..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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lunedì 30 aprile 2018

1° Maggio: il lavoro non si festeggia. si abolisce


All'inizio del secolo la brutalità del lavoro salariato e la logica spietata delle merci diede il via ad appassionanti ammutinamenti anticapitalisti. Il proletariato individuando il lavoro come fonte di tutte le sue miserie poneva in pratica la sua distruzione. Oggi gli eredi degli artefici dell'annientamento proletario nel periodo fra le due guerre (p.c.i., sindacati, etc.) spacciano il lavoro come ultimo ritrovato ai mali del proletariato. Il dominio dei burocrati-stalinisti è fondato sulla menzogna e non possono tentare di conservarlo se non continuando a mentire. Attenti burocrati stalinisti! Il volto ghignante del proletariato che risorge ridicolizzerà tutti i tentativi di recuperarlo alla logica della merce e del lavoro. Sadico come dovrà essere il Proletariato se la prenderà per primo con quelli che vogliono parlare per lui senza essere lui. La liberazione dal lavoro è la condizione preliminare per superare la società dei consumi e per l'abolizione nella vita di tutti della separazione tra tempo di lavoro e tempo libero, settori complementari di una vita alienata in cui si proietta all'infinito la contraddizione interna della merce tra valore d'uso e valore di scambio. La concentrazione capitalistica dei mezzi materiali e ideologici di produzione e al sua distribuzione sociale si trova di fronte sempre più minacciosa l'insoddisfazione crescente di tutti. La società del capitale promette, ma non può mantenere. Non può mantenere alcuna promessa di felicità poiché il suo fine stesso (produzione) ed i suoi mezzi (lavoro, etc.) sono chiaramente oppressivi. I proletari stanno lanciando la sfida alla società e non per una società diversa o migliore ma per l'abolizione di ogni società (intesa come agglomerato di individui-merci retti da uno scopo ad essi superiori). La felicità in armi esige di prendere il posto dell' infelicità oggi esistente. La distruzione del dominio del capitale e dei suoi strumenti è l'unica festa che il proletariato può desiderare. E' tempo di iniziare concretamente la lotta per un 1° maggio permanente, cioè per l'abolizione del lavoro e del tempo capitalista.

CHI AMA IL LAVORO
È UN MASOCHISTA
O SI CHIAMA CAPITALE
L'ULTIMA INTERNAZIONALE
(maggio 1972)


Verso un 1° maggio di lotta - Un manifesto al giorno - 12


domenica 29 aprile 2018

1° Maggio: giornata internazionale dei lavoratori

Da dove nasce la festa internazionale dei lavoratori? Un po’ di storia e qualche informazione.
Il 1° Maggio è diventata la data simbolo per i lavoratori di tutto il mondo. La sua origine affonda le radici nelle lotte operaie del 19° Secolo e nasce per celebrare la manifestazione organizzata nel 1886 dagli operai di Chicago, negli Stati Uniti, per ottenere la riduzione dell'orario di lavoro ad otto ore. Nei giorni successivi al corteo ci furono diverse manifestazioni, con più di venti lavoratori uccisi dalla polizia Per ricordare i «martiri di Chicago», il congresso della Seconda Internazionale, riunito a Parigi il 1889, sotto la spinta di alcune organizzazioni sindacali affiliate all'Internazionale dei lavoratori, vicine ai movimenti socialisti ed anarchici che suggerirono come data il primo maggio, stabilì che a partire dall'anno successivo il primo maggio sarebbe diventata la giornata internazionale dei lavoratori. In Italia come negli altri Paesi il grande successo del 1 Maggio, concepita come manifestazione straordinaria e unica, indusse le organizzazioni operaie e socialiste a rinnovare l'evento anche per 1891., ottenendo un successo di partecipazione. Nella capitale la manifestazione era stata convocata in pazza Santa Croce in Gerusalemme, nel pressi di S.Giovanni. La tensione era alta, ci furono tumulti che provocarono diversi morti e feriti e centinaia di arresti tra i manifestanti. Nel resto d'Italia e del mondo la replica del 1 Maggio ebbe uno svolgimento più tranquillo. Lo spirito di quella giornata si stava radicando nelle coscienze dei lavoratori.
Negli Stati Uniti, o per relativo paradosso in altri paesi a regime dittatoriale, dal 1894 non si celebra il 1° Maggio. E’ stato sostituito dal Labor Day che si celebra invece il primo lunedì di settembre ed è stato completamente ripulito da ogni valenza di rivendicazione sindacale e dei diritti sociali.
Dal 1891, quindi, la ricorrenza fu resa permanente e in Italia fu soppressa durante il ventennio fascista, quando fu sostituita dal Natale di Roma, il 21 aprile, per poi essere ristabilita nel 1945. Il 1947 fu segnato dalla pagina più sanguinosa con la strage di Portella della Ginestra, in provincia di Palermo, nel corso della manifestazione organizzata da duemila lavoratori agricoli della zona di Piana degli Albanesi: qui, per mano del bandito Salvatore Giuliano morirono undici manifestanti e ventisette restarono feriti.
Da quasi vent'anni a questa parte, il primo maggio nella capitale ha perso ogni connotato di giornata di lotta e viene celebrato dai sindacati Cgil, Cisl e Uil, anche con il tradizionale concertone che si tiene a piazza San Giovanni.
Tra le manifestazioni alternative al 1° maggio “ufficiale” di Roma, ci sono storicamente la “Festa del non lavoro” che si tiene dal 1983 al centro sociale Forte Prenestino di Roma e la May Day a Milano che ci svolge dalla fine degli anni Novanta ponendo al centro le questioni della precarietà e del reddito. Nelle città diverse da Roma, si tengono invece manifestazioni per il 1 Maggio organizzate dai sindacati di base
Per ricordare i lavoratori uccisi nel 1886, per ricordare i braccianti uccisi per mano di Salvatore Giuliano (ma come mandanti Stato e mafia), per ricordare tutti i morti sul lavoro, il 1° Maggio non deve essere la festa dei lavoratori, ma deve ritornare ad essere una giornata di lotta. Una giornata di sciopero generale, dichiarato per la parità dei diritti di tutti i lavoratori comunitari ed extracomunitari, uomini donne gay e lesbiche, per il salario garantito, per la riduzione dell’orario, per il lavoro assicurato a tutti, contro il lavoro nero e lo sfruttamento dei soliti pochi su i sempre più numerosi molti.
Foto: Torino 1° maggio 1985






Verso un 1° maggio di lotta - Un manifesto al giorno - 11


giovedì 26 aprile 2018

Sull'anarchismo


Uno scrittore francese, simpatizzante anarchico, scriveva nell'ultimo decennio del secolo scorso che "l'anarchia ha le spalle larghe; come la carta, sopporta qualunque cosa" – ivi compresi, egli notava, coloro le cui azioni sono di tal fatta che "un nemico mortale dell'anarchia non avrebbe potuto agire meglio". Sono molti gli stili di pensiero e d'azione che sono stati qualificati come "anarchico". Sarebbe vano tentare di unificare tutte queste tendenze contrastanti in una qualche ideologia o teoria generale. E quand'anche si tenti di rintracciare nella storia del pensiero libertario una tradizione vivente in evoluzione, come fa Guérin nel suo L'anarchisme, rimane difficile formularne le dottrine come una ben determinata teoria della società e del mutamento sociale. Lo storico anarchico Rudolf Rocker, che traccia un profilo sistematico dello sviluppo del pensiero anarchico in direzione dell'anarcosindacalismo, secondo un'impostazione molto prossima a quella del lavoro di Guérin, puntualizza esattamente la questione quando scrive che l'anarchismo non costituisce "un sistema sociale definito e in sé concluso, quanto piuttosto una ben determinata tendenza nello sviluppo storico dell'umanità che, in contrasto con la tutela intellettuale imposta da tutte le istituzioni clericali e governative, lotta per il libero e incondizionato dispiegamento delle forze individuali e sociali della vita. La libertà stessa è soltanto un concetto relativo, e non assoluto, poiché tende costantemente ad espandersi e a coinvolgere sfere sempre più ampie in una crescente varietà di modi. Per l'anarchico, la libertà non è un astratto concetto filosofico, ma la concreta possibilità vitale per ogni essere umano di sviluppare appieno tutte le potenzialità, le facoltà, le doti che la natura gli ha donato, volgendole a vantaggio della società. Minore è il peso della tutela ecclesiastica e politica in questo naturale sviluppo, e tanto più ricca e armonica diverrà la personalità umana, tanto più decisamente essa diverrà la misura della cultura intellettuale della società in cui è cresciuta."

lunedì 23 aprile 2018

Sulla libertà

La voglia di un futuro migliore ha urlato al mondo da sempre, pur se con formule diverse, l'umanità dell'uomo e la sua aspirazione alla libertà. Il tema della libertà è stato intrinsecamente nutrito da tutte le riflessioni che la sensibilità per la fraternità e la passione per l'uguaglianza fanno scaturire.
Affinché questo slancio vitale non si risolva un una vuota parola consegnata al potere perchè ne faccia quello che vuole, bisogna dunque difendere la libertà da ogni ideologia che pretenda di rappresentarla o, peggio, realizzarla, imponendola al mondo.
Non ci stancheremo di ripetere che una volta stabiliti i valori essenziali condivisi da tutti, una democrazia soggettiva necessita una garanzia ferrea dei diritti delle minoranze e degli individui singoli, altrimenti essa scade al rango di superstizione e di alibi per una totalitarismo spettacolare che non manca naturalmente mai di gargarizzarsi di giustizia e libertà.
Nessuna idea deve potersi imporsi. Solo la libera molteplicità delle prospettive garantisce l'autenticità e la vitalità di ogni singolo progetto.
Ostile di fronte a qualsiasi negazionismo, ma libertaria per natura, la democrazia soggettiva sollecita l'affermazione armonica dell'identità e delle differenze.
Una vera democrazia deve prevedere spazi di esplorazione e di deriva per tutte le avventure sociali che siano proposte, preservando al contempo se stessa da ogni ingiunzione. Essa deve contemporaneamente proteggersi e superarsi per restare se stessa. Questa sua difficoltà è anche la sua prodezza e la sua unica superiorità effettiva su tutti gli altri modi di governo. Essa può esistere solo come governo di tutti e di ciascuno.

giovedì 19 aprile 2018

20 aprile 1960: la rivolta di Livorno contro i paracadutisti

A Livorno tra il 19 e il 22 Aprile del 1960 si verificano gravi scontri tra la popolazione e i paracadutisti di stanza in città, vissuti come una presenza intrusa e di troppo.
Episodi simili si erano verificati già nel 1919 contro le truppe francesi e il ricordo di tali eventi e della forza con cui poteva esprimersi la rabbia popolare continuava a vivere attraverso i racconti.
La scintilla si accende nel pomeriggio del 18 Aprile, quando un paracadutista si lascia andare ad apprezzamenti nei confronti di una ragazza che sta passando in compagnia del fidanzato: ne nasce una rissa, al termine della quale i paracadutisti gridano con fare minaccioso "Ci vedremo domani: tornate se avete del coraggio".
I giovani livornesi colgono la sfida e il giorno dopo si presentano in un centinaio; nonostante l'intervento della celere, il centro della città è teatro di una lunga battaglia.
Il giorno successivo, il 20 Aprile, le persone radunatesi in piazza per ribadire la propria ostilità nei confronti della presenza dei paracadutisti sono ormai diventate un migliaio.
Gli ospiti sgraditi sono trattenuti tutti in caserma su ordine della Questura, che teme il ripetersi di nuovi incidenti, ma un paracadutista, appena rientrato in città e ignaro di tutto, passa davanti alla folla e viene riconosciuto ed inseguito.
Un agente dei carabinieri lo fa salire velocemente sulla volante ma la popolazione accorre ad impedire che l'auto possa allontanarsi: di qui scoppiano violenti scontri tra polizia e manifestanti.
A fine giornata si contano 7 feriti tra la polizia e 55 fermati tra i livornesi.
La rivolta popolare prosegue nei giorni successivi, intensificandosi sempre più: il 22 Aprile i feriti sono ormai 37, 78 gli arrestati e quasi 200 i denunciati; tra questi, anche il sindaco, alcuni consiglieri comunali ed esponenti del PCI.
Ma già a distanza di pochi giorni molti di questi ultimi prendono le distanze dagli scontri e Nicola Badaloni, sindaco di Livorno, afferma che: "In questo clima di profondo attaccamento a tutti i corpi dell'esercito, gridiamo viva Livorno, viva l'esercito, viva l'Italia!"
Mentre il mondo istituzionale si affretta quindi a cercare mediazioni e a ridimensionare gli eventi dei giorni precedenti, la popolazione ribadisce invece la propria opposizione tanto ai paracadutisti quando alle forze dell'ordine che si sono schierate in loro difesa, poiché visti entrambi come ospiti sgraditi ed emanazione della forza repressiva dello Stato.

martedì 17 aprile 2018

La consapevolezza individuale


La procedura per la costruzione di una società giusta e pacifica passa attraverso una consapevolezza individuale che dovrebbe ormai essere storicizzata da un pezzo: i governi, gli Stati e la Chiesa sono organismi distruttivi e sovrastrutturali. A partire da questo dato, che già oltre 200 anni fa si attestava come una certezza inconfutabile (poi dichiarata apertamente anche alla Prima Internazionale), è doveroso considerare la prospettiva di un cambiamento reale a partire dalle nostre coscienze e quelle dei nostri figli.
Se l'esperienza storica ci insegna che prima della nascita degli Stati le società non conoscevano guerre e ingiustizie sociali, è proprio quella dimensione a-statale che bisogna riconsiderare, oggi più di ieri. D'altra parte, già nel XIX secolo gli intellettuali avevano lanciato l'allarme, prefigurando ciò che sarebbe successo. Ed è successo. Ci siamo dentro, e non ne usciremo se non nel modo indicato proprio da quei grandi pensatori, filosofi, politci, antropologi... (John Ruskin, Pierre-Joseph Proudhon, Lev Tolstoj, Giovanni Pascoli, Michael Bakunin, Pëtr Kropotkin, Emile Gravelle, e mille altri). L'antropologia culturale, da par suo, ma anche gli studi di Erich Fromm, hanno contribuito a far capire che la natura umana è cooperativa -non già malvagia- e che questo istinto alla cooperazione è visibile in tutte quelle società in cui manca uno Stato o un ordinamento a carattere gerarchico. Va da sé che una struttura gerarchica, com'è invece quella statale, non può far altro che produrre ingiustizie, privilegi di casta, sudditanze e crimini. Perciò gli intellettuali insistono su questo aspetto, sottolineando che la vera utopia sia credere ancora che la sostituzione dello Stato con un altro Stato (o un governo con un altro) diventi la soluzione. Non è mai avvenuto. Anche la Storia, ormai, denuncia questa enorme illusione.
Il fatto che la centralità dell'individuo sia l'individuo stesso nella sua singolarità e autonomia è un fatto ormai acclarato anche dalla pedagogia più evoluta. La scienza dell'educazione e della formazione non lascia dubbi su chi debba essere un individuo e su cosa non debba mai diventare. E questa pedagogia affonda le sue radici proprio nelle teorie e nelle pratiche anarchiche.
L'anarchia diventa allora motivo di rilancio di un modello sociale equo, giusto, pacifico, dove ogni individuo è naturalmente proiettato verso il benessere di se stesso e degli altri, per logica conseguenza, per naturale inclinazione e ordinamento. E' evidente che il modello anarchico, con tutte le sue dinamiche e regole, con tutte le sue particolarità e ricchezze metodologiche, non potrà essere compreso facilmente da coloro che hanno fatto delle sovrastrutture propagandistiche di Stato un credo. Se la costruzione di una società a-statale deve passare attraverso l'eliminazione dei pregiudizi e delle sovrastrutture (distruttive, ma alle quali alcune persone sono davvero molto affezionate), cioè dalla considerazione profonda e sincera di quanto detto e fatto dai grandi pensatori, siamo sempre in tempo per conoscere, senza mai abbandonare l'obiettivo finale che, come già dimostrato ampiamente, è sbagliato definire 'utopia': costruire una nuova umanità dove i nostri figli non conosceranno più ingiustizie.


sabato 14 aprile 2018

Tutti gli uomini sono in catene – Dialettiche della liberazione

Nel luglio del 1967 si svolse a Londra un congresso che – sotto il titolo di Dialettiche della liberazione – vide sfilare sul palco degli oratori gli intellettuali destinati a diventare i simboli della protesta radicale della fine degli anni sessanta: da Marcuse a Goldmann, da Sweezy a Carmichael, da Bateson a Hàiek.
Dal congresso riporto qui un brano del manifesto programmatico, poi divenuto piuttosto noto.
Tutti gli uomini sono in catene. Vi è la schiavitù della povertà e della fame; la schiavitù della sete di potere, della spinta al prestigio sociale, al possesso. Oggi, un regno di terrore viene perpetrato e perpetuato su vasta scala. Nelle società opulente esso è mascherato: qui i fanciulli vengono condizionati da una violenza chiamata amore ad assumere la loro posizione come eredi dei frutti della terra. Ma in questo processo i giovani sono ridotti a poco più che punti ipotetici in un sistema la cui disumanizzazione è totalmente coordinata. Per il resto, il terrore non è mascherato. Esso si chiama tortura, freddo, fame, morte. Il mondo intero è ora una unità irriducibile. Le proprietà del sistema mondiale globale ci forzano a sottometterci, come a fatalità, al Vietnam, alla fame del Terzo mondo e così via. In un contesto globale, la cultura è contro di noi, l’educazione ci rende schiavi, la tecnologia ci uccide. E’ nostro dovere contrapporci a tutto ciò. Dobbiamo distruggere le illusioni che abbiamo acquistato su ciò che siamo, dove siamo. Dobbiamo combattere la nostra pretesa ignoranza su ciò che accade [...].

Quaderni Piacentini, n. 32, 1967

martedì 10 aprile 2018

I media e il «rischio incidenti»

Quando il popolo sfruttato scende in strada a protestare, la polizia, i fascisti rossi e neri, i servizi segreti e i media (in una parola, lo Stato) sono pronti ad attuare il loro piano: criminalizzare la protesta fabbricandone i motivi. Il lavoro più infame e subdolo lo fanno i media, soprattutto la tv, nascondendo le cause della protesta, e facendo di questa soltanto una questione di «ordine pubblico». Perché? Non solo per difendere la violenza dello Stato restituendone l'immagine falsa, fantasiosa e utopica di «buon padre», ma per dare a tutti i governi la facoltà di stringere le maglie della repressione con nuove norme autoritarie, e di far accettare al popolo tali norme e le repressioni con la formuletta «rischio incidenti». Allora è bene sapere che dietro la formula «rischio incidenti» ci sono in verità le umane ragioni di un popolo incazzato e oppresso dallo Stato. Il resto è polvere negli occhi.
Liberatevi dal sistema, uscite dalla gabbia, non siate come vogliono loro, ragionate con la vostra testa, non credete ai media, non hanno fatto altro che mentire e continueranno a farlo, facendovi credere quello che non è. Loro vi danno due elementi per farvi agire e pensare come vogliono loro, a voi ne occorrono almeno tre per agire e pensare come sarebbe giusto. Il terzo elemento ve lo tengono sempre nascosto, e i primi due (falsi) ve li fabbricano ad hoc. Non abbiate la coscienza a forma di televisore!

sabato 7 aprile 2018

8 aprile 1964: Malcom X interviene al Militant Labour Forum


L'8 aprile 1964 Malcolm X, storico leader rivoluzionario Afro-americano, tenne un discorso al meeting del Militant Labour Party, organizzazione formata per lo più da bianchi e di ispirazione socialista.
Questo dibattito divenne importante perchè , dopo il discorso di Malcolm, vennero poste dal pubblico diverse domande che toccavano dei nodi centrali sia sul pensiero generale di Malcolm X, ma sopprattutto sulla questione della liberazione dei neri afro-americani e degli africani dal colonialismo bianco.
Il 1964, per Malcolm, fu un anno cruciale. In quell'anno infatti giunse ad una maggiore maturità del suo pensiero politico che lo spinse a compiere un viaggio in Africa che lo cambiò molto, e fu anche l'anno in cui si smarcò in modo pressochè completo dal settarismo islamico, per costruire un processo rivoluzionario di liberazione dei neri e per i diritti umani più ampio e strutturato.
Egli parlò diverse volte al laubor forum durante questo periodo della sua vita, ed il giornale ad esso collegato il "Militant",gli diede ampi spazi di pubblicazione e fu tra i pochi che dopo il suo distacco dalla nazione islamica continuò ad appoggiarlo apertamente.
Durante il dibattito gli venne posta una domanda che chiedeva se fosse possibile che i neri (sia afro-americani che africani) potessero liberarsi senza l'aiuto dei radicali bianchi, che avevano accumulato nel tempo maggiori esperienze di lotta. Questa domanda, sicuramente provocatoria, alludeva al recente colpo di stato contro Lumumba in Congo, e al presidio degli studenti non violenti (bianchi) sotto la sede dell'ONU a New York, per chiedere l'intervento a difesa dei neri negli USA.
Egli rispose spezzando in due la risposta: da una parte si soffermò a parlare della vicenda Lumumba, e dall'altra sui metodi che i bianchi progressisti e liberali usavano per solidarizzare con i neri.
Lumumba fu a capo del movimento di liberazione del Congo e divenne primo ministro verso la fine dgli anni '50. Venne assassinato in seguito ad un colpo di stato portato avanti dal colonnello Mobutu nel 1960. Malcolm durante la discussione ribadì come l'intervento golpista fosse stato foraggiato e sostenuto dagli Stato Uniti, e che quello che era propagandato come un fallimento dell'autodetermizazione africana, in realtà non fosse altro che l'ennesimo intervento imperialista da parte dei bianchi in Africa.
Riguardo alla seconda parte della domanda sarà molto più esaustivo fornire direttamente una citazione dalla risposta data dal leader nero:
"Quando si tratta della libertà dei neri, il bianco fa il freedom rider e il sit-in, è non violento e canta We Shall Overcome e cose del genere. Ma quando la proprietà del bianco è minacciata o la libertà del bianco è minacciata, allora il bianco non è più nonviolento... Perciò, se in questa lotta sono sinceri, i bianchi mostreranno al nero come impiegare o usare tattiche migliori, tattiche che diano risultati, e non fra cent'anni. Se questa è la casa della libertà, della giustizia, dell'uguaglianza per tutti (riferendosi alla sede del labour forum) se è realmente tutto ciò, allora prendiamoci queste cose. E se tutti noi non possiamo averle, nesuno le avrà.

mercoledì 4 aprile 2018

5 aprile 1944: i Martiri del Martinetto


"Qui caddero fucilati dai fascisti i martiri della Resistenza Piemontese. La loro morte salvò la vita e l'onore d'Italia. 1943-1945".
Queste le parole riportate sulla lapide posta al centro del Sacrario del Martinetto, piccolo poligono di tiro nella IV Circoscrizione del Comune di Torino, scelto dai repubblichini dopo l'8 settembre 1943 come luogo d'esecuzione delle sentenze capitali.
Qui, nel giro di venti mesi, vennero fucilati sessantuno partigiani e resistenti piemontesi.
Lunedì, 31 marzo 1944, la Resistenza piemontese subisce un durissimo colpo: nella mattinata, sulla sagrestia del Duomo, vengono catturati quasi tutti i componenti del Comitato Regionale Militare Piemontese (Crmp): Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Errico Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano e Giuseppe Perotti.
Il Crmp era stato costituito clandestinamente a Torino nell'ottobre del 1943, come organo del Comitato di Liberazione Nazionale, con il compito di coordinare le azioni delle bande partigiane già esistenti.
Gli otto vengono condotti alle Carceri Nuove, e il 2 aprile, in gran fretta, viene dato il via al processo alla presenza dei massimi vertici fascisti. Già il giorno successivo, e nonostante le trattative intavolate dal Cln, viene pronunciata la sentenza: fucilazione.
All'alba di mercoledì 5 aprile gli otto condannati vengono condotti all'interno del poligono di tiro, ammanettati: ci sono decine di militi della Guardia Nazionale, che li legano alle sedie poste all'estremità del poligono, schiena rivolta al plotone di esecuzione. Passa ancora qualche minuto, il tempo per Padre Carlo Masera, che ne ricorderà il coraggio, di benedirli, quindi viene letta la sentenza, ed infine il plotone spara. Una sola voce, quella di Franco, Quinto, Giulio, Paolo, Errico, Eusebio, Massimo e Giuseppe grida "Viva l'Italia libera!"
Con queste parole, Eusebio Giambone si rivolge alla moglie,qualche ora prima di essere fucilato: "fra poche ore io certamente non sarò più, ma sta pur certa che sarò calmo e tranquillo di fronte al plotone di esecuzione come lo sono attualmente, (...)come lo fui alla lettura della sentenza, perché sapevo già all'inizio di questo simulacro di processo che la conclusione sarebbe stata la condanna a morte. Sono così tranquilli coloro che ci hanno condannati? Certamente no! Essi credono con le nostre condanne di arrestare il corso della storia. Si sbagliano! Nulla arresterà il trionfo del nostro Ideale,essi pensano forse di arrestare la schiera di innumerevoli combattenti della Libertà con il terrore? Essi si sbagliano!"