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giovedì 30 aprile 2020

Torino: 1° Maggio, Le vostre responsabilità non si cancellano!


Due mesi di emergenza sanitaria e sociale dovuta all’epidemia, ancora in corso, di Covid19, hanno stravolto le vite di migliaia di persone e purtroppo lasciato sul campo tantissime vittime. Mentre il lockdown sembra volgere al termine e le misure di distanziamento sociale allentarsi, alle porte della tanto decantata fase 2, ci sembra importante fermarci e ragionare sulle settimane passate e fare il punto della situazione in maniera collettiva.
Rsa trasformate in cimiteri, dormitori abbandonati al contagio, tamponi fatti con il contagocce, sono solo alcune delle colpe e degli errori clamorosi di cui le istituzioni regionali e comunali si sono rese responsabili. Per due mesi, si è accuratamente evitato di chiudere veramente tutta la produzione non necessaria, per non calpestare i piedi a industriali e padroni facendo in modo che lo sforzo per limitare i contagi e i morti, venisse vanificato in nome del profitto ad ogni costo.
Dpi non distribuiti a sufficienza in ospedali, comunità, rsa e dormitori hanno fatto ammalare moltissime lavoratrici e lavoratori del comparto sanitario e operatori e operatrici sociali. Le scelte criminali di Cirio e company, come mandare i/le pazienti Covid nelle rsa, sono sotto gli occhi di tutti, e l’incapacità delle istituzioni di affrontare questa emergenza è palese.
Dall’altro lato, tutte le persone che si sono dovute astenere dal lavoro e quindi dal percepire reddito, sono state abbandonate a loro stesse, al limite hanno ricevuto qualche briciola, come i bonus spesa del Comune, che comunque non sono bastati per tutt*. In molti hanno bruciato in poche settimane i miseri risparmi accumulati negli anni, e chi già non ne aveva si è trovato con l’acqua alla gola. Il sistema capitalista ha mostrato il suo lato più crudele creando una crisi sociale senza precedenti. Non un euro è stato preso dai grandi patrimoni dei super ricchi, ma a chi sta in basso sono stati chiesti sacrifici enormi. L’ Unione Europea, nelle sue istituzioni politiche e finanziarie si prepara a far pagare il conto di questa crisi ai milioni di proletari che abitano il “vecchio continente”.
Molte aziende hanno continuato a lavorare truccando i codici Ateco e hanno costretto migliaia di lavoratori e lavoratrici a rischiare la propria vita, e a volte a perderla, per la produzione di merci non necessarie ad affrontare i mesi d’emergenza.
Chi è rimasto costretto a casa ha visto intensificarsi i controlli di Polizia, e abusi di ogni tipo si sono moltiplicati giorno dopo giorno. Il controllo sociale high-tech sembra esser diventata la nuova risposta dello Stato per limitare sempre di più la libertà collettiva e garantire la propria esistenza e tenuta di fronte alla crisi.
Davanti ad un quadro così drammatico e difficile, crediamo sia fondamentale chiedersi come affrontare questa emergenza sanitaria, senza doversi affidare ciecamente ai dettami incoerenti e schizofrenici delle Istituzioni.
Come si costruisce la possibilità di affrontare questa situazione dal basso? Come costruiamo una responsabilità collettiva capace e all’altezza di sfidare la gestione criminale e poliziesca delle istituzioni?
Come continuiamo a costruire reti di solidarietà e strategie di autorganizzazione in vista della Fase2?
Pensiamo sia importante confrontarsi collettivamente su queste domande per costruire insieme una risposta all’altezza.

Quest’anno non potremo essere in piazza il 1Maggio a causa dell’epidemia in corso, costretti dalla necessità di non contagiarci e ammalarci, ma la nostra rabbia e determinazione sono più vive e necessarie che mai.

Per questo diamo appuntamento a tutti e tutte dalle 13 di questo 1° Maggio sulle libere frequenze di Radio Blackout 105.250.
Qui lo streaming sul sito: http://stream.radioblackout.org/

> CHIAMA AL NUMERO 0112495669
> MANDA UN VOCALE AL NUMERO 3466673263

mercoledì 29 aprile 2020

Un reddito di vita per tutti!

L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha fatto esplodere le contraddizioni di classe nelle società capitalistiche; c’è una grande differenza tra starsene chiusi in una villa, o in un appartamento super attrezzato, e farlo in un modesto alloggio, o peggio in una casa fatiscente o in un monolocale da emigrati o da studenti fuori sede. E ancora più grande è la differenza tra starsene inoperosi ma con un reddito che ti copre benissimo e grazie al quale non ti fai mancare nulla, e il dover, invece, essere costretti a privarsi di quelle entrate minime che assicuravano la sopravvivenza quotidiana.
Per questo quella che stiamo attraversando è una crisi di classe, che ancora una volta sono le classi più deboli, subalterne, oppresse a subire e a pagare.
Il governo, per prevenire esplosioni sociali, i cui segnali non mancano e si fanno sempre più forti nelle periferie di città come Palermo o Napoli, e un po’ ovunque, sta stanziando somme irrisorie al solo scopo di spegnere ribellioni sul nascere e tirare avanti fino a che non si uscirà dall’emergenza. Contemporaneamente accentua i controlli di polizia e blinda città, paesi e quartieri.
Noi anarchici siamo solidali con quanti si stanno ribellando all’ordine cimiteriale del distanziamento sociale e della segregazione per rivendicare il proprio diritto alla vita.
Per molti l’emergenza non finirà con la fine dei contagi; essa durerà a lungo, anzi accentuerà i suoi caratteri di discriminazione sociale, e colpirà a fondo interi settori della società popolati da precari, disoccupati, anziani soli, migranti, detenuti, lavoratori a basso reddito, piccoli artigiani, che saranno presto raggiunti da quelle fasce di popolazione che rimarranno schiacciate dalla crisi.
Oggi dobbiamo pensare a sopravvivere, ma anche a un domani in cui si possa tutti vivere con dignità.
Non è più tempo di elemosine e assistenza. È tempo che paghi chi non ha mai pagato, che i ricchi vengano chiamati a sopportare il peso del disastro sociale che hanno contribuito a creare e che ha fatto ingrossare i loro profitti. E’ tempo che si dia un taglio netto alle inutili spese militari e a tutto lo sperpero di Stato in favore del profitto privato, e vengano potenziati i servizi sociali primari per la popolazione. Con il costo di un solo F-35 si potrebbero acquistare ben 7.113 ventilatori polmonari.
Non siamo in guerra, come blaterano i potenti e tutti i pappagalli che li attorniano: siamo solo immersi nelle macerie che il capitalismo ha imposto a tutti noi e ai paesi poveri.
Rivendichiamo un reddito di vita per tutti gli esclusi, e pensioni e salari raddoppiati per chi ogni giorno si è adoperato e si adopera per far funzionare la società. Sosteniamo la resistenza, la protesta, il mutualismo, l’organizzazione dal basso delle lotte.
La vera guerra è quella tra gli oppressi e gli oppressori.

martedì 28 aprile 2020

Dal virus all’insurrezione della vita quotidiana


Contestare il grado di pericolo del coronavirus ha sicuramente a che fare con l’assurdità. Di contro, non è altrettanto assurdo che una perturbazione del corso abituale delle malattie sia oggetto di un tale sfruttamento emotivo e faccia riaffiorare quell’arrogante incompetenza che un tempo pretese di tenere fuori dalla Francia la nube di Chernobyl?
Certo, sappiamo con quanta facilità lo spettro dell’apocalisse esce dalla sua scatoletta per impadronirsi del primo cataclisma che passa, rimestare l’immaginario del diluvio universale e affondare il vomere della colpa nel suolo sterile di Sodoma e Gomorra.
La maledizione divina ha assecondato utilmente il potere. Almeno sin dal terremoto di Lisbona nel 1755, quando il marchese di Pombal, amico di Voltaire, approfittò del sisma per massacrare i gesuiti, ricostruire la città secondo le sue concezioni e liquidare allegramente i suoi rivali politici a colpi di processi ’proto-staliniani’. Non faremo a Pombal, per quanto odioso potesse essere, il torto di comparare il suo golpe dittatoriale alle miserabili misure che il totalitarismo democratico applica mondialmente all’epidemia di coronavirus.
Che cinismo imputare alla propagazione del morbo la deplorevole insufficienza dei mezzi medici messi in opera! Sono decenni che il bene pubblico è messo a mal partito, che il settore ospedaliero paga lo scotto di una politica che favorisce gli interessi finanziari a danno della salute dei cittadini. C’è sempre più denaro per le banche e sempre meno letti e infermieri per gli ospedali. Quale cialtroneria potrà ancora a lungo mascherare il fatto che questa gestione catastrofica del catastrofismo è inerente al capitalismo finanziario dominante a livello globale, e oggi a livello globale combattuto in nome della vita, del pianeta e delle specie da salvare.
Senza volere scivolare in quella rielaborazione del castigo divino che è l’idea di una Natura che si sbarazza dell’Uomo come di un parassita importuno e dannoso, non è tuttavia inutile ricordare che per millenni lo sfruttamento della natura umana e di quella terrestre ha imposto il dogma dell’anti-physis, dell’anti-natura. Il libro di Erix Postaire, Le epidemie del XXI secolo, pubblicato nel 1997, conferma gli effetti disastrosi della de-naturazione persistente, che denuncio da decenni. Evocando il dramma della ’mucca pazza’ (previsto da Rudolf Steiner fin dal 1920) l’autore ricorda che oltre a essere disarmati di fronte a certe malattie prendiamo coscienza che il progresso scientifico stesso può provocarle. Perorando la causa di un approccio responsabile alle epidemie e alla loro cura, egli incrimina quella che Claude Gudin chiama ’filosofia del fare cassa’ nella sua prefazione: «A forza di subordinare la salute della popolazione alle leggi del profitto, fino a trasformare animali erbivori in carnivori, non rischiamo di provocare catastrofi fatali per la Natura e l’Umanità?». I governanti, lo sappiamo, hanno già risposto unanimemente SÌ. E che importa dal momento che il NO degli interessi finanziari continua a trionfare cinicamente?
Ci voleva il coronavirus per dimostrare ai più limitati che la de-naturazione per ragioni di convenienza economica ha conseguenze disastrose sulla salute generale – quella che continua a essere gestita imperturbabilmente da una OMS le cui preziose statistiche fungono da palliativo della sparizione degli ospedali pubblici ? C’è una correlazione evidente tra il coronavirus e il collasso del capitalismo mondiale. Allo stesso tempo, appare non meno evidente che ciò che ricopre e sommerge l’epidemia del coronavirus è una peste emotiva, una paura nevrastenica, un panico che insieme dissimula le carenze terapeutiche e perpetua il male sconvolgendo il paziente. Durante le grandi pestilenze del passato, le popolazioni facevano penitenza e gridavano la loro colpa flagellandosi. I manager della disumanizzazione mondiale non hanno forse interesse a persuadere i popoli che non vi è scampo alla sorte miserabile che è loro riservata? Che non resta loro che la flagellazione della servitù volontaria? La formidabile macchina dei media non fa che rinverdire la vecchia menzogna del decreto celeste, impenetrabile, ineluttabile laddove il folle denaro ha soppiantato gli Dei sanguinari e capricciosi del passato.
Lo scatenamento della barbarie poliziesca contro i manifestanti pacifici ha ampliamento mostrato che la legge militare è la sola cosa che funziona efficacemente. Essa oggi confina donne, uomini e bambini in quarantena. Fuori, il cimitero, dentro la televisione, la finestra aperta su un mondo chiuso! È la messa in una condizione capace di aggravare il malessere esistenziale facendo leva sulle emozioni ferite dall’angoscia, esacerbando l’accecamento della collera impotente.
Ma anche la menzogna cede al disastro generale. La cretinizzazione di stato e populista tocca i suoi limiti. Non può negare che un’esperienza è in corso. La disobbedienza civile si propaga e sogna società radicalmente nuove perché radicalmente umane. La solidarietà libera dalla loro pelle di montone individualista individui che non temono più di pensare da sé.
Il coronavirus è divenuto il rivelatore del fallimento dello Stato. Ecco quanto meno un oggetto di riflessione per le vittime del confinamento forzato. All’epoca della pubblicazione delle mie Modeste proposte agli scioperanti, alcuni amici mi hanno illustrato la difficoltà di ricorrere al rifiuto collettivo, che suggerivo, di pagare le imposte, le tasse, i prelievi fiscali. Ora, ecco che il fallimento inverato dello Stato-canaglia attesta una disintegrazione economica e sociale che rende assolutamente insolvibili le piccole e medie imprese, il commercio locale, i redditi medio-bassi, gli agricoltori familiari e persino le professioni cosiddette liberali. Il fallimento del Leviatano è riuscito a convincere più rapidamente delle nostre risoluzioni ad abbatterlo.
Il coronavirus ha fatto ancora meglio. Il blocco delle emissioni produttiviste ha diminuito la polluzione globale, esso risparmia milioni di persone da una morte messa in programma, la natura respira, i delfini tornano ad amoreggiare in Sardegna, i canali di Venezia depurati del turismo di massa ritrovano un’acqua limpida, la borsa affonda. La Spagna si risolve a nazionalizzare gli ospedali privati, come se riscoprisse la sicurezza sociale, come se allo Stato sovvenisse lo Stato sociale che ha distrutto.
Niente è acquisito, tutto comincia. L’utopia cammina ancora carponi. Lasciamo alla loro vacuità celeste i miliardi di banconote e d’idee vuote che girano in tondo sopra le nostre teste. L’importante è ’curare da noi i nostri affari’ lasciando che la bolla affaristica si disfi e imploda. Guardiamoci dal mancare di audacia e di fiducia in noi stessi!
Il nostro presente non è il confinamento che la sopravvivenza ci impone, è l’apertura a tutti i possibili. È sotto l’effetto del panico che lo Stato oligarchico è costretto ad adottare misure che ancora ieri decretava impossibili. È all’appello della vita e della terra da riparare che vogliamo rispondere. La quarantena è propizia alla riflessione. Il confinamento non abolisce la presenza della strada, la reinventa. Lasciatemi pensare, cum grano salis, che l’insurrezione della vita quotidiana ha virtù terapeutiche inaspettate.

lunedì 27 aprile 2020

O ci salviamo da soli o affogheremo nella melma di un sistema in putrefazione

Della pandemia ormai si sa quasi tutto, anche che era stata prevista negli anni scorsi, a volte con sconcertante precisione, da scienziati ed esperti, regolarmente rimasti inascoltati. Non è una novità che quelli di lassù abbiano altre priorità, altri interessi, tipo rincorrere le borse, la finanza, i mercati, garantire al capitalismo pace e prosperità, cercare sempre il modo di come arginare il malcontento popolare. Altro che pandemie, allarmi sanitari, che richiedono di distorcere lo sguardo dai più loschi e materiali interessi ed occuparsi di qualcosa che va nella direzione opposta.
Sappiamo quindi che il virus denominato Covid-19 non nasce dal nulla, ma è il prodotto della dissennata impronta di quella macchina distruttrice denominata capitalismo nella natura, nell’ambiente; il tentativo di addomesticarli ai propri interessi, deforestando, inquinando, imponendo colture e allevamenti intensivi e conseguenti stili di vita ad essi assoggettati, globalizzando e trasformando l’umanità in una massa di consumatori ed un’altra di vittime sacrificali, produce, oltre ai tanti effetti sociali devastanti, anche malattie virali nuove, sconosciute, più sofisticate e più pericolose. Esse non vengono dal nulla, sono prodotti del sistema. E in quanto tali ne rappresentano tutte le storture di classe.
Se il coronavirus invaderà (come sta già facendo) l’Africa e tutti i paesi costretti alla povertà che abbondano nel Mondo, dove mancano acqua, alloggi, condizioni di alimentazione decenti, sarà strage, altro che le migliaia di morti che vengono contabilizzati attualmente. Ma anche dentro le società occidentali le condizioni dei ricchi e quelle della maggioranza della popolazione, con le sue frange più povere, fanno emergere modi differenti di vivere la pandemia: chi non ha un reddito sufficiente, chi vive una vita precaria, chi ha un alloggio modesto e malmesso, e chi non ha un tetto sotto cui ripararsi, chi vive nei campi, come i nomadi o gli irregolari dell’immigrazione lasciati senza dimora dalle leggi sicurezza; e poi chi è costretto a lavorare, a proprio rischio e pericolo, sia nell’ambito sanitario che anche negli altri settori, tutti costoro vivono la pandemia da vittime.
Il linguaggio bellico vomitato da capi di Stato e loro sottoposti nasconde una narrazione pericolosa, quella che impone l’emergenza militare per gestire l’emergenza sanitaria; quella che sguinzaglia eserciti e polizie e sfrutta il supporto delle nuove tecnologie diffuse, per tenere sotto controllo la popolazione e reprimere gli irrequieti, i non obbedienti; quella che compra il consenso delle masse scatenando la caccia agli untori, premiando i delatori, gli spioni, reprimendo chi rifiuta una gestione autoritaria della pandemia.
Non solo si condannano milioni di lavoratori a proseguire la produzione anche in settori non indispensabili o addirittura nocivi, come le fabbriche di armamenti, e spesso senza le minime protezioni; ma si impone il lavoro a distanza (smart working) prima negato, che per molti (vedi insegnanti) è diventato un vero incubo. In un presunto scontro tra autorità nazionali e autorità regionali e locali, emergono vocazioni ducesche, sindaci sceriffi, dittatori in miniatura attivi in una campagna elettorale permanente, e stupisce notare come tutto ciò abbia il consenso della maggioranza della gente, talmente impressionata e impaurita da abdicare alla propria libertà in cambio di una protezione poliziesca della salute. Protezione gestita da chi, in realtà, ha creato le condizioni perché la salute venisse minacciata, perché tanti si ammalassero, in migliaia morissero, colpiti direttamente o indirettamente dal virus.C’è da aspettarsi che le tecniche di controllo che si stanno utilizzando, subiranno un’impennata anche dopo, quando diverranno pura normalità.
I ducetti locali e nazionali sono stati gli artefici dei tagli alla sanità, dello smantellamento delle strutture pubbliche per stornare somme ingenti verso le private; sono stati i fedeli esecutori delle direttive di Maastricht o del FMI, che hanno ridotto “la sanità migliore al mondo” ad un immenso colabrodo che proprio nelle regioni più industrializzate d’Italia ha dimostrato tutti i suoi limiti. Sanità depotenziata, ambiente inquinato all’inverosimile: ecco il mix fatale in cui il piccolo virus ha trovato terreno fertile per spargersi.
Insomma, un gran bel casino in cui il giocattolo rischiava di scoppiare nelle mani dei potenti, che sono corsi ai ripari quando hanno cominciato a sentire il puzzo di bruciato degli incendi per le rivolte nelle carceri, degli assalti, i furti o le autoriduzioni ai supermercati, gli scioperi nelle fabbriche lasciate impunemente aperte su pressione di padroni avidi e irresponsabili. E allora ecco i sussidi, le casse integrazioni, i buoni pasto, e soprattutto i soldi alle imprese, tanti soldi, perché i primi, quelli lasciati allo sbaraglio, non si lamentino troppo, non vadano in escandescenze, non attizzino ribellioni e sommosse, e i secondi non falliscano, perché è sempre il mercato l’obiettivo principale da salvaguardare. Confindustria e i suoi servi a pagamento hanno evitato la chiusura della maggior parte delle aziende e spingono per la riapertura di quelle chiuse; persino le fabbriche di armi (da Cameri quella che assembla i cacciabombardieri F35, alla RWM in Sardegna, quella che produce munizioni per stati in guerra), con la scusa che danno occupazione, sono oggetto di cure e attenzioni; hanno addirittura concluso affari come l’acquisto di due sommergibili per 2 miliardi e 300 milioni di euro durante la pandemia: Leonardo, ora che probabilmente non potrà costruire navi da crociera, incrementerà la sua produzione nel ramo militare, sempre in nome dell’occupazione, ovviamente. In Sardegna non si fermano nemmeno le esercitazioni militari. E non è retorica ribadire quanti ospedali, reparti di terapia intensiva, apparecchiature si sarebbero potuti acquistare e costruire con quei soldi e con tutti gli altri che quotidianamente solo in Italia si spendono (70 milioni di euro) in nome di un concetto di “Difesa” che non serve a nulla per difenderci da un microscopico virus.
Dovrebbero chiedersi, i tanti che sono cascati nella trappola della paura con cui lo Stato ci sta schiavizzando, perché non si fermano neanche le esercitazioni militari, nel mare o in Sardegna o altrove; perché non si trovano le mascherine, un oggetto da pochi centesimi ma molto utile alla “Difesa” da una pandemia, ma abbiamo caserme e arsenali pieni di strumenti di offesa e di morte, e basi militari pronte a far la guerra ad ogni momento.
Quelli che “restano a casa” dovrebbero chiedersi perché le Borse sono rimaste attive in questi mesi, per quali speculazioni garantire?
E sarebbe il caso di cominciare a pensare che è giunta l’ora che chi ha speculato, chi si è arricchito, paghi il conto di tutto il danno che ha fatto all’umanità e al Pianeta; che non basterà un misero sussidio di sopravvivenza in emergenza, ma va garantita a tutti una vita dignitosa; chiedersi che se i rigidi parametri economici (lo spread, il PIL, le leggi di stabilità, il pareggio di bilancio, il tabù degli aiuti di Stato…) eretti come muri insormontabili per rigettare le richieste di una vita migliore fatte dalle classi lavoratrici, dai pensionati, dai disoccupati, ora sono saltati, ebbene potranno e dovranno saltare anche in seguito e definitivamente per assicurare il benessere delle masse popolari; che se l’aria ora è pulita perché non circolano auto e le ciminiere sbuffano di meno, allora si potrà risolvere il problema dell’inquinamento.
Tutte le narrazioni tossiche di economisti, uomini di Stato, generali, manager della finanza e delle multinazionali sono state sputtanate dalla pandemia: emerge una società che ha bisogno di mutuo appoggio, di solidarietà, di strutture sanitarie e servizi pubblici efficienti sempre, e non solo in emergenza, di ambiente pulito, di rappacificarsi con il Pianeta. Una società in cui non domini la Paura ma la consapevolezza dell’inutilità e della dannosità di uno Stato e di un capitalismo che ogni giorno uccidono la libertà, il benessere, la gioia di vivere, ed oggi hanno la faccia tosta (e la polizia) per presentarsi come i salvatori. Non vogliamo vivere in una prigione permanente in nome della nostra salute e della nostra libertà. O ci salviamo da soli o continueremo a galleggiare nella merda di un sistema in putrefazione e delle sue pandemie, di ieri di oggi e di domani.

domenica 26 aprile 2020

Ripensare radicalmente l’economia, la politica, la società

Seguire il dibattito intorno alla politica economica nazionale ed europea nella condizione di irrealtà che stiamo vivendo – ma foriera di ineludibili conseguenze sulle nostre esistenze presenti e future – può dare la misura di quello che intende apparecchiarci chi dirige le nostre sorti.
Ci troviamo immersi in una situazione che non è improprio definire distopica. Un intero pianeta assediato da un virus – che al momento si è rivelato poco mortale, anche grazie alle misure di contenimento e distanziamento che sono state adottate -, bloccato nelle sue più consuete attività, miliardi di persone costrette a vivere in un isolamento straniante, altrettante gettate allo sbaraglio in una condizione di precarietà assoluta, senza casa e senza cibo. Ecco di fronte ad uno scenario così drammaticamente pregnante, governi, poteri economici e media si comportano come se ci trovassimo di fronte ad una qualsivoglia crisi economica, di fronte ad un qualsivoglia evento eccezionale che passata la tempesta o ‘a nuttata – come diceva De Filippo – ci restituirà alle nostre normali – si fa per dire, perché non sarebbe normale contare decine di guerre, mostruose disuguaglianze, precarietà e violenza diffuse – esistenze.
La perversione, l’arroganza, la cecità e il cinismo delle classi dirigenti italiane ed europee (e mondiali) stanno nei provvedimenti che dovrebbero nelle loro intenzioni fare ripartire l’economia – un’economia di guerra e di depredazione, per intenderci -.  Simbolo di questi provvedimenti è quello che nel gergo economico-giornalistico viene sintetizzato nell’espressione immettere liquidità nel sistema. Fornire soldi – attraverso un prestito garantito – alle imprese affinché riprendano la loro attività. Il governo italiano si appresterebbe a far arrivare al mondo imprenditoriale ben 400 miliardi di euro, di cui la metà destinata a chi esporta. In questi giorni è forte la pressione di gruppi industriali per una rapida riapertura delle attività produttive. Addirittura le Confindustrie di Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna hanno prodotto un documento in cui paventano l’ecatombe dell’economia italiana se a breve non si riavvia la produzione.
Proprio in questi giorni è in corso anche un duro braccio di ferro nell’Unione europea riguardo alla gestione futura del debito che i vari Stati hanno contratto nell’emergenza. La sospensione del Patto di stabilità, decisa nei giorni successivi all’espandersi dell’epidemia, ha messo i singoli Stati nelle condizioni di aprire le maglie del debito per fronteggiare la crisi. Ma ritornati alla normalità come dovrà avvenire la gestione di questo debito? L’Italia, in un primo momento sostenuta da Francia e Spagna, ha proposto l’emissione di eurobond, titoli attraverso cui finanziarsi sul mercato ma  garantiti dall’Unione. Olanda e Germania sostengono invece che gli Stati in difficoltà potranno fare ricorso al Fondo salva Stati (Mes), il cui prestito dovrà essere seguito da un piano di ristrutturazione stabilito, con vincoli più o meno pressanti, dagli organi europei. Insomma un po’ quello che è accaduto con la Grecia.
Tutto qui, il piatto è servito: il mercato, la finanza, il Pil. E via si ricomincia come nulla fosse successo. Anzi più determinati e agguerriti di prima nel perseguire crescita e accumulazione.
Il premier Conte da giorni scomoda la Storia e vorrebbe essere ricordato come il salvatore di un modello economico e sociale il cui feticcio è rappresentato dai famigerati eurobond – uno strumento finanziario in mano a banche e speculatori . Ma se la Storia potesse insegnarci qualcosa ci direbbe che il breve lungo Novecento del trionfo del capitale, i cui artigli ancora ci avvinghiano in un abbraccio mortale, al suo culmine ci fa dono di un pianeta esanime, di un mondo profondamente diseguale e attanagliato da guerre e crisi.
Che poi non bisogna essere studiosi di economia per capire che finanziare le imprese in un momento di incertezza economica è pressoché inutile. Produrre in assenza di domanda non fa che aggravare la situazione. Senza contare il fatto che sono anni, dalla crisi del 2008, che si pompa liquidità nell’economia senza schiodarla dalla sua magra – per la stragrande maggioranza della popolazione – sopravvivenza. Eppure all’annuncio dei provvedimenti che il governo italiano si appresta ad assumere, l’unico inconveniente rilevato ha riguardato la farraginosità della burocrazia italiana che tarderebbe l’effettivo invio del denaro alle imprese, riducendone così l’efficacia. I grandi giornali italiani se ne sono fatti portavoce e si sono persino scomodate illustri penne del giornalismo nostrano. Ad esempio sul Corriere della Sera del 9 aprile, Gian Antonio Stella, in un articolo intitolato E ora siate semplici, dopo avere stigmatizzato la lentezza della burocrazia italiana, così chiosa : “Ma se questa, come viene ripetuto tutti i giorni, è la più grave catastrofe umana, sociale ed economica degli ultimi tre quarti di secolo, non val la pena di dare finalmente una brusca sterzata al modo ormai indifendibile di fare le leggi?”. Non è da meno Massimo Gramellini che, nella sua quotidiana rubrica sempre sul Corriere dopo aver preso atto che la questione, superata la fase di crisi, si gioca sulla ripresa dell’economia, scrive: “Che fare? Lavori pubblici e reddito di sussistenza, proprio perché sono le prime ricette che vengono in mente a tutti, rappresentano inevitabilmente dei cliché […] Servono capitali e cervelli freschi, in grado di pensare idee nuove e, in Italia, una parola nuova: sbrurocrazia”. Ecco individuato un nuovo e comodo capro espiatorio!
Più buonista Massimo Giannini che in un articolo su Repubblica, sempre del 9 aprile, significativamente intitolato La borsa e la vita, dopo avere anch’egli sottolineato l’influsso negativo della burocrazia, a proposito del far ripartire o meno l’economia, la cosiddetta fase 2, si schiera decisamente a favore appunto della vita e non della borsa. L’importante però che quando tutto riprenderà a funzionare lo faccia nei modi canonici: crescita del Pil, degli investimenti, dell’export.
Se è vero che stiamo vivendo una svolta epocale, certo questo dibattito e la stragrande maggioranza di quello che si legge o si ascolta sui principali media italiani non sembrano essersene accorti.
Ma a dispetto di quello di cui si dibatte nel giornalismo tricolore, sarà necessario un profondo e radicale ripensamento e dell’economia e della società e della politica perché, come ritengono molti studiosi, la pandemia attuale è il frutto avvelenato (e un primo serio avvertimento) del rapporto squilibrato e predatorio che noi esseri umani abbiamo con la natura, di cui la crisi ambientale e climatica sono le più lampanti evidenze.

sabato 25 aprile 2020

Corbari Otello e Iris tornano sui monti

È il 23 maggio 1944 sono le 7.30 di sera, Silvio Corbari, Iris Versari e Adriano Otello si consegnano al console Marabini comandante in capo della Guardia Nazionale Repubblicana di Forlì. Il console stringe loro la mano e li invita a salire sulla sua auto per rientrare subito a Forlì. Lasciando di conseguenza gli intermediari a piedi, che proseguiranno a bordo degli altri mezzi.
Sono circa le 20 quando la Lancia Augusta oltrepassa gli autocarri in sosta sulla strada, suscitando gli sguardi stupefatti e trionfanti di ufficiali e soldati. Molti di loro avevano scommesso sull'impossibilità di un simile epilogo. Evidentemente, gli uomini di azione finiscono sempre per intendersi, a dispetto degli odi e degli ideali, sentimenti poco profondi in chi subisce il fascino della bella morte. Il console si volta indietro e Corbari gli sorride, con un'espressione di malcelata complicità. Ebbene si, conferma a se stesso Marabini, ricambiando il sorriso: oggi ho ottenuto una doppia vittoria, dissolvere la più pericolosa banda che infesta la Romagna, e arruolare un valoroso combattente.
L'autista accelera, dirigendosi verso Forlì. Gli autocarri sono più lenti, e ben presto vengono distanziati.
"Stia tranquillo, non c'è alcun pericolo in questa zona", lo rassicura il console. A 6 chilometri da Predappio, l'autista comincia avvertire una crescente inquietudine: non gli piace la situazione che si è creata preferisce farsi raggiungere dalla scorta. E finge un guasto meccanico per fermarsi sul bordo della strada. Corbari, disarmato, fa un cenno ad Iris. Lei gli passa la pistola che teneva nascosta sotto la camicia.
"Ehi console..." dice puntandola alla testa di Marabini.
"Ma ci hai creduto davvero? Sei stato così fesso da illuderti che ci saremmo arresi? Guardami negli occhi: ti sembro uno capace di passare dalla tua parte, di tradire i compagni?"
Il console è impietrito. Fissa il vuoto davanti a se, e non ha neppure il tempo di riflettere sulla propria ingenuità.
Corbari gli spara un colpo alla nuca.
L'autista viene rilasciato con la raccomandazione di raggiungere l'abitato e raccontare cosa sia veramente accaduto.
Corbari Iris e Otello tornano sui monti.
(tratto da Ribelli di Pino Cacucci)

venerdì 24 aprile 2020

Mai cederemo la nostra libertà!

Lo stato d’eccezione rischia di diventare la norma. L’emergenza Covid-19 non si risolverà in tempi brevi e di conseguenza la vita delle persone sarà sconvolta profondamente e con effetti duraturi nel tempo. I numeri sono drammatici: migliaia di morti; i reparti di terapia intensiva sono completamente collassati; la crisi sociale ed economica globale, scatenata dalla pandemia, ha portato alla luce ferite e contraddizioni molto tragiche. Le diseguaglianze di classe, la disparità nel poter disporre di soluzioni abitative adeguate, la precarietà di lavoratori che non sanno se potranno mai tornare a percepire un salario, il dramma di chi una casa nemmeno ce l’ha: sono tutti elementi di una tragedia sociale che è alle porte, e che senza adeguati contraccolpi rischia di avere un impatto devastante sugli anni a venire.
Ma in una situazione emergenziale così tesa, qual è il campo d’azione dello Stato e dell’autorità? Fino a dove si sta spingendo il controllo sulla vita degli individui?
Per decreto si impedisce alle persone fisiche di uscire dalla propria abitazione, tranne che per motivi gravi e necessari, ma anche di lavoro (il capitale, purtroppo, continua a essere il Moloch a cui ogni cosa va sacrificata in nome del profitto). Lo stato d’emergenza è supportato da una politica di controllo e repressione, col pretesto di colpire e punire comportamenti che mettono in pericolo lo stato di salute dei cittadini. Il potere d’azione dello Stato e delle autorità sembra non avere più limiti, e comprime sempre più la vita degli individui. Negli ultimi giorni si è discusso di tracciare lo spostamento dei cittadini infetti e dei loro contatti più stretti tramite l’uso di GPS, il controllo sui dati delle carte di credito e quelli forniti dalle compagnie telefoniche. Si ipotizza inoltre l’utilizzo di app per smartphone, che segnalino la presenza di persone contagiate, e di videocamere a circuito chiuso (in cui sia possibile installare tecnologie di riconoscimento facciale); l’ENAC (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) ha rilasciato un documento in cui viene autorizzato e sciolto da ogni restrizione l’utilizzo di droni per il controllo delle persone sul territorio. Si stanno addirittura formando “gruppi di controllo del vicinato” per denunciare eventuali violazioni: la psicopolizia – almeno concettualmente – non è molto lontana. Urge una presa di consapevolezza diffusa e radicale. L’emergenza non può in nessun modo giustificare una tale intromissione dello Stato nella vita degli individui. Esiste il pericolo concreto che lo stato d’emergenza diventi la norma e dia vita ad una prassi politica ferocemente autoritaria la quale, aiutata da mezzi tecnologici ambigui e liberticidi, rischia di soffocare a tempo indefinito qualsiasi libertà individuale. Non sappiamo se la deriva autoritaria permanente sia un rischio prossimo o remoto, ma in nessun caso assisteremo in silenzio.
Mai cederemo la nostra libertà!

mercoledì 22 aprile 2020

Pandemia e anarchia, quali proposte?

L’Anarchia non è sinonimo di caos o di individualismo estremo ed egoista. Queste semmai sono caratteristiche dell’attuale società capitalistica. L’attuale periodo di pandemia globale è un’opportunità per i capitalisti ed in generale per quell’1% che determina e decide le nostre vite. Si sa, a periodi di grandi disastri, corrispondono grandi profitti.
Gli anarchici imolesi restano fedeli al motto del grande geografo dell’800 Elisée Reclus: “l’Anarchia è la massima espressione dell’ordine”. Ciò vuol dire che libertà fa rima con responsabilità, verso di sé e verso gli altri. E’ per tale ragione che mal tolleriamo i divieti imposti con toni terroristici. Cio’, si badi bene, non vuol dire che tali divieti siano inutili, persistendo la necessità di rallentare l’espansione del contagio. Il distanziamento sociale si é reso indispensabile, vista la velocità di propagazione del virus e l’attuale fragilità del nostro sistema sanitario nazionale, che sconta tre decenni di tagli progressivi, la trasformazione in azienda e la conseguente sottomissione alle assurde regole di mercato applicate ad un servizio pubblico essenziale (pareggio di bilancio).
Fuorviante la comunicazione istituzionale, poco chiara e generatrice di panico. Assurdi alcuni divieti (passeggiate ed attività all’aria aperta solitarie, nessuna attenzione ai bisogni dei bambini), che non tengono in minimo conto la salute generale del singolo, considerato quale incapace di ragionare e degradato da cittadino a suddito, incapace di comprendere cosa sia bene per se e gli altri.Numerosissimi i lavoratori e le lavoratrici, di ogni categoria, costrette a lavorare nell’emergenza, spesso senza alcuna protezione; gli scioperi spontanei, nelle produzioni ritenute non essenziali, sono riusciti ad imporre pratiche di sicurezza sanitaria ponendo un limite alle ciniche “distrazioni” padronali tendenti unicamente al profitto. Molti coloro che, spaventati dall’assillante narrazione del contagio proposta dai media, o intimoriti dalla delazione isterica dei cittadini trasformatisi in vigilantes, rinunciano volontariamente alle libertà consentite dall’autorità. Paradossalmente, questo stato di panico indotto provoca un effetto “nocebo”, di abbassamento delle misure immunitarie, aumentando i rischi di ammalarsi.
Urge, riabituarci a dare fiducia ai nostri simili, (ora che la distanza é stata sancita per legge), per dare una risposta collettiva alla crisi:
• nell’immediato tamponi e test sierologici anticorpali per acquisire dati utili alla ricerca; protezione adeguata dei sanitari e delle altre categorie di lavoratori a rischio; distribuzione gratuita di cibo ai non abbienti; moratoria degli sfratti; blocco di bollette, mutui, affitti pubblici e privati; indennizzo significativo ai lavoratori costretti a lavorare in emergenza; potenziare i rifugi contro la violenza domestica; sanatoria generalizzata dei lavoratori immigrati; svuotamento delle carceri, (luoghi insalubri ed inumani); psicoterapia e aiuto per il disagio psichico derivante dalle misure di contenimento; presa in carico di senzatetto e immigrati irregolari; potenziamento della ricerca (finanziamento e stabilizzazione dei contratti di lavoro); distribuzione di denaro per affrontare l’emergenza ad ogni singolo cittadino con reddito inferiore a 30 mila € annui; azzeramento delle spese militari e reinvestimento in strutture socio sanitarie, (70 milioni di euro al giorno, due miliardi al mese, con le spese militari di un solo giorno, si potrebbero costruire e attrezzare 6 nuovi ospedali o comprare 25.000 respiratori);
• per il futuro auspichiamo che l’intera popolazione si renda conto che bisognerà costruire campagne di mobilitazione e lotta per l’assistenza sanitaria universale e gratuita; per il diritto all’abitare; per il diritto al lavoro sicuro (in produzioni necessarie per la comunità con riconversione di quelle nocive) ed equamente retribuito; assistenza universale all’infanzia, agli anziani ed ai soggetti più fragili della collettività; istruzione universale e gratuita; ampliamento di parchi e riserve naturali; zero immissioni in atmosfera e zero produzione di rifiuti; l’acqua, l’elettricità, il gas e le telecomunicazioni, pubblici e non privati; potenziamento e gratuità dei trasporti pubblici; filiera corta ed etica delle produzioni alimentari; socializzazione dei profitti delle aziende che ricevono finanziamenti pubblici.
Utopia? Forse. Ma nulla é come prima, né lo tornerà.
Avreste immaginato qualche mese fa di vivere un simile incubo?
Sicuramente queste rivendicazioni legittime ed urgenti, non possono trovare accoglimento nell’attuale sistema economico neoliberista, dedito al profitto di pochi a scapito della moltitudine.
Un sistema che ha dimostrato tutta la propria fragilità e ora corre ai ripari per tentare di minimizzare i disastri che esso stesso ha contribuito a generare.
E’ per questa ragione che é arrivato il momento di metterlo in soffitta e sostituirlo con una economia federalista e solidale, dal basso, dedita alle produzioni necessarie allo sviluppo ed al benessere dell’umanità, mettendo fine alla devastazione ed al saccheggio del pianeta, allo sfruttamento umano, animale e delle piante, un modello sociale da tempo pensato dagli anarchici che ponga al centro i bisogni umani e non il profitto privato.
Un mondo migliore é indispensabile!
A meno che non ci si voglia rassegnare a vivere il resto della propria vita tappati in casa o con una mascherina in faccia, ipotesi tutt’altro che fantascientifica.
Oppure, se non vorremo cambiare questa struttura economico/sociale, prepariamoci a fronteggiare una crisi economica spaventosa (le spese necessarie di oggi, le pagheremo caramente domani) che porterà con se povertà, fame, l’instaurazione di dittature, nuove guerre, sconvolgimenti climatici e un prevedibile aumento dell’inquinamento di ogni genere dovuto alla furibonda ripresa delle attività produttive senza alcun limite, alla rincorsa dei punti di PIL perduti.
Assemblea degli anarchici imolesi

martedì 21 aprile 2020

Coronavirus ed emergenza: non ci dimentichiamo da quale parte della barricata siamo

Di fronte a questa crisi stato e capitale stanno mostrando, con un’evidenza mai raggiunta prima, tutti i propri enormi limiti e la loro strutturale incapacità di tenere conto delle necessità e della salute delle persone.
In Italia, le scelte politiche dei governi hanno costantemente tagliato la sanità pubblica (più che pubblica, statale). Parte delle poche risorse è stata dirottata verso la sanità privata, anche durante l’emergenza attuale. La contemporanea “regionalizzazione”, secondo un modello aziendalista-capitalista, ha poi reso questo servizio, che in teoria dovrebbe essere di carattere universale, fortemente differenziato tra regione e regione, tra regioni ricche e regioni povere.
I pazienti sono diventati clienti e le cure prestazioni d’opera monetizzate in un quadro generale di competizione e profitto.
Questa impostazione del servizio sanitario svela in questo momento drammatico il suo vero volto lasciandoci tutti in balìa della sua filosofia che non è certo quella della pietà umana e del riconoscimento dell’altro come un nostro simile bensì quella del calcolo delle esigenze materiali minime per il massimo profitto che si traducono ora nella carenza di strutture attrezzate, di personale assunto, di materiale di consumo nei magazzini.
Il risultato è che i sempre più risicati fondi e il sempre più ridotto personale, già sfruttato al limite nell’ordinario, non lasciano margini per le situazioni di emergenza. Salvo poi ammettere che i posti in terapia intensiva si stanno esaurendo, il personale scarseggia, i respiratori non ci sono e sarà necessario effettuare delle scelte su chi curare. E tutto questo quando lo Stato sborsa senza batter ciglio 70 milioni di euro al giorno per spese militari. Con i 70 milioni spesi in uno solo dei 366 giorni di quest’anno bisestile si potrebbero costruire ed attrezzare sei nuovi ospedali e resterebbe qualche spicciolo per mascherine, laboratori di analisi, tamponi per fare un vero screening. Un respiratore costa 4.000 mila euro: quindi si potrebbero comprare 17.500 respiratori al giorno, molti di più di quelli che servirebbero ora.
Abbiamo assistito in queste settimane a una totale cialtroneria del ceto politico nell’affrontare l’emergenza, con esponenti di tutte le aree che hanno affermato tutto e il contrario di tutto, invocando la chiusura e l’apertura a seconda di ciò che invocava l’avversario. Abbiamo visto il governo impugnare la chiusura delle scuole marchigiane salvo poi chiudere tutto il Paese pochi giorni dopo, abbiamo visto opportunismi ributtanti e ora assistiamo alla retorica del “ce la faremo”.
Se ce la faremo, non sarà certo grazie ai governi nazionale e regionali. Non sarà certo grazie alla massiccia militarizzazione di città e confini. Non sarà certo grazie alle imprese, che tramite Confindustria hanno gettato la maschera scegliendo esplicitamente il profitto. Lo hanno dichiarato in modo chiaro e netto, senza giri di parole, senza vergogna: non chiudiamo, la produzione deve andare avanti. Questo ha portato a scioperi spontanei in molte aziende, con le centrali sindacali a inseguire le lotte dei lavoratori che non hanno voluto cedere supinamente alle pretese padronali. L’inseguimento dei sindacati di regime ha raggiunto il traguardo del ridicolo protocollo siglato il 14 marzo, contenente solo obblighi per i lavoratori e solo raccomandazioni per le imprese.
Questo disgustoso cinismo, questa fame di profitto unita al disprezzo per la salute di chi lavora, proprio perché espressi in un momento così eccezionale, non devono passare e lor signori ne devono rendere conto.
Questa crisi la sta pagando soprattutto chi lavora in sanità ed è sotto la pressione continua di turni massacranti e dei crescenti casi di contagio e di morti fra il personale stesso.
Nessun media mainstream ha ripreso la denuncia degli avvocati dell’associazione infermieri, un’istituzione che non ha nulla di sovversivo. Nella narrazione dominante infermiere ed infermieri sono descritti come eroi, purché si ammalino e muoiano in silenzio, senza raccontare quello che succede negli ospedali. Gli infermieri che raccontano la verità sono minacciati di licenziamento. A quelli che vengono contagiati non viene riconosciuto l’infortunio, perché l’azienda ospedaliera non sia obbligata a pagare indennizzi a chi si trova ogni giorno a lavorare senza protezioni o con protezioni del tutto insufficienti.
Questa crisi la sta pagando chi ha un lavoro saltuario o precario, al momento senza reddito e senza nessuna certezza di riavere il lavoro a epidemia conclusa.
La sta pagando chi si trova a casa in telelavoro a dover conciliare una presenza casalinga spesso molto complessa con bambini o persone da accudire e contemporanei obblighi produttivi.
La sta pagando chi è costretto ad andare nel proprio luogo di lavoro senza nessuna garanzia per la salute.
La sta pagando chi è povero, senza casa, chi sopravvive per strada o in un campo nomadi.
La stanno pagando i lavoratori e le lavoratrici che hanno fatto scioperi spontanei contro il rischio di contagio e sono stati a loro volta denunciati per aver violato gli editti del governo, perché manifestavano in strada per la loro salute.
La stanno pagando i reclusi nelle carceri dello Stato democratico che hanno dato vita a rivolte in 30 prigioni in difesa della propria salute. Durante le rivolte ci sono stati quattordici morti. Quattordici persone che -ci raccontano- sarebbero morte tutte per overdose da farmaci auto indotta. Quattordici persone sottomesse alla responsabilità di un sistema a cui forse non è parso vero di poter applicare con pugno di ferro altre misure di contenimento, non tanto dell’infezione ma dei carcerati stessi.
In una situazione esplosiva a causa delle condizioni già ai limiti dell’umano che da anni -in modo strutturale e non eccezionale- si vivono all’interno delle carceri il governo ha pensato bene di bloccare ogni visita senza prendere misure efficaci a tutela della salute dei carcerati.
Purtroppo sappiamo bene che una volta conclusa e superata questa fase di emergenza saranno sempre le stesse persone a rimetterci in termini di impoverimento e di ulteriore  sfruttamento. Perché anche se nessuno di noi ha la sfera di cristallo, si può già prevedere che useranno la scusa della “ripresa”, del “risanamento economico”, del “superamento della crisi”, per comprimere sempre di più gli spazi di lotta nei posti di lavoro e le libertà civili e politiche. Non sarà certo una sorpresa se la retorica della “responsabilità” sarà utilizzata per affinare ulteriormente i dispositivi disciplinari e di controllo sociale, per limitare ancor di più la libertà di movimento, per limitare ancor di più la libertà di scioperare e manifestare, che ora è di fatto sospesa. Già adesso il numero dei denunciati per la violazione dei decreti supera quello dei contagiati. Su questo saremo chiamati a vigilare e agire senza tentennamenti
Siamo solidali con tutt* coloro che in questo momento stanno rischiando la propria vita per salvarne altre, con tutto il personale in servizio negli ospedali, con chi lavora e sciopera per garantire condizioni di sicurezza per sé per gli altri, con  tutt* coloro che non possono permettersi di #restareacasa perchè una casa non ce l’hanno. Siamo solidali con chi ha paura perché teme per sé e per i propri cari. Siamo solidali con tutt* coloro che si sono ammalat* e sono stat* strappat* da casa senza poter avere contatti con i propri cari a causa dell’assenza di dispositivi di protezione, siamo solidali con tutt* coloro che stanno morendo con cure palliative per l’assenza di strutture di emergenza adeguate e lo siamo anche con chi ha dovuto prendere delle decisioni in merito alle vite altrui su chi intubare e chi no nel disperato tentativo di ridurre il danno al minimo quando il danno è comunque certo.
Non ci dimenticheremo di chi è la responsabilità di quello che accade oggi: è dei governi e degli stati che hanno sacrificato la salute di noi tutti scegliendo il profitto, la guerra e il rafforzamento del loro potere.
Ma non si illudano: le lotte non andranno in quarantena.


mercoledì 8 aprile 2020

Appello e richiesta di aiuto dei detenuti semiliberi reclusi al carcere di Torino


Diffondiamo volentieri...

Appello e richiesta di aiuto dei detenuti semiliberi reclusi al carcere di Torino

Questo è il disperato appello e richiesta di aiuto che gli ospiti della palazzina dei semiliberi ,oggi occupata da soggetti in articolo 21 per lavoro esterno, lanciano a tutti gli amministratori e tutori della salute e della vita altrui.
Viviamo in un ambiente di circa 100 metri quadrati suddiviso in più camere per un totale di 45 persone, 2 servizi igienici per tutti e al pian terreno di questa struttura ci sono anche delle mamme con dei bambini innocenti che continuano ad essere rinchiusi.
Alle nostre, critiche e disperate, condizioni assistono anche gli operatori della polizia penitenziaria, vittime anch’essi del totale menefreghismo istituzionale onnipresente e oggi ancor più irritante. Siamo da giorni isolati a causa dell’accertamento della contaminazione da virus di un soggetto tra noi. Non veniamo visti da nessuno e nessuno ne parla per voler nascondere la realtà di un lazzaretto che lascerà alle spalle morti preannunciate, e forse volute, nella più totale indifferenza.
Pandemia, terza guerra mondiale, #state a casa, #ce la faremo: giuste considerazioni del momento che attraversiamo, ma fatte solo esclusivamente per tirare acqua al proprio mulino.
Allo stato attuale nella nostra palazzina permangono i semiliberi che si son visti rigettare richiesta di licenza premio come previsto e disposto dal Dpcm ( scritto con l’apparente obbiettivo di sfollare i carceri). A testimonianza di una non volontà di assicurare, in un momento di così altamente critico e rischioso, la tutela della salute e della vita.
Non privilegiano coscienza, sentimenti umanitari e ragionevolezza, termine quest’ultimo spesso adoperato in sede di formulazione delle sentenze di condanna quando si presentano non poche incertezze e lati oscuri. Poltrona, autorità e potere è ciò che sovrasta ogni cosa compresa la vita. Eppure Cesare Beccaria già nel lontano 1700 lottava contro la pena di morte e contro la tortura che a secoli di distanza trova diversa applicazione nelle condizioni psicofisiche che viviamo: massacranti ed insopportabili.
Pure l’OMS, l’ISS e la stessa Presidenza del Consiglio dei Ministri consigliano, obbligano, sanzionano, per effetto di direttive salvavita paradossalmente escluse e nascoste all’interno delle carceri, bombe ad orologeria che coinvolgono figli, mogli, madri, fratelli angosciati dal cattivo e sempre più incerto futuro che ci aspetta. Ma dove sono finiti i diritti umani riconosciuti e sanciti nelle costituzioni di società e paesi che ancora oggi hanno il coraggio di autodichiararsi civili, industrializzati, sviluppati e anche democratici? Il razionale è fortemente discriminante!
Oggi purtroppo si registra il primo detenuto morto per COVID 19, o forse il primo che hanno avuto il coraggio di rendere pubblico dopo tanti silenziosi casi. La situazione può precipitare in tutto il paese se dal carcere vengono a svilupparsi i cosiddetti contagi di ritorno.
E allora perché non prevenire questa ecatombe attraverso provvedimenti pro tempore? Almeno fino al perdurare dell’emergenza sanitaria, magari attraverso l’ampliamento dell’applicazione dell’articolo124 del decreto legge 18/2020 nei confronti di coloro che abbiano già dato prova di buona condotta, nei confronti di chi gode di permesso premio, con obbligo di permanere presso il proprio domicilio o altro luogo di assistenza.
Il nemico attuale è invisibile, imprevedibile e silenzioso per tutti ma letale per qualcuno. Chi, potendo farlo, non interviene oggi, sarà suo complice in responsabilità soggettive e oggettive di esiti criminali contro la salute e contro la vita.
Aiuto è ciò che chiediamo, aiuto è ciò che ci dovete. Già è troppo tardi...fate presto!

Domenica 5 aprile
I DETENUTI RECLUSI E ISOLATI NELLA PALAZZINA DEI SEMILIBERI DEL CARCERE DI TORINO


domenica 5 aprile 2020

Tav, velocità, virus


Se c'è qualcosa che abbiamo sentito gridare fino alla noia in questi anni è che il Tav Torino - Lione serve a far circolare più velocemente (di circa una mezz'ora) persone e/o merci (a seconda di chi ne parla).
Ci è stato detto che una maggiore velocità è necessaria per essere competitivi nel mercato internazionale, in barba ad ecosistemi, alla salute delle comunità locali, agli effetti sociali dell'alta velocità.
Oggi ci troviamo all'interno di una crisi, quella provocata dal virus Covid19, che si è sviluppata a delle velocità mai viste prima, portando il contagio in gran parte del globo. Il Coronavirus ha viaggiato nei corpi di manager, amministratori delegati, e purtroppo turisti, lavoratori della logistica e del trasporti. In pochissimo tempo questa crisi ha dimostrato tutto il rovescio della iperconnessione su cui si basa il nostro modello di sviluppo.
Non solo, il virus ha interrotto le catene del valore per cui uno specchietto prodotto in Lombardia viene assemblato a una carrozzeria fatta in Brasile e ad un motore tedesco. Ha insomma dimostrato tutta la fragilità di questo sistema di produzione che esternalizza e scorpora in mille parti il lavoro operaio. Naturalmente poco importa se oggi si fermano le produzioni della componentistica per auto, ma ben diverso è l'impatto di queste esternalizzazioni se si parla di respiratori, mascherine, dispositivi protettivi, reagenti, tamponi di cui c'è continua e drammatica carenza. Questa crisi fa emergere tutte le contraddizioni del libero mercato e delle sue leggi che non si basano su cosa è necessario produrre, dove è necessario farlo e quando, ma solo sulla regola del profitto. Allo stesso modo la folle circolazione con cui vengono rimbalzate le merci e le persone all'interno di questo sistema è ciò che le valorizza, che ne aumenta il prezzo e i profitti per i capitani d'impresa.
David Harvey nel suo libro "L'Enigma del Capitale" afferma che: "Nella circolazione del capitale la continuità del flusso è molto importante. Il processo non può essere interrotto senza generare perdite. Vi sono anche forti incentivi ad accelerare la velocità di circolazione. Coloro che riescono a muoversi più rapidamente di altri attraverso le varie fasi della circolazione del capitale accumulano profitti maggiori rispetto ai concorrenti. L'accelerazione permette quasi sempre di realizzare maggiori profitti, perciò le innovazioni che contribuiscono ad accelerare il processo sono molto ricercate." Oggi vediamo i risultati di questa folle corsa alla crescita ad ogni costo. Proprio per questo gli squallidi industriali nostrani che non perdono occasione a sottolineare la strategicità (per loro) della costruzione del TAV oggi fanno pressioni al governo per continuare a tenere aperto e produrre in barba alle centinaia di migliaia di vite esposte al rischio contagio quotidianamente sui posti di lavoro.
Chi in questi anni si è opposto alla costruzione del TAV Torino - Lione lo ha fatto partendo da una chiara ragione: la nostra vita, quella della nostra valle, l'habitat delle nostre montagne, non vale il guadagno delle lobby del mattone, dei promotori della crescita ad ogni costo, dei politici e dei mafiosi. Oggi, in maniera più sibillina, stiamo sperimentando su tutto il territorio nazionale quello che in Val di Susa è chiaro da 30 anni: questo modello di sviluppo è insostenibile e va cambiato. Che si rischi il cancro per scavare un buco che forse farà viaggiare un paio di calzini, o un manager con mezz'ora di anticipo tra Torino e Lione, che si rischi di rimanere contagiati dal Coronavirus per non far perdere i profitti di qualche mese a qualche industriale, la sostanza non cambia. È il momento di rendersi conto del folle e mortifero sistema di sviluppo in cui siamo stati gettati dall'avidità di pochi e riprendersi la gestione delle risorse, la decisione dal basso di cosa è opportuno e necessario produrre e costruire, e di cosa non lo è.

Infoaut


sabato 4 aprile 2020

Muoiano gli affamatori! Viva il pane!


«Moiano gli affamatori! Viva il pane!» scriveva Manzoni nei Promessi Sposi (Capitolo XII). E oggi?
Da Catania a Napoli, da Bari a Palermo, il Meridione assume sempre più i connotati di una polveriera pronta ad esplodere: si moltiplicano i tentativi di esproprio nei supermercati, si diffondono con velocità incoraggiante forme embrionali di organizzazione in tal senso, addirittura un tir carico di alimenti viene assaltato in Puglia, o come a Palermo con un Assalto ad un supermercato Lidl in viale Regione siciliana, dove una ventina di persone ha riempito i carrelli e provato a forzare le casse: "Non abbiamo soldi e non vogliamo pagare". Sono stati chiamati gli agenti di polizia e i carabinieri. C'è stato il caos per qualche ora. In città sono stati assaltati anche alcuni furgoni che trasportavano derrate alimentari.  Sul gruppo Facebook «Noi», si parla di disperazione per le condizioni economiche e si inneggia anche ai Gilet gialli francesi. Parecchi ci mettono la faccia e dicono che a casa ci può stare chi ha lo stipendio fisso.
La sensazione è che i titoli dei giornali più o meno progressisti della società civile, che notano preoccupati come la paura inizi a divenire rabbia, per una volta esprimano un’opinione conforme alla realtà; e quest’impressione viene solamente rafforzata dalla ricomparsa sulle testate nazionali del babau della mafia. Di fronte all’eccedenza sociale e politica del Mezzogiorno, del resto, basta tirare fuori dal cilindro la parolina magica e appiattire la narrazione e l’analisi trasportandole nel dietro le quinte di una fiction da prima serata: la mafiosità si configura come uno specchietto per allodole che da un lato criminalizza la rabbia di chi ieri non arrivava alla fine del mese, figuriamoci oggi alla fine della quarantena, dall’altro invoca una volta di più a stringersi a coorte in difesa dello Stato. Senza lanciarci in lunghe considerazioni sull’argomento, risulta subito evidente come il mondo di vertice della criminalità organizzata e gli episodi dei supermercati vivano di traiettorie a dir poco estranee: questi fatti, unitamente ad un’intensificazione generale dei comportamenti di illegalità diffusa, testimoniano che la “bolla pronta ad esplodere” sia in realtà un conflitto già deflagrato.
Lo Stato si asserraglia in difesa, agitando spauracchi concettuali e narrativi e, soprattutto, rinforzando i suoi dispositivi fisici di controllo: che le forze dell’ordine presidino i supermercati, che i manganelli facciano capolino nelle corsie di ospedale, che la polizia postale rintracci gli “sciacalli della rabbia sociale” che dal web gettano benzina sul fuoco. La realtà parla una lingua ben diversa e racconta delle ampie fasce di popolazione nel Meridione che risultano escluse dai meccanismi di tutela dello Stato, dai sistemi di welfare al mare magnum del lavoro nero e grigio: l’emergenza Covid-19 ha disvelato e indicato con forza tutte le crepe che adesso possono farsi voragine. Gli aiuti economici tanto millantati non arrivano, la cassa integrazione ad oggi è una promessa non suffragata dalla realtà, l’estensione del reddito di cittadinanza, o l’erogazione di un reddito di quarantena, risulta un miraggio: l’illusione di uno stato di diritto in grado di tutelare e regolamentare si sgretola con la stessa velocità con cui si saturano i reparti di terapia intensiva. Tenendo a mente la necessità di una prova ulteriore, due dati possono essere notati con facilità: ad oggi, la paura sociale non si dà la configurazione della “guerra fra poveri”, ma verticalizza spontaneamente la rabbia verso l’alto. Le invocazioni al governo scarseggiano, così come l’espressione massificata di un dissenso da convertire in forza elettorale d’opposizione; si erge il supermercato come luogo privilegiato di conflitto, come obiettivo strategico per la risoluzione, materiale e materialistica, dei propri bisogni.
Nell’ultimo decennio, l’atteggiamento che leggeva ipermercati e centri commerciali come non-luoghi è andato evolvendosi, fino ad ipotizzare che questi ultimi siano forse gli unici, veri luoghi della contemporaneità occidentale; e questo a maggior ragione in un momento in cui le lunghe code per le spesa sono l’unico momento di contatto umano nell’isolamento della quarantena. Gli episodi più lampanti degli espropri, le pratiche di solidarietà come il “carrello sospeso” e anche, più semplicemente, le chiacchierate nelle corsie rappresentano aspetti interconnessi di un’unica tendenza: la diffusione e il progressivo rafforzamento di una sorta di comunità embrionale, che prova spontaneamente ad organizzarsi per soddisfare i suoi bisogni, dalla materialità dei pacchi di pasta alla necessità di uno sguardo amico. Una possibile forza, certamente in divenire, che però fa già spavento: se la paura è un dispositivo di controllo eccezionale e a basso costo, è interessante notare come gli spettri che animano la narrazione della controparte tornino ad essere inseriti in un campo ben preciso e familiare. Confindustria demonizza lo sciopero, Conte tenta l’equilibrio tra il fantasma del blocco economico e le necessità sanitarie, le informative dei servizi espongono il rischio di rivolte e sommosse nel Mezzogiorno: nel deflagrare dei conflitti e all’ombra dei timori del nemico, la fine della produzione, della merce, della pacificazione.