, pur prodotto dalla società, tende ad affermare caratteri diversi, antagonici, di comunità. Quando si contrappone il concetto di comunità reale a quello di società - come che si sia storicamente manifestata - non è certo per riprodurre una sorta di guerra di tutti contro tutti, l'homo homini lupus di lontana memoria, né tanto meno per ricordare nostalgicamente le società-comunità primitive (poiché allora effettivamente i due termini si confondevano tra di loro). L'appartenenza reciproca, il riconoscimento delle differenze e la loro corretta valutazione, il superamento di appiattimenti egualitarizzanti, la riscoperta dell'originalità singola e collettiva contro il processo di identificazione: ecco i caratteri dell'essere-vivere comunità, ecco quanto è stato sottomesso e soggiogato dalla forma-società.

martedì 22 dicembre 2015

Sabotaggio, non terrorismo. Sconfitta la Procura di Torino

La corte d’assise d’appello della Procura di Torino ha emesso oggi, poco prima delle 16, la sentenza al processo contro Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò. Il collegio ha approvato il giudizio di primo grado, rigettando l’accusa di attentato con finalità di terrorismo. Ai quattro No Tav è stata confermata la condanna a tre anni e mezzo per il sabotaggio.
Il procuratore generale Marcello Maddalena aveva chiesto nove anni e mezzo.
Maddalena questa mattina ha sparato le ultime cartucce. A sostegno della sua tesi anche la lettera dei quattro No Tav, che si identificavano nei passaggi salienti della lotta: dalla battaglia del Seghino all’assedio del 3 luglio 2011, passando per Venaus e la Libera Repubblica della Maddalena.
Allora il movimento No Tav obbligò il governo a cancellare un progetto ormai entrato in fase esecutiva. Maddalena ha le idee chiare: chi ci è riuscito una volta potrebbe riuscirci ancora. La mera intenzione di fermare il Tav basterebbe a giustificare l’accusa di terrorismo.
In filigrana si legge la trama sottesa del tessuto argomentativo di Maddalena: tutti i No Tav sono terroristi. Chi devasta e militarizza il territorio difende la democrazia. Il sabotaggio di quella notte di maggio fu quindi un attacco alla democrazia.
Come non essere d’accordo?
La democrazia è una delle forme dello Stato, che avoca a se la legittimità dell’esercizio esclusivo della violenza, per reprimere chi non accetta le regole di un gioco feroce, liberticida, oppressivo.
Chi si mette di mezzo, chi non si rassegna al dissenso, chi pratica l’azione diretta finisce nel mirino.
La Corte s’assise ha rigettato le tesi del PM, perché è (ancora) troppo diffusa l’opinione che non si possa equiparare un sabotaggio alla diffusione del terrore.
L’operazione tentata dalla Procura di Torino questa volta è fallita, ma la carta del terrorismo potrebbe essere rigiocata, se il movimento No Tav riuscisse nuovamente a mettere in difficoltà il governo, se il territorio divenisse nuovamente ingovernabile.
Tutti i No Tav, compresi i sette del sabotaggio del maggio 2013, intendono davvero obbligare il governo a cancellare la nuova linea veloce da Torino a Lyon dalla propria agenda. Non c’è dubbio che ce la metteremo tutta.
Nonostante non sia stata riconosciuta la finalità di terrorismo, resta il fatto che quattro di noi sono stati sottratti per tre anni e mezzo alle loro vite, agli affetti, alla lotta.
Oggi ci conforta il fatto che la mossa più ardita della Procura torinese sia stata disinnescata. Maddalena, all’ultimo processo prima della pensione non è riuscito ad appendere in ufficio lo scalpo dei No Tav.

domenica 20 dicembre 2015

La società autogestita di Pierre-Joseph Proudhon

Il concetto di società autogestita porta Proudhon a formulare la dottrina del federalismo pluralista, considerata a suo parere l’unica realistica perché le contraddizioni, costituendo la linfa vitale della società, sono insopprimibili.
Il federalismo proudhoniano,ovvero un federalismo libertario, sa risolvere in una continua tensione di libertà i termini, dati prima come teoricamente insopprimibili, della libertà e dell’autorità.
Così il federalismo pluralista si definisce da una parte come critica di tutte le dottrine stataliste, uniciste, assolutistiche, in quanto utopistiche e reazionarie, e dall’altra come metodo regolativo, più che costitutivo, dei rapporti socio-economici. Esso infatti deve garantire, con la sua dimensione aperta, l’eguale possibilità di espressione di ogni individuo o gruppo, in armonia con le proprio esigenze geografiche e le proprie tradizioni storiche. Il sistema federativo deve essere insomma il risultato degli equilibri da ricercarsi nel rapporto fra gruppi e individui, fra unità e molteplicità, fra società globale e raggruppamenti particolari, fra coesione e libertà. Tuttavia ciò che costituisce l’essenza è il carattere del contratto federativo, è che in un tale sistema i contraenti si riservino più diritto, autorità e proprietà di quanto non ne abbandonino. Il federalismo libertario riassume per intero la rivoluzione politica ed economica perché il principio federativo è l’applicazione sulla più alta scala dei principi di mutualità, di divisione del lavoro, di solidarietà economica. Per sorreggere questo disegno fondamentalmente libertario ed egualitario, Proudhon ha concepito il mutualismo economico, il solo in grado di rendere operante tale impianto strutturale. Il mutualismo in senso economico è un socialismo pluralista decentralizzato, fondato sull’autogestione dei produttori della proprietà federalizzata degli strumenti di produzione.

giovedì 17 dicembre 2015

La libertà dell’individuo

Non si può aspettare che la rivoluzione avvenga come un qualcosa di metafisico che precipita di colpo sulla terra. Occorre unirci con tutte le nostre forze al movimento reale e chiarire quali sono a tutti i livelli ed in tutti i paesi le realtà dello sfruttamento, le realtà dello spossessamento. Lo spossessamento moderno non è più, non si conclude più nello sfruttamento puro e semplice della forza lavoro. È uno sfruttamento che si è allargato a tutto il campo della vita quotidiana. Siamo tutti sfruttati non soltanto perché lavoriamo otto o più ore in un dato posto, ed in quel posto ci sottraggono plus valore e così via, siamo sfruttati perché siamo interamente soggetti ad un processo di spossessamento che investe tutta intera la nostra vita. Questa è una realtà che sta emergendo con una notevole energia e la cui coscienza sta affiorando nel movimento reale.
Ecco perché il discorso anarchico può da qualche tempo in qua uscire dai moduli storici che ben conosciamo e rinnovarsi interamente in una verifica reale come evocazione reale del movimento.
Gli anarchici sono storicamente quelli che si sono incaricati di condurre avanti, di portare avanti nella storia la rivendicazione della libertà della persona; in questo senso sono stati coerenti lungo tutto lo sviluppo della loro storia. Credo sia corretto anche dire che sono stati gli unici a fare questo discorso, che è stato il discorso della libertà dell’individuo, è stato per decenni un discorso minoritario per forza di cose.
Non esiste una infinità di progetti rivoluzionari, non ci sono diecimila modi che la storia brucia in rivoluzioni che falliscono; ad un certo punto è il movimento reale stesso che scopre che la vocazione libertaria è la vocazione rivoluzionaria reale. Il compito di tutti i ribelli è quello di aiutare questa crescita obiettiva della spinta libertaria, smascherando a tutti i livelli tutte le situazioni, le mistificazioni che il capitalismo avanzato mette in opera con l’industria pesante dell’ideologia.

mercoledì 16 dicembre 2015

L'anarchia è il grande sogno della libertà

L'anarchia altro non è che una società organizzata sulla base della libertà.
È la consapevolezza che gli esseri umani possono vivere in libertà attraverso la definizione di un sistema di relazioni sociali anti-autoritarie, in cui lo svolgimento delle attività umane, dalle più semplici alle più complesse, avviene in modo che ognuno, all'interno di libere assemblee, abbia la possibilità di perseguire la propria felicità, senza subire le prevaricazioni altrui.
È l'estensione della possibilità a tutti, la massima decentralizzazione, la fine dei privilegi.
I suoi detrattori parlano di caos perché ritengono impossibile vivere senza le regole dettate da un'organizzazione sociale gerarchica, mentre l'anarchia altro non è che la libertà organizzata, una ricerca permanente dell'armonia tra responsabilità e libertà, tra individuo e società.
Tutto questo può sembrare un'utopia, e certamente lo è; ma, come diceva Eduardo Galeano, "l'utopia è come l'orizzonte: mi avvicino di due passi e lui si allontana di due passi, cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta di dieci passi più in là; per quanto io cammini, non lo raggiungerò mai. A cosa serve allora l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare". E l'anarchia serve proprio a promuovere le idee, a risvegliare le coscienze, a stimolare l'azione.
Sicuramente non vedremo mai realizzato il sogno di una società anarchica, ma ciò non toglie il fatto di provarci, di costruirele basi per la sua nascita. In fondo tutta la storia dell'umanità non è altro che il tentativo di realizzare l'utopia.
L'anarchia non è un'illusione, si tratta piuttosto di un sogno non ancora realizzato, ma non irrealizzabile; solo chi non rinuncia sognare ha la certezza di andare avanti in qualche modo.
"Quando a sognare è uno solo non è altro che un sogno; quando a sognare sono in tanti è l'inizio della realtà".

venerdì 11 dicembre 2015

Si nasce anarchici

I bambini, quando hanno ancora pochi anni, non essendo ancora formati culturalmente, o formati ancora solo in modo parziale, sono liberi da condizionamenti autoritari. Non conoscono convenzioni, paure, remore, omertà; il loro comportamento è estremamente libero e rifugge da ogni intruppamento; non conoscono differenze di razze, di sesso. Provate a mettere insieme un gruppo di bambini e bambine in una stanza; non staranno lì a guardare il colore della pelle; non si divideranno in gruppi, maschietti da una parte e femminucce dall'altra, ma tutti insieme parteciperanno ai giochi che la loro mente piena di fantasia inventa sul momento. Si certo, ogni tanto c'è qualche lite, qualcuno piange, ma dopo qualche minuto si riprende a stare insieme senza rancore (sostantivo a loro sconosciuto).
Anche se con gli anni la loro natura viene forgiata da tecniche educative autoritarie e repressive imposte dalla scuola, dalla religione, dalla famiglia, negli individui adulti che diverranno rimane molto di quell'animale libero che erano alla nascita. E per tutta la vita arderà questo barlume, questa insofferenza alle costrizioni, alla disciplina e all'autorità, spesso temuto da loro stessi nel momento in cui saranno coscienti che dare libero sfogo a questi istinti li esporrebbe a rischi. Ecco perché nel corso della nostra vita siamo tutti una specie di campo di battaglia tra la libertà che cerca di emergere e l'istinto a reprimerla che ci viene inculcato sin dalle più tenera età.
Spesso questa fiamma soccombe, soffocato da istinti indotti come la ricerca del successo, l'arrivismo, la scalata sociale o la paura di perdere quello che si è acquisito, e anche da atteggiamenti più profondi e irrazionali, tipici della natura umana. Ma quando riusciamo ad essere spontanei, quando ci muoviamo nell'ambito di una sfera serena e libera, siamo l'esempio vivente di come una società non gerarchica sia possibile, anche se lo facciamo in maniera inconsapevole.
Si nasce anarchici, bisogna solo avere la capacità di rimanerci.

giovedì 10 dicembre 2015

L’umorismo come arma rivoluzionaria

L’umorismo è una profanazione perpetua, una costante provocazione del profano al sacro. Laddove l’uomo/donna sa ridere, sparisce l’ombra degli dei.
Ridere del dominio non basta, ma è già l’inizio di una resistenza. Introducendo il dubbio nella sottomissione, l’ironia e il sarcasmo armano i rivoluzionari, aggrediscono il dispotismo e l’ingiustizia, indeboliscono la servitù volontaria. Le risate scavano in anticipo il fosso dove finiscono sepolti i tiranni che l’intelligenza sensibile stana e che gli uomini liberi combattono.
La laicità ideologica della borghesia rivoluzionaria ha avuto il torto di prendersi talmente sul serio dal fare della ragione una dea.
La morte si instaura nello spirito ogni volta che l’intelligenza sensibile dimentica la sua capacità di ridere della tragedia; la quale del resto si trasforma sovente in farsa dopo che il riso degli uomini ha accolto la sua prima apparizione seria.
La farsa è una tragedia diventata ridicola. Si presenta spesso come un déjà-vu banalizzato di cui gli uomini non riescono a disfarsi. Quando il montare del totalitarismo non è neppure più accompagnato dal divieto formale di ridere del potere, gli uomini della democrazia spettacolare diventano ancora più ridicoli delle loro caricature.
I re, i preti, i guerrieri, diventati i decisionisti, burocrati e boia nello stesso tempo, restano sempre dei ridicoli “Pères Ubu” ai quali nemmeno il sangue versato dalle loro mani restituisce il senso della vita. Si prendono molto sul serio, perché sono i guardiani dell’assenza di felicità. Sono nudi nella loro terribile armatura ed è per questo che è formalmente consigliato di non parlare troppo del loro culo.
Durante le tristi e ricorrenti epoche di uniformizzazione dello spirito, con la regressione dell’essere in avere, e poi in apparire, la resistenza volontaria della vita contro i suoi nemici si esprime già nella derisione di un mondo intollerabile.
In un contesto pesante, dove tutto diventa stupidamente tragico, banale, ineluttabile, lo spettacolo integrato è oggi una farsa totalitaria organizzata.
L’umorismo contribuisce a preservare fino all’ultimo soffio di vita la possibilità della leggerezza. Mostrare col dito, con la penna o con la matita il ridicolo del potere; ecco qualcosa che favorisce già la vita e apre un cammino al rovesciamento di prospettiva.
Il potere che si esercita sugli uomini sottomessi si indebolisce quando questi alzano la testa con un sorriso sulle labbra. La loro muscolatura si rilassa, le loro smorfie da credenti, da cantanti di inni patriottici e da seguaci di liturgie idiote si disfano. La loro umanità dimenticata ritrova i sensi perduti della felicità, sola luce che continua a guidare donne e uomini in questa effimera e meravigliosa avventura che è la vita.

martedì 8 dicembre 2015

Un lampo bluastro attraversa la Camera dei Deputati

Il 9 dicembre 1893, a Parigi, alla Camera dei deputati, è in corso la convalida di alcuni parlamentari, il deputato della prima circoscrizione di Reims, Louis Mirman, sta difendendo la propria causa. Siccome la sua voce è debole, per poterlo sentire la maggior parte dei suoi colleghi è discesa nell’emiciclo ed il visconte di Montfort, suo avversario, si prepara all’assalto, brandendo fogli pieni di appunti.
Sono le quattro e cinque. Con un ampio gesto circolare della mano, Louis Mirman termina il proprio discorso: “Io rimarrò qualunque cosa decidiate, un avversario leale e risoluto!”
Nella tribuna chiamata petite tribune des billetes, una certa signora Laport, moglie d’un commerciante all’ingrosso di vini, vede un braccio, che passa al di sopra della sua spalla, gettare un oggetto che emette una specie di sibilo regolare. Subito un lampo azzurrognolo solca la sala all’altezza delle tribune, segue una formidabile esplosione, poi una grandine di proiettili schizza a ventaglio, abbattendosi sugli spettatori e sui parlamentari. Si levano urla di dolore e quando il fumo si dirada, molte persone sono stese a terra, mentre altre si precipitano verso l’uscita, gettando grida di dolore e di spavento.
La sala ha l’aspetto di un campo di battaglia.
Alcuni deputati si tolgono i proiettili di dosso, proiettili consistenti in chiodi di tre centimetri, che si sono conficcati nei loro corpi o sul viso; il generale Billot, membro del consiglio superiore di guerra, si rialza attonito, mentre l’abate Lemire resta disteso sanguinante. Il suo viso è coperto di rivoli di sangue, mentre dei pezzi di ferro bianco gli formano sulla fronte una specie di corona.
All’ispettore di polizia Agron, nella infermeria speciale del carcere, Vaillant dichiara: “Sono un anarchico e ce l’ho con l’organizzazione della società. Bisogna che tutto cambi, ed io ho voluto colpire al vertice, colpire il governo. Sfortunatamente, una donna m’ha intralciato mentre gettavo la bomba, sicchè la traiettoria è stata deviata ed è scoppiata in aria. Altrimenti stendevo cento deputati".
Sempre su richiesta dell’Ispettore, Vaillant scrive un biglietto per il giudice istruttore Henri-Balthazar Mayer:
“Signor giudice, per capriccio ho voluto lasciarla cercare. Suppongo però che si stiano perseguitando degli innocenti per trovare il vero colpevole. Non cerchi più, sono io. D’altronde non ho voluto uccidere (ed è per questo che nella mia bomba avevo messo dei chiodi al posto delle palle), ma solo dare un avvertimento. Preferivo ferire duecento deputati, che ucciderne uno o due”.

domenica 6 dicembre 2015

Inaugurazione della Scala di Milano 1968

7 dicembre, sera. Verso le 19.30 ci presentiamo in piazza della Scala. Saremo in 3/400. Una miseria rispetto alla nostra normale capacità di mobilitazione. Ecco la prova che lo spontaneismo è «una minchia piena d'acqua», bofonchia Salvatore Toscano. Fa un freddo cane e l'umidità prende alle ossa. La nebbia è così spessa che di quando in quando sembra trasformarsi in una pioggerellina fitta fitta. Come se non bastasse, piazza della Scala è stata trasformata in una piazza d'armi. Polizia e carabinieri dappertutto. Di fronte al teatro, dirimpetto al palazzo del comune, all'imbocco delle vie adiacenti, in galleria Vittorio Emanuele, in piazza Duomo.
Arrivano i primi «scaligeri», agghindatissimi. Gli uomini sono lustri come manichini. Le signore impellicciate e ingiolellate per centinaia di milioni. Uno schiaffo per milioni di poveri cristi. Per qualche minuto non succede nulla. Si infittisce l'arrivo. Auto sontuose e lucide, con autisti in livrea, depongono con grazia tirati melomani all'ingresso del tempio. Uno studente solleva, alto sopra la testa, un cartello che dice: «I braccianti di Avola vi augurano buon divertimento». Parte un coro: «Borghesi, ancora pochi mesi» (ecco che le esigenze della rima costringono a svisare i tempi storici).
Una coppia, impeccabilmente addobbata, fende sinuosamente i cordoni di polizia, a tre metri dagli studenti. Parte un uovo. Centro perfetto sulla spalla dell'uomo. Schizzi giallastri massacrano di rimbalzo lo stupendo abito della sua compagna. Per brevi minuti è tutto un via vai, in aria, di uova e cachi. (A proposito: la mitologia giornalistica ha fatto prevalere l'idea che si trattasse di uova marce. Sciocchezze faziose. Come sanno tutti i cuochi, è rarissimo trovare uova marce). I tiri sono per lo più esatti. I bersagli colpiti, numerosi. Elevata la percentuale di smoking, toupé e pellicce messi fuori uso. La polizia mostra segni di nervosismo rapidamente crescenti. È chiaro che dopo l'indignazione popolare per l'eccidio di Avola ha ricevuto ordini di non intervenire fino al limite del tollerabile. Si avverte che la corda sta per spezzarsi. Ci vuole qualcosa che rompa la tensione, almeno la diluisca. Un ragionamento, ecco quel che ci vuole. Che renda esplicitamente chiaro il messaggio magmatico della protesta. Sì, un ragionamento può essere la chiave di volta. Afferro il megafono, mi porto sotto il naso del più vicino cordone di poliziotti e attacco.
Non ce l'abbiamo con voi - questo il succo del pistolotto - perché voi, come noi, siete figli di lavoratori e di poveri. Riflettete: il 74 per cento di voi viene dal Sud e dalle isole. Avete dovuto abbandonare le vostre case e vestire la divisa per il pane. Sappiamo quanto la vostra vita è difficile. 
Quattro giorni fa vi hanno fatto sparare su una folla di braccianti, dove magari c'era tuo padre o tuo fratello (e segnavo a dito, pronunciando quelle parole). Adesso vi fanno star qui per ore, al freddo, e per un salario misero, a proteggere i ricchi, quelli che vi hanno costretto ad abbandonare il paese e affamano le vostre famiglie. Bisogna finirla con questa situazione. Lottiamo insieme, e insieme con i lavoratori, per avere giustizia. Noi siamo qui per questo. Il primo esperimento funziona a meraviglia. Tutti i dimostranti si raggruppano intorno al megafono. I lanci cessano. I poliziotti sono sorpresi. La tensione comincia a calare. Bene. Abbiamo trovato il filone giusto. Lo utilizziamo a fondo. Ci spostiamo vicino al cordone misto di poliziotti e carabinieri. Solita musica. Si vede dalle facce che le parole entrano dentro. Mentre do fiato al megafono, saranno le 20.15, gli Operatori della Rai-Tv, che trasmettono in diretta il fasto scaligero, hanno l'idea, provvidenziale per noi, di far sentire per un attimo le voci della piazza. Molti studenti a casa, che non sapevano nulla della manifestazione, restano con il cucchiaio della minestra a mezz'aria sentendo dal televisore la voce metallica del megafono. Schizzano via come saette verso piazza della Scala. Un'ora dopo siamo quadruplicati. Continuano i comizi volanti. Ci spostiamo nell'ottagono della Galleria, tra la Scala e piazza Duomo, dov'è schierato il maggior numero di agenti. Quando ridico dei braccianti di Avola, che lì magari c'era tuo padre o tuo fratello, vedo un agente, rigido sull'attenti nella fila, giovane, avrà 22 anni, alto e magro come uno stecco, con le lacrime che gli scendono. Termino con il consueto invito alla lotta e all'unità. Sono a due metri da quel giovane che piange. Lo abbraccio forte. Mentre lo stringo, lo sento mormorare: «Sono di Lentini». Lentini è un grande centro agricolo, a un tiro di schioppo da Avola. Chiedo scusa, ma, quando ripenso a quel fatto, mi commuovo ancora oggi. E se qualcuno pensa che questa è ricostruzione romanzata dopo vent'anni, sappia che ci sono decine di testimoni oculari di quell'episodio.
Questa è stata la contestazione alla Scala che, con mio grande cruccio, ha finito col simboleggiare il '68 italiano. Va da sé che non avevamo nulla contro il Don Carlos di Giuseppe Verdi messo in scena quella sera. L'indomani il «Corriere» scriverà: «Gazzarra davanti alla Scala» e «Tentativi sediziosi dei dimostranti», ovvero la realtà diminuita e stravolta a tavolino.

Tratto dal libro di Mario Capanna
"Formidabili quegli anni", pag. 38

martedì 1 dicembre 2015

Il regno delle cose

La signoria inequivocabile che toglieva tutto a tutti consumava senza residui la sua ricchezza: la miseria era astante, inginocchiata. La ricchezza era la celebrazione, concentrata nell’essenza dei signori, del sacrificio di tutti. L’estrazione di ricchezza dalla miseria trapassava nella pura trascendenza della signoria, specchio chiaro in cui la miseria riconosceva il proprio sacrificio e la sua irreversibilità. Non altro poteva essere distribuito che questa immagine sacra.
Ma quando la miseria astante si riconosce come classe, lo specchio è spezzato: sotto la liturgia della consumazione rimbomba la minaccia del ferro e del fuoco. Perché la minaccia non si materializzi, non diventi il ferro e il fuoco, occorre che il sacrificio perda la sua trascendenza, occorre un’eucarestia che distribuisca in particole l’agnello, che socializzi l’espiazione: occorre che il sacrificio si spieghi.
La democrazia borghese, così come tutti i centralismi democratici, non sono altro che questo: eucarestia del dominio, introiezione in ciascuno della figura parcellizzata del dominio, “spiegazione” (cioè razionalizzazione) del sacrificio (cioè dell’alienazione); liturgia del sacrificio necessario nella “grazia” (cioè nella responsabilità d’esser schiavi) del ruolo; catechismo della coscienza del ruolo contro la tentazione demoniaca del rifiuto radicale del sacrificio (cioè contro la coscienza di classe e la volontà di negazione totale dell’esistente). Perché l’operazione possa aver luogo occorre che il potere stesso perda la sua visibilità “pura”, occorre cioè che si mostri come immagine e somiglianza di ciò che vuole riprodurre identico a sé: mera funzione anonima, macchina, potere senza volto, ragione totalitaria degli insiemi separati: beati i poveri di spirito perché di essi sarà il regno delle cose.
Moltiplicando la violenza attraverso la mediazione del mercato, l’economia borghese ha moltiplicato anche i propri beni e le proprie forze al punto che non c’è più bisogno per amministrarle, non solo del re, ma neppure dei borghesi: semplicemente di tutti. Essi apprendono, dal potere delle cose, a fare infine a meno del potere.

sabato 28 novembre 2015

Anarchia non vuol dire bombe ma uguaglianza nella libertà

L’immagine che viene data degli anarchici sui libri, sulla stampa, alla televisione e nei film in cui si parla di loro (tranne qualche eccezione, a dire il vero) è sempre diffamante, contribuendo così a diffondere una conoscenza sbagliata sull’anarchia e sugli anarchici. Quante volte sentiamo dire nei dibattiti . “facendo così è il caos, è l’anarchia”, associando indebitamente l’ideale anarchico con il caos più totale, annullando così tutto il potenziale innovativo e sovversivo dell’idea. Non solo. Molte volte, nei servizi dei telegiornali e sui quotidiani, si associa anche anarchia con terrorismo, dando notizie di attentati che dicono di essere compiuti da anarchici.
Certo è che chi sostiene l’abolizione di ogni privilegio, la comunione dei mezzi di produzione, la distribuzione egualitaria dei beni, la libertà di pensiero e di azione, l’uguaglianza sociale, da fastidio a governanti e padroni, di conseguenza la classe dominante tende a criminalizzare gli anarchici additandoli come elementi pericolosi, come bombaroli, come terroristi. L’uso di quest’ultima parola è voluta dal potere per creare attorno agli anarchici una cortina di diffidenza e anche di paura.
Questo atteggiamento discriminatorio viene tenuto anche dai partiti pseudo democratici della sinistra, che quando sono all’opposizione trovano comodo il movimento anarchico che marcia nei cortei insieme (si fa per dire) a loro e che invece, quando sono al potere, condannano fermamente fino alla persecuzione.
Noi anarchici ci siamo fatti un’idea precisa sul mondo e sull’organizzazione della società in cui viviamo e facciamo il possibile per realizzare le nostre idee basate sulla fratellanza, sull’uguaglianza e sulla libertà. Da qui la nostra negazione dei sistemi verticistici; da qui la nostra diffidenza e disinteresse per il sistema dei partiti, per il sistema economico, per istituzioni autoritarie come governo e Stato.
Non possiamo comunque negare che in passato, a cavallo tra l’800 e il 900, ci siano stati dei gesti eclatanti compiuti dagli anarchici, ma sono stati attentati ben mirati contro re, tiranni, oppressori e contro istituzioni e simboli del potere; atti, spesso riusciti, che hanno sempre raccolto molta simpatia nei ceti popolari, il contrario di ciò che potrebbe provocare un gesto terroristico, teso cioè a terrorizzare la massa (vedi, purtroppo, il 13 novembre a Parigi). Terrorista è colui che spara nel mucchio, chi colpisce in maniera indiscriminata (leggi post: Esaminiamo l’aggettivo“rivoluzionario”)
L’anarchia è il grande sogno della libertà che ha spinto gli esseri umani a volere il meglio per sé e per l’ambiente che li circonda. Una sorte di fiamma che arde dentro, un sentimento istintivo che ogni essere vivente prova e che lo rende insofferente davanti a qualsiasi limitazione della propria libertà, davanti a qualsiasi regola coercitiva.

giovedì 26 novembre 2015

Eliseo Reclus e la violenza rivoluzionaria

Eliseo Reclus spiega la sua triplice posizione di pazienza, di etica e di tolleranza nei confronti della violenza rivoluzionaria: "Tra il difensore della giustizia e il complice del crimine non ci son vie di mezzo! In questo campo, come in tutte le altre questioni sociali, si pone il grande problema che si discute tra Tolstoi e gli altri anarchici, quello della non-resistenza o della resistenza al male. Da parte nostra, pensiamo che l'offeso che non resiste consegna in anticipo gli umili ed i miseri agli oppressori ed ai ricchi. Resistiamo senza odio, senza rancore né spirito di vendetta, con tutta la dolcezza serena del filosofo e la sua volontà intima in ciascuno dei suoi atti, ma resistiamo!" (...) "Dal punto di vista rivoluzionario, mi asterrò dal preconizzare la violenza e sono desolato quando degli amici trasportati dalla passione si lasciano andare all'idea della vendetta, tanto poco scientifica, sterile. Ma la difesa armata di un diritto non significa violenza" (...) "Quotidianamente si compiono tante ingiustizie, tante crudeltà individuali e collettive che non ci si stupirebbe di vedere nascere continuamente tutta una messe di odii... e l'odio è sempre cieco" (...) "Naturalmente, ammiro la nobile personalità di Ravachol, come si è andata rivelando persino durante gli interrogatorii di polizia. È pure superfluo aggiungere che considero ogni rivolta contro l'oppressione come un atto buono e giusto. "Contro l'iniquità la rivendicazione è eterna". Ma dire che "i mezzi violenti sono gli unici davvero efficaci", oh no, sarebbe come dire che la collera è il più efficace dei ragionamenti! Essa ha la sua ragion d'essere, ha il suo giorno e la sua ora, ma la lenta penetrazione della parola e dell'affetto nel pensiero ha tutt'altra potenza. Già per definizione, la violenza impulsiva non vede che lo scopo; sollecita la giustizia con l'ingiustizia; vede "rosso", ossia l'occhio ha perduto la sua chiarezza. Ciò non impedisce affatto che il personaggio di Ravachol, così come lo vedo io e come lo tramanderà la leggenda, non sia una figura grandissima".

martedì 24 novembre 2015

Inceppare la macchina della contro-insurrezione, continuare la lotta! "28 novembre giornata di solidarietà diffusa"

Di nuovo, è arrivata la repressione: giovedì 12 novembre hanno arrestato, in Italia, quattro compagni e altri cinque in Grecia, tutti accusati di aver partecipato al primo maggio milanese. Arresti, denunce, indagini non sono estranei alla vita di chi lotta: attraverso la polizia il governo cerca di controllarci, di limitare il nostro agire e, attraverso provvedimenti esemplari, cerca di dissuadere chi, nella propria vita, decide di non accettare lo stato di cose presenti.
Così, a Milano il primo maggio, venne istituita una zona rossa per proteggere la passerella della borghesia e della classe industriale e finanziaria italiana che si trovava alla Scala di Milano, ma anche per proteggere quei simboli del potere e di Expo responsabili delle politiche di impoverimento a cui siamo sottoposti. Venne così posta una scelta: accettare di stare nel luogo preposto dalla polizia per l'espressione del dissenso, oppure non accettarne i confini, senza alcuna mediazione. É la scelta di non scivolare lungo quei confini predeterminati che, di nuovo, la repressione tenta di combattere.
Per questo preferiamo parlare di contro insurrezione, perché lo stato mira al governo e al controllo dei corpi, delle menti e dei territori. Quando ci colpiscono lo fanno per evitare che si ripeta e si riproduca all’infinito il conflitto, per mandare dei segnali a quegli operai, insegnanti, studenti che domani davanti a una legge e a un attacco politico decideranno di ribellarsi. In questo modo lo stato impone la propria egemonia culturale e politica.
Uno dei limiti degli ultimi anni è stato concentrarci al 100% sulla questione repressiva dimenticandoci di mettere in pratica quel famoso slogan “Il migliore modo per combattere la repressione è continuare la lotta”. Concentrando tutte le nostre forze sulla burocrazia della giustizia e le questioni legali si rischia di perdere la rotta, di fermare l’avanzamento delle nostre comunità e delle lotte che portiamo avanti. Certo, garantire il mantenimento dei compagni arrestati, raccogliere i soldi per questo e per la difesa legale, mantenere una buona comunicazione con i compagni colpiti e i propri familiari è qualcosa di fondamentale, ma ciò che permetterà a questi compagni di uscire, di far cadere i castelli giudiziari e soprattutto di non raggiungere il proprio obiettivo ai nostri nemici è continuare a lottare.
Su questa linea per quanto riguarda Expo, crediamo che non sia finito, che Expo è un sistema di governo e trasformazione dei territori, è il grande evento per mafie e speculatori. In fin dei conti quello che contava era distribuire gli appalti tra gli amici, rendere agli occhi del cittadino comune l’evento qualcosa da non perdere anche se per entrare bisognava fare ore di fila e si rischiava di non vedere niente.
Durante i 6 mesi di Expo gli sgomberi sono continuati, quattro scioperi sono stati precettati, ogni manifestazione a Rho, sito della fiera universale, è stata repressa con forza, la cantilena mediatica si è scagliata contro il movimento No Expo e giornali e tv non hanno fatto altro che raccontarci e farci vedere un’immagine di Expo falsata.
Infine sono arrivati gli arresti di Giovedì 12 novembre, guarda caso quando iniziava ad uscire la notizia dei 400 milioni di euro di buco di bilancio di Expo, guarda caso questa operazione repressiva era ferma da luglio. L’obiettivo dei signori di Expo, della polizia e della magistratura è quello di mantenere la pace sociale, soprattutto quando gli occhi del mondo sono puntati sulle nostre città e aspettare il momento giusto per colpire. Questo per legittimare le loro porcherie, il loro arricchimento, la devastazione dei territori e il saccheggio delle nostre vite in nome del progresso.
In questa strategia che continua e che ora si sposta a Roma, con il trasferimento del super poliziotto: il Prefetto Tronca, vediamo la continuità del modello di sfruttamento e arricchimento che si nascondeva dietro ad Expo e che ora agirà sulla piazza romana. Il Giubileo della misericordia che chiude gli occhi davanti all’emergenza abitativa, ai profughi che scappano dalle guerre create dall’occidente e che ora dopo l’attentato di Parigi rischiano di essere ancora una volta le uniche vittime di questa guerra che non ci appartiene e che ha due facce quella dell’Isis e quella delle democrazie occidentali. 


In mezzo i poveri , il mondo del basso che subisce le politiche neoliberaliste . Lo sciacallaggio governativo sulla pelle delle vittime di Parigi e la scusa della sicurezza del grande evento cercheranno di limitare l’agire nella capitale attraverso misure eccezionali create per l'occasione.
Per questo crediamo sia necessario da una parte rafforzare le nostre comunità e le nostre lotte, continuare a combattere questo modello di sfruttamento non dimenticandoci di costruire gli anticorpi nel quotidiano guardando all’appuntamento romano anche come una sfida per le lotte di ribaltare la rappresentazione mediatica del grande evento e riprenderci quella agibilità che ci vogliono togliere smascherando e combattendo la logica di sfruttamento e rapina dei grandi eventi.
Dall’altra parte è necessario cogliere i segnali che arrivano dall’Europa, soprattutto dalla Grecia dove i percorsi e le lotte dei compagni arrestati hanno permesso la loro liberazione e cercheranno di impedire con ogni mezzo necessario la loro estradizione. Fuori dal “bel paese” le bottigliette di succo di frutta e la carta igienica sono bottigliette di succo di frutta e carta igienica e non molotov, la resistenza e la rivolta di piazza non sono devastazione e saccheggio.
La nostra sfida è quella di impedire l'estradizione dei compagni e attaccare definitivamente il reato di devastazione e saccheggio tratto dal codice Rocco fascista.



Per questo, raccogliamo l'appello dell'assemblea in solidarietà ai 5 studenti in lotta di Atene e con loro lanciamo il 28 novembre una giornata di solidarietà diffusa nei territori, contro l'estradizione dei compagni greci, contro l'accusa di devastazione e saccheggio e per la libertà di tutti gli arrestati.


venerdì 20 novembre 2015

La gestione elettronica della società

La società gestita dai computer, fa suonare un campanello di allarme, in quanto contiene una chiara previsione del fatto che le macchine che scimmiottano gli esseri umani tendono ad infiltrarsi in ogni aspetto della vita delle persone e le costringono a comportarsi come macchine, I nuovi dispositivi elettronici hanno in verità il potere di costringere  le persone a “comunicare” con essi e con gli altri esseri umani nei termini dettati dalla macchina stessa. Ciò che strutturalmente non rientra nella logica della macchina viene filtrato, e in pratica scompare da una cultura dominata dal loro uso.
Il comportamento meccanico degli esseri umani incatenati all'elettronica corrisponde ad un deterioramento del loro benessere e della loro dignità, a lungo andare insopportabile per la maggior parte di essi. Le osservazioni sulla nocività degli ambienti elettronicamente programmati dimostrano che in essi le persone diventano indolenti, impotenti, narcisisti, e apolitiche. Il processo politico si deteriora perché la gente diviene incapace di governarsi e chiede di essere gestita.
La gestione elettronica della società è questione di ecologia politica. I dispositivi di gestione elettronica devono essere considerati come mutamento tecnico dell'ambiente umano che per essere innocuo deve essere affrontato in termini politici non solo tecnici. Non dobbiamo dimenticare che i dispositivi elettronici, i computer sono risorse produttive e in quanto tali necessitano di un regime di polizia, che sarà presente in forme sempre maggiori e in forme sempre più sottili.

martedì 17 novembre 2015

Morire a Parigi


Bérurier Noir - Mourir a Paris (2015)

En un instant tout est parti
Les assassins sont dans Paris
Chargés d'une haine inassouvie
Propagateurs d'une tyrannie
En un instant bref de la vie
Tout est parti, tout est fini
Pourquoi, comment, se sont-ils dits
L'image provoque une telle tuerie ?

Pour les profanes ou les prophètes
Où sont les dieux, où est la fête ?
La lumière douce de l'amitié
A disparu dans l'encrier
Prédicateurs de malheur
Fabrication de la terreur
Ni dieu ni maître ni feu ni fer

Pourquoi les hommes font-ils la guerre ?

Miroir des conflits du Levant
Déracinement de nos enfants
Les va-t-en guerre, aux dents de sang
Se foutent des peuples innocents

Démocratie ou barbarie
Que restent-ils de nos vies ?
Ni soumission ni inconscience
Lève le crayon de l'espérance (bis)

(Nos crayons contre l'ignorance
Nos chansons contre l'intolérance
Nos valeurs sans arrogance
Notre humanisme sans violence)

Il n'y a pas de guerres saintes
Il n'y a pas de guerres justes
Il n'y a que des guerres sales
Aux frappes chirurgicales
Il n'y a pas de guerres saintes
Il n'y a pas de guerres justes
Il n'y a que des guerres lâches
La souffrance des otages
Il n'y a pas de guerres propres
Il n'y a pas de guerres justes

Demande à tous ces morts
Bérurier Noir - Morire a Parigi (2015)

In un attimo tutto è andato
Gli assassini sono a Parigi
Caricati di un odio insoddisfatto
Propagatori di una tirannia
In un breve momento della vita
Tutto è andato, tutto è finito
Perché, come, hanno detto
L'immagine provoca un tale massacro?

Per chi non lo sapesse o profeti
Dove sono gli dèi, dov'è la festa?
La luce soffusa di amicizia
Una scomparsa nel calamaio
Predicatori di sventura
Produzione del terrore
Né Dio né padrone né fuoco né di ferro

Perché gli uomini fanno la guerra?

Specchio dei conflitti del Levante
Sradicamento dei nostri figli
La volontà di guerra, a denti insanguinati
Non si preoccupano di persone innocenti

Democrazia o barbarie
Che cosa rimane nella nostra vita?
Né sottomissione o incoscienza
Innalziamo la matita della speranza (bis)

(Le nostre matite contro l'ignoranza
Le nostre canzoni contro l'intolleranza
I nostri valori senza arroganza
Il nostro umanesimo senza violenza)

Non ci sono guerre sante
Non ci sono guerre giuste
Solo guerre sporche
Attacchi chirurgici
Non ci sono guerre sante
Non ci sono guerre giuste
Solo codardi guerre
La sofferenza degli ostaggi
Non ci sono guerre pulite
Non ci sono guerre giuste

Chiedi a tutti questi morti

lunedì 16 novembre 2015

Il contrario di guerra non è pace: è conflitto

Ci sono tanti modi, tutti parziali, per analizzare gli attentati di Parigi. Partiamo da noi, cioè da alcune brevi considerazioni su ciò che ci sta intorno, che possiamo definire opinione pubblica di movimento, visibile da una rapida osservazione sui social network e dalle valutazioni a caldo in rete. Lo diciamo così, in modo secco: l’opinione pubblica di movimento riflette drammaticamente l’opinione pubblica dominante, aggiungendo magari qualche secondario e ininfluente accenno di distinzione ideologica. In queste ore l’attivista medio (usiamo appositamente questo termine debole) sembra essere mosso alla tastiera da una doppia urgenza. La prima è il bisogno di dire che l’Isis non ha niente a che vedere con noi (!). La domanda è: con chi vi state giustificando? La seconda è di aggiungersi al coro dell’orrore, urlare alle bacheche degli amici che gli attentatori sono nazisti, esprimere cordoglio per le vittime, affermare come sia brutto quello che è successo. Come se l’opinione dell’individuo contasse qualcosa, soprattutto di fronte ad eventi di natura globale e tellurica.
Primo dovere per un militante – in senso forte – è invece innanzitutto di capire, senza farsi travolgere dalle emozioni individuali (“quello è il ristorantino in cui ero andato durante le mie vacanze a Parigi”) o dall’opinione pubblica dominante, che è l’opinione dei dominanti, per di più espressa sulle piattaforme tecnologiche dei dominanti. Per esempio guardando alle biografie degli attentatori, probabilmente simili a quelli dell’azione contro Charlie Hebdo o di chi va a combattere con l’Isis, quando scopriamo che si tratta di cittadini francesi, giovani, di seconde o terze generazioni che portano sulla propria pelle i segni di storie lunghe di oppressione e marginalizzazione, che magari alla religione islamica ci sono arrivati dopo aver visto le immagini di Abu Ghraib o dei bombardamenti occidentali in una delle tante guerre combattute nelle ex colonie. Persone a cui l’Isis offre un reddito, un’aspettativa mistificata, la possibilità di un perverso riscatto alla rabbia accumulata, fosse anche nella forma di teste da tagliare o di persone lasciare stesi per terra.
Dobbiamo poi guardare a come pezzi differenti della composizione sociale reagiscono rispetto a questo tipo di attentati: a gennaio la segmentazione geografica della metropoli francese, di classe e di razza, emerse con chiarezza, con buona parte del ceto medio bianco raccolto attorno ai valori della Republique e buona parte delle banlieue indifferente o addirittura ostile al cordoglio per Charlie. Pensare che ciò ci restituisca da una parte i nemici e dall’altra gli amici sarebbe caricaturale, perché i nemici e gli amici sono sempre il prodotto di un processo di lotta e di organizzazione. Al momento, gli uni e gli altri in forma diversa sono perlopiù le figure soggettive prodotte dallo sfruttamento e dalla crisi, dall’impoverimento e dal declassamento, dall’assenza di futuro e dalla privazione di aspettative. Sono i soggetti così come vengono costruiti dal capitale, quindi da destrutturare e trasformare radicalmente, da scomporre e ricomporre in una direzione opposta.
Ma per farlo, dobbiamo capire che – piaccia o non piaccia – da qui partiamo. Senza capire questo, cosa opponiamo alle retoriche degli sciacalli che, sentendo odore di sangue, si fiondano su media e social network per eccitare le passioni popolari? Certo, è semplice associare il termine sciacalli a chi lo è per definizione, i Salvini, i fascisti e le varie risme di reazionari conclamati. Ma costoro non sono altro che il prodotto dei progressisti per bene, degli Hollande, degli Obama e dei buffoni di corte alla Renzi, che con l’elmetto in testa chiamano alle armi per difendere i valori universali della civiltà. Parlate per voi, sciacalli, perché quell’universale è da sempre fratturato da una linea di classe, da secoli di guerra e di colonialismo, dalle divisioni razziali che avete cerato per costruire la vostra civiltà capitalistica e imporla, appunto, come universale. Al netto dalle dietrologie e dei mostri usciti dai laboratori della geopolitica imperiale, l’Isis e l’orrore di Parigi sono il prodotto dell’orrore della civiltà che ci hanno imposto.
Questa guerra è la loro guerra, non possiamo combattere l’effetto senza combattere la causa. Chi oggi pensa che basti urlare ai nazisti perché colpiscono le zone della città “progressiste” o “libertine”, imposta la questione su basi sbagliate, applicando degli schemi di lettura completamente inadeguati e autoreferenziali. Per gli attentatori di Parigi, probabilmente, quelle zone rappresentano il consumo e la forma-merce, questi sì i valori che il capitale ha imposto sul piano globale. Chi oggi dirige tali azioni indiscriminate non lo fa per mettere fine ai rapporti di oppressione e sfruttamento, ma per costruirne di nuovi. Non per dare nuove prospettive alle periferie, ma per costruire un nuovo centro. Questa è la contraddizione, dura e difficilissima, da agire.
In questo scenario, infatti, non abbiamo bisogno di mitologie sugli ultimi o codismo verso i primi. Da anni siamo in guerra, chi se ne accorge solo quando approda a New York o Parigi ne è complice. Dobbiamo sapere che la guerra ci pone sempre di fronte a una situazione radicale, nel senso letterale del termine: siamo cioè alla nuda radice dei problemi, rispetto a cui non tengono quelle forme di mediazione e compromesso che in altre circostanze possono invece funzionare. Oggi la guerra è alimentata dalla difficoltà delle lotte collettive e del conflitto radicale. Se vogliamo batterci contro la guerra, che è la loro guerra, non possiamo farlo con i buoni sentimenti o vaghe idee di giustizia: bisogna porsi il problema di come quelle radici vengono destrutturate e organizzate in una forma opposta a quella attuale. Da quei pezzi di composizione apparentemente impazziti bisogna passare, per rovesciarli in un’altra direzione; altrimenti faremo esclusivamente gli spettatori di eventi su cui l’unico potere che abbiamo è quello del “like” o del “dislike”. Citare quello che stanno facendo i curdi è semplice e corretto, ma non basta. Il punto è come facciamo come i curdi qui, nel ventre della bestia, contro l’unico nemico e le sue molte teste.