..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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domenica 26 agosto 2018

Autorganizzazione autonoma

Quando parlo di autorganizzazione autonoma parlo di uno specifico fenomeno che tende a nascere ogni volta che la gente, quando è incazzata per le proprie condizioni e ha perso la fiducia in quelle persone che erano delegate a risolvere i loro problemi, decidono di agire per conto loro. Inoltre l’autorganizzazione autonoma non si manifesta mai nella forma di un partito politico, di un sindacato o di qualunque altra sorte di organizzazione rappresentativa. Tutte queste forme di organizzazione dichiarano di rappresentare la gente nella lotta e di agire in loro nome. E quello che definisce l’autorganizzazione autonoma è precisamente il rifiuto di tutti i rappresentanti. I partiti, i sindacati e le altre organizzazioni tendono a comportarsi nei confronti di un’organizzazione autonoma solo nella forma di recuperatori delle lotte, sforzandosi di prenderne il comando e di imporsi loro stessi come portavoce della lotta – di solito con lo scopo di negoziare con i governanti. Perciò possono essere considerati solamente come potenziali usurpatori laddove si sviluppa una rivolta realmente auto-organizzata. L’autorganizzazione autonoma presenta dei tratti essenziali. Prima di tutto non c’è una gerarchia. Non c’è un’istituzione, non c’è un gruppo di comando permanente, non c’è un’autorità. Anche se a qualcuno che si dimostra particolarmente capace e abile con specifici problemi della lotta a portata di mano sarà accordata l’attenzione che merita per quell’abilità, non sarà permesso che questo motivo diventi la base per un ruolo di comando permanente, altrimenti si comprometterebbero altri aspetti importanti dell’autorganizzazione autonoma che sono la comunicazione orizzontale e i rapporti orizzontali fra le persone. E’ una questione di consentire alle persone di parlarsi una con l’altra, di interagire con ciascuno con tutti, di esprimere apertamente i bisogni e i desideri, mettersi a discutere concretamente i problemi che si trovano ad affrontare insieme e in termini pratici, senza nessuna persona o gruppo di comando per incanalare queste espressioni secondo una linea stabilita.
Per concludere quello che distingue l’autorganizzazione dalla politica è la sua opposizione alla rappresentanza e al compromesso – non tanto con l’ordine costituito, ma all’interno dello stesso movimento auto-organizzato. Così piuttosto che cercare di imporre decisioni collettive che implicano il compromesso, essa cerca di trovare un metodo per intrecciare i desideri, gli interessi e i bisogni di tutti quelli coinvolti in una maniera che sia effettivamente soddisfacente per ciascuno.
(Wolfi Landstricher, Portland, OR, USA)

giovedì 23 agosto 2018

È necessario creare una nuova politica


Una delle maggiori tragedie della nostra epoca è che la tecnica non è più considerata da un punto di vista etico.  Nel pensiero greco, produrre oggetti di qualità e di fattura artistica era un impegno morale che instaurava una speciale relazione tra l’artigiano e l’oggetto prodotto. Per molti popoli tribali, la manifattura di un oggetto corrispondeva alla messa in atto delle potenzialità insite nel materiale grezzo, dando così alla pietra, al marmo, al bronzo, una voce attraverso cui venivano espresse le latenti capacità estetiche della materia prima.
Il capitalismo ha completamente eliminato questo modo di pensare. Ha separato il produttore dal consumatore, cancellando ogni senso di responsabilità etica del primo nei confronti del secondo e mettendo da parte ogni altro tipo di considerazione morale. L’unica dimensione morale ammessa nella produzione capitalistica è la presenza della cosiddetta mano invisibile del mercato, la quale guida l’interesse individuale in modo che la produzione a scopo di profitto finisca per generare il bene comune. Ma anche tale miserabile giustificazione è del tutto scomparsa oggi. Un egoismo illimitato, altro esempio della presenza di un’etica del male, ha sostituito ogni rispetto per il bene pubblico. Sebbene possa apparire facile dare alla tecnologia colpe che vanno invece addebitate agli interessi delle élite dominanti, bisogna comunque ammettere che sotto il capitalismo anche la tecnica, liberata da ogni limitazione di tipo morale, può diventare demoniaca. Una centrale nucleare, ad esempio, è un male in sé, non ha alcuna giustificazione per la sua esistenza. E nessuno può più dubitare che la proliferazione di impianti nucleari – e quanti più ce ne sono, tanto più la possibilità di incidenti come quelli di Cernobyl aumenta – può a un certo punto trasformare l’intero pianeta in una colossale bomba nucleare.
La sensibilità. L’etica, il modo di vedere la realtà, il senso di sé devono cambiare attraverso modalità educative, argomentazioni razionali, sperimentazioni che mettono in conto la possibilità di imparare dai propri errori: solo questo consentirà all’umanità di raggiungere la coscienza necessaria per la propria autogestione.

martedì 21 agosto 2018

Il dissenso come rifiuto della autorità

Il gesto tipico del dissenso come figura del sentire altrimenti coincide con il quel dire-di-no che rivela la mancata adesione del soggetto all'ordine reale e simbolico e, perciò stesso, la sua potenziale contestazione. E', per sua essenza, interruzione individuale del consenso diffuso ed egemonico, messa in discussione di un ordinamento reale, ideale, valoriale che si pone come dominante, esclusivo o, comunque, maggioritario.
Questo non significa, tuttavia, che il gesto del dissentire si esaurisca nella figura del rifiuto e dell'opposizione: esso, al contrario, nega per affermare e destituisce per ricostruire.
Il rifiuto è il primo momento della dialettica del dissenso, il cui ulteriore sviluppo, in positivo, consiste nell'affermazione del negato, dell'ostacolato, del represso, del disatteso e dell'ignorato, proposti come correttivo o come alternativa rispetto a ciò che c'è.
A differenza del consenso, che può essere passivo e strutturarsi nella forma dell'inerte accettazione, ricevendo più propriamente  il nome di assenso, il dissenso si dà solo come attivo e affermativo. Ed è quanto più manca nel nostro tempo del consenso di massa e dell'omologazione generalizzata, ove tutti pensano e sentono il medesimo.
Una considerazione storico-filosofica della figura del dissenso non può non comportare, in pari tempo, un'esplorazione critica dell'uniformazione globale delle coscienze che si sta oggi registrando nell'orizzonte del nuovo pensiero unico e del falso pluralismo democratico della civiltà occidentale.
Quest'ultimo moltiplica e frammenta il messaggio, affinché sia occultata quella sua natura intimamente  totalitaria che nega in partenza ogni diritto a dissentire e a pensare altrimenti.

venerdì 17 agosto 2018

La fine del mercato e dello Stato

La crisi non è solamente economica. Quando non c'è più denaro, non funziona più niente. Nel corso del XX secolo, per estendere la schiera della valorizzazione del valore, il capitalismo ha inglobato settori sempre più ampi della vita: dall'educazione dei bambini alla custodia degli anziani, dalla cucina alla cultura, dal riscaldamento ai trasporti. Si è visto un progresso, in nome dell'efficacia o della libertà degli individui affrancati dai legami familiari e comunitari. Ora se ne vedono le conseguenze: tutto va a rotoli se non è finanziabile. E non è solo dal denaro che dipende tutto, ma peggio ancora: dal credito. Quando la riproduzione reale è al traino del capitale fittizio, quando le imprese, le istituzioni e perfino Stati interi sopravvivono solo grazie alle loro quotazioni in borsa, ogni crisi finanziaria - lungi dal riguardare solamente quelli che giocano in borsa - finisce per affliggere moltissimi uomini nella loro vita più intima e quotidiana.
Le diverse crisi - economica, ecologica, energetica - non sono semplicemente contemporanee o collegate: sono l'espressione di una crisi fondamentale, quella della forma-valore, della forma astratta, vuota, che si impone ad ogni contenuto in una società basata sul lavoro astratto e sulla rappresentazione nel valore di una merce. È tutto un modo di vita, di produzione e pensiero, vecchio di almeno 250 anni, a non sembrare più capace di assicurare la sopravvivenza dell'umanità. Forse non ci sarà un venerdì nero come nel 1929, un giorno del giudizio. Ma ci sono buone ragioni per pensare che stiamo vivendo la fine di una lunga epoca storica: l'epoca in cui l'attività produttrice e i prodotti non servono a soddisfare i bisogni, ma ad alimentare il ciclo incessante del lavoro che valorizza il capitale e del capitale che impiega il lavoro. La merce e il lavoro, il denaro e la regolazione statale, La concorrenza e il mercato: dietro le crisi finanziarie che si ripetono da oltre 20 anni, ogni volta più gravi, si profila la crisi di tutte queste categorie. Che è sempre bene tenerlo a mente non fanno parte ovunque della esistenza umana. Ma la fine del lavoro, del vendere, del vendersi e del comprarlo, la fine del mercato e dello Stato - tutte categorie che non sono in alcun modo naturali e che un giorno scompariranno, nello stesso modo in cui esse hanno sostituito altre forme di vita sociale - è un processo di lunga durata. La crisi attuale non ne è né l'inizio né la conclusione. bensì una importante tappa.

sabato 11 agosto 2018

Creare comunità autonome

Il termine rivoluzione ha perso inesorabilmente di importanza nell'uso ordinario, al punto che adesso può significare qualsiasi cosa. Ormai abbiamo una rivoluzione ogni settimana: rivoluzioni nei servizi di credito, rivoluzioni cibernetiche, rivoluzioni mediche, una rivoluzione su internet ogni volta che qualcuno inventa un software più intelligente.
Una retorica del genere è possibile soltanto perché la definizione comune di rivoluzione ha sempre implicato l'idea di un cambiamento di paradigma: un'interruzione netta, una rottura fondamentale nella natura della realtà sociale in seguito alla quale la realtà funziona diversamente e le categorie invalse non più valide.
Cosa sarà allora la rivoluzione? Una rivoluzione di dimensioni mondiali avrà bisogno di molto tempo. Ma forse è già in corso. La maniera migliore per rendersene conto è smettere di pensare alla rivoluzione come ad una cosa - la rivoluzione, il grande cataclisma, il punto di rottura - e chiedersi invece: "che cosa è un'azione rivoluzionaria?". Ecco la nostra risposta: una azione rivoluzionaria è qualsiasi azione collettiva che affronti e respinga una qualche forma di dominio e di potere, e che nel frattempo, alla luce di questo processo, ricostituisca nuove relazioni sociali, anche all'interno della collettività. L'azione rivoluzionaria non si propone necessariamente di rovesciare i governi. Ad esempio, sarebbe un atto di per se rivoluzionario il tentativo di creare delle comunità autonome nei confronti del potere (con le parole di Castoriadis, comunità che si autoistituiscono, decidendo collettivamente le proprie regole e i propri principi operativi e riesaminandoli costantemente). E la storia ci insegna che la continua accumulazione di atti di questo tipo può cambiare (quasi) qualsiasi situazione.

giovedì 9 agosto 2018

L’anarchia non è cosa del futuro


Il cammino della rivoluzione procede per rotture tra vecchio e nuovo, non è un percorso lineare, procede a salti, a volte considerabili positivi, in avanti, altre volte negativi, indietro, rispetto a quel processo di mutazione culturale critica e libertaria.
L’anarchia si deve costruire nel nostro vissuto senza aspettare l’evento rivoluzionario, poiché non esiste un solo grande potere da abbattere. Il potere, come ci ricorda Michel Foucault, non occupa un luogo unico privilegiato, né dipende da un unico soggetto identificabile una volta per tutte. Lo stato, le leggi, le egemonie sociali sono soltanto effetti e manifestazioni sul piano istituzionale di rapporti e strategie di potere. Il potere è, invece, anonimamente diffuso ovunque; è onnipresente e dappertutto, non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove. Il potere coincide con la molteplicità dei rapporti di forza, che variamente si intrecciano e si contrappongono. E’ una relazione fra individui e la società è attraversata da rapporti di potere: ogni rapporto sociale è un rapporto di potere.
Non ha senso parlare di stato come luogo dei rapporti di dominio, poiché i rapporti di dominio sono ovunque. Non ha più senso parlare di re, poiché i re stanno nelle famiglie, nei conventi, nelle fabbriche e nelle scuole. Siamo tutti agenti di regolazione sociale, tutti ci controlliamo reciprocamente; lo stato diventa un sistema di relazioni.
Quindi essendo il potere qualcosa di disperso in tanti rapporti, a livello personale e politico, teorico e materiale, una rivoluzione tradizionale non ha senso non essendoci alcun palazzo da conquistare, al fine di eliminare gli effetti del potere e costruire una società trasparente. Fondamentale per un rivoluzionario è il lavoro costante tra la gente per combattere il dominio, cioè quel sistema di potere che è monopolio solo di una parte della società; è necessario un lavoro lungo e profondo di delegittimazione dell’autorità, per riuscire a rompere le asimmetrie nelle relazioni funzionali scatenando dal basso un inizio di mutazione culturale sotto forma di resistenza e attacco. Perché abbattere lo stato, non risolverebbe il problema del dominio, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sugli animali e sulla terra, senza un profondo e continuo lavoro di mutazione culturale nelle reti di rapporti fra esseri umani si ricreerebbe un nuovo dominio solamente con una veste nuova, come è successo in tutte le rivoluzioni del 900, che hanno avuto un intento totalizzante e si sono affidate a modelli di mutamento sociale autoritari e statuali. L’anarchia non è cosa del futuro, ma del presente; non è fatta di rivendicazioni ma di vita. Una vita che non attende il giorno della rivoluzione, o meglio che vede la rivoluzione come qualcosa in perenne movimento e aperta al cambiamento durante il suo percorso. Una concezione della rivoluzione come processo e non solo come evento.

martedì 7 agosto 2018

Noi siamo il mare che può tutto inghiottire


Voi tutti, giovani sinceri, uomini e donne, contadini, operai, impiegati, soldati, voi comprenderete i vostri diritti e verrete con noi! Voi verrete coi vostri fratelli a preparare quella rivoluzione che abolirà tutte le schiavitù, spezzerà tutte le catene, romperà le vecchie tradizioni, aprirà all'umanità nuovi orizzonti e stabilirà finalmente nella società umana la vera uguaglianza, la vera libertà, il lavoro di tutti e per tutti il pieno godimento per tutti dei frutti del lavoro, il pieno godimento di tutte le facoltà, la vita razionale, libera e felice!
E non venite a dirci che siamo un piccolo manipolo, troppo debole per raggiungere il grande scopo che ci proponiamo. Contiamoci e vediamo in quanti siamo a sopportare l'ingiustizia. Contadini, che lavoriamo la terra degli altri facendolo fruttare per ingrassare i proprietari, noi siamo milioni di uomini; siamo così numerosi che noi soli forniamo la gran massa del popolo. Operai, che tessiamo la tela e il velluto per vestirci di cenci noi pure siamo moltitudine immense; e quando il fischio delle sirene ci permette un momento di riposo, noi inondiamo le vie e le piazze come un mare muggente. Soldati, che siamo condotti con il bastone che riceviamo le palle mentre gli ufficiali ricevono le medaglie, noi, poveri imbecilli, che finora non abbiamo saputo che fucilare i nostri fratelli, ci basterà fare dietro-front per vedere impallidire di paura quei pochi uomini gallonati che ci comandano. Noi tutti che soffriamo oltraggiati, noi siamo la turba immensa, noi siamo  il mare che può tutto inghiottire. Quando lo vorremo basterà un momento e giustizia sarà fatta.

lunedì 6 agosto 2018

L’organizzazione rivoluzionaria


L’organizzazione rivoluzionaria prima di tutto non dovrà considerarsi né essere staccata dalle masse, per conquistare la loro fiducia e non perdere di vista la realtà in cui deve operare. A tale scopo l’organizzazione rivoluzionaria deve da una parte essere a perfetta conoscenza del livello di coscienza delle masse lavoratrici e della problematica da essa più sentita, attraverso i contatti individuali, uno studio generale e sondaggi; mentre, dall’altra, deve giungere, anche mediante un’autocritica severa, alla consapevolezza della propria reale situazione rispetto alle masse, dei suoi successi ed insuccessi, delle proprie prospettive di progressi, e ad uno sviluppo della propria teoria in modo da adattarsi alla potenzialità rivoluzionaria del momento, ed alla ricerca di contatti più vasti e fruttuosi con le masse. Una volta giunta ad un livello di conoscenza soddisfacente, l’organizzazione rivoluzionaria può cominciare ad operare nelle masse, rifiutando ovviamente ogni canale di lotta politica offerto dal sistema (parlamento, sindacati, ecc.) in quanto strumenti creati per la conservazione del sistema stesso e non per la sua distruzione, e facendo opera di convincimento perché le masse rifiutino ogni forma di rappresentanza delegata, ed offrendo alle masse strumenti organizzativi che aboliscano nella prassi qualsiasi forma di delega del potere.
L’organizzazione rivoluzionaria dovrà quindi, oltre che propagandare la sua ideologia (che forse sarà difficilmente assorbita) mettere in risalto le contraddizioni del sistema, ingigantire il malcontento delle masse, inserirsi nelle loro lotte, anche settoriali e riformistiche, portando un nuovo metodo e un nuovo punto di vista per risolverle; dovrà cioè cercare di partire dalle rivendicazioni settoriali (salari, cottimi, ecc.) per tentare di dimostrare che non è con lo scioperino e la riformina che si risolvono i problemi del lavoratori, ma è autogestendo la lotta, contestando il potere alla radice, è cioè, con la rivoluzione che si risolvono i problemi sociali.
Ciò significa elaborare una strategia a tutti i livelli per programmare la propria azione di eversione da offrirsi alle masse come strumento di lotta risultante da un’analisi del momento storico. Tentare di partire dalle rivendicazioni riformistiche per arrivare a dimostrare che l’unica esigenza vera e reale, l’unica soluzione capace di risolvere il disagio è l’autodeterminazione, l’autogestione.

(Tratto da: Documento del gruppo “La Comune” di Milano, 1968)

domenica 5 agosto 2018

Immaginare una possibile ribellione


La domesticazione sociale è l'altro nome di quelle pratiche di dominio che sono all'origine di obbedienza, consenso, pace sociale. Non ideologie, forme di cultura o teorie, ma vere e proprie forze che plasmano la nostra vita, modellano i nostri comportamenti e vincolano il nostro comune.
La domesticazione sociale è all'origine di quella sudditanza vissuta con disarmante fatalismo, in virtù della quale di volta in volta ci troviamo a rivestire gli abiti di un popolo di consumatori, produttori, guerrafondai, utenti, elettori.
La domesticazione sociale è la misura di quella distanza tra i molti che obbediscono e i pochi che comandano, tra i molti impiegati delle nuove officine del lavoro e i pochi che ne traggono profitto.
Capire le ragioni di ciò che produce la nostra alienazione nella forma della merce, nella forma dello spettacolo e nella forma del consenso è il presupposto per immaginare una possibile ribellione a questo presente e al prossimo futuro.

sabato 4 agosto 2018

La limitatezza della nostra fantasia di Maria Luisa Berneri

La nostra è un’epoca di compromessi, di mezze misure, di male minore. I visionari vengono derisi o disprezzati e “gli uomini pratici” governano la nostra vita. Non cerchiamo più soluzioni radicali ai mali della società, ma miglioramenti; non cerchiamo più di abolire la guerra, ma di evitarla per un periodo di qualche anno; non cerchiamo di abolire il crimine, ma ci accontentiamo di riforme penali; non tentiamo di abolire la fame, ma fondiamo organizzazioni mondiali di carità. In un’epoca in cui l’uomo è tanto attirato da ciò che è realizzabile e suscettibile di immediata realizzazione, potrebbe essere salutare esercizio rivolgerci agli uomini che han sognato Utopie, che hanno respinto tutto ciò che non corrispondeva al loro ideale di perfezione.
Spesso ci sentiamo umili quando leggiamo di questi Stati e di queste città ideali, perché comprendiamo la modestia delle nostre rivendicazioni e la limitatezza della nostra fantasia. Zenone predicava l’internazionalismo, Platone riconosceva l’uguaglianza tra uomini e donne, Tommaso Moro percepiva chiaramente il rapporto tra povertà e crimine che viene negato persino ai giorni nostri. All’inizio del XVII secolo, Campanella auspicava la giornata lavorativa di quattro ore e il predicatore tedesco Andreä parlava di lavoro gradevole e proponeva un sistema di educazione che potrebbe servire da modello ancora oggi.
Troveremo la condanna della proprietà privata, il denaro ed il salario considerati immorali o irrazionali, la solidarietà umana accettata come cosa ovvia. Tutte queste idee che potrebbero essere ritenute temerarie oggi, vennero avanzate allora con una sicurezza che dimostra come, nonostante non venissero in genere accettate, nondimeno fossero immediatamente comprese. Alla fine del XVII e nel XVIII secolo, ritroviamo idee ancor più sorprendenti e audaci riguardo alla religione, ai rapporti sessuali, alla natura del governo e della legge. Siamo talmente abituati a pensare che i movimenti progressisti abbiano avuto inizio col XIX secolo, che ci stupiamo di vedere che la degenerazione del pensiero utopico comincia proprio allora. Le utopie, in genere, diventano timorose; la proprietà privata e il denaro vengono spesso giudicati necessari; gli uomini devono considerarsi felici a lavorare otto ore al giorno e non c’è nemmeno da pensare alla possibilità che il loro lavoro sia attraente. Le donne son sottoposte alla tutela dei loro mariti e i figli a quella del padre. Ma prima che le utopie venissero contaminate dallo spirito “realista” del nostro tempo, esse fiorirono con una varietà ed una ricchezza che ci fanno dubitare nella validità della nostra pretesa di aver ottenuto qualche avanzamento nel progresso sociale.
Ciò non significa che tutte le utopie siano state rivoluzionarie e progressiste: la maggior parte di esse hanno avuto queste due qualità, ma poche sono state completamente rivoluzionarie. Gli scrittori utopistici furono rivoluzionari quando auspicavano una comunità di beni al tempo in cui la proprietà privata era ritenuta sacra, il diritto per ogni individuo di sfamarsi quando i mendicanti venivano impiccati, la parità delle donne quando queste erano considerate poco più che schiave, la dignità del lavoro manuale quando esso veniva ritenuto ed era reso un’occupazione degradante, il diritto di ogni bambino ad una infanzia felice e ad una buona istruzione quando questo era riservato ai figli dei nobili e dei ricchi. Tutto ciò ha contribuito a rendere la parola “Utopia” sinonimo di una forma felice e desiderabile di società. Utopia, a questo riguardo, rappresenta il bisogno degli uomini alla felicità, il loro segreto desiderio dell’Età dell’Oro, o, come altri l’immaginavano, del Paradiso perduto.