..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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domenica 28 luglio 2019

29 luglio 1921. Il processo agli anarchici per l’attentato al Diana

29 luglio 1921, requisitoria d'un Procuratore Generale al processo Malatesta-Borghi alle Assise di Milano, quella che doveva essere la conferma dell'accusa, divenne, non so per qual segreto intimo dell'animo, una magnifica, ideale difesa per Malatesta e Borghi durante un loro processo a Milano:
«La vita non è fatta tutta di saggezza, Giurati! Senza certi cervelli balzani, senza certe audacie, il mondo non avrebbe avuto progressi. I saggi, che non intesero mai, nel loro cervello, un granello di sublime follia, sono saggi che hanno il deserto in sè, e lo fanno attorno a sè! Noi viviamo e intensamente viviamo per quanto sappiamo spingere lo sguardo verso il futuro e impregnare la nostra azione di tutta quella che dovrà essere la vita avvenire: perchè questo è il ritmo, perchè questa è la forza che darà il nuovo ritmo alla vita civile. L'uomo passando di fatica in fatica passò di trionfo in trionfo; ma le umane generazioni sarebbero rimaste schiave del pregiudizio e dell'ignoranza, sarebbero rimaste immobili, se di tanto in tanto non fosse sorto un uomo animoso a deviarne il corso. E la leggenda che i soldati di Alarico deviarono il Busento, perchè il fiume passasse sulla tomba del loro Re, può esprimere la forza che hanno gli uomini di volontà, che fanno penetrare nuova vita nelle cose morte. Ecco perchè questi uomini di grande ardimento e di diritta volontà sono una necessità; perchè essi sono per spingerci sempre più innanzi; perchè ci gridano ad ogni momento di non arrestare il passo, e ci spingono di vetta in vetta sempre più in alto, in cerca di questo Ideale che c'è sempre dinanzi agli occhi, ed al quale dobbiamo dare tutte le nostre migliori energie. Perchè è vero quel che diceva il poeta: Tu sol, pensando, o Ideal, sei vero!».

mercoledì 24 luglio 2019

Sciopero generale e organizzazione consiliare

La lotta di conquista deve venir condotta con delle armi adeguate e non più soltanto di difesa. Occorre che si sviluppi una nuova idea di organizzazione naturalmente antagonista ai governi del capitalismo finanziario; deve sorgere spontaneamente sui luoghi di lavoro e riunire tutti i lavoratori, per il fatto che, in quanto produttori, tutti sono assoggettati ad un’autorità che è loro estranea e dalla quale devono liberarsi.
Ecco l’origine della libertà: l’originarsi di una formazione sociale che, estendendosi rapidamente ed universalmente, creerà le condizioni per eliminare dal campo economico lo sfruttatore e l’intermediario, creerà le condizioni di divenire padroni della proprio futuro.
Nella nuova organizzazione “consiliare”, l’uguaglianza reale di tutti nelle decisioni e nella loro esecuzione non può essere un vuoto slogan, una rivendicazione astratta, è una necessita imprescindibile e irrinunciabile. Affinché la nuova organizzazione abbia globalmente tutte le capacità necessarie, bisogna, in modo complementare, che nessuna gerarchia delle capacità individuali possa essere permessa. Il solo gioco che vale la pena: è la distruzione del vecchio mondo, dei suoi schemi, delle sue corruzioni. I lavoratori quale che siano i loro “contratti” si trovano ad essere, ancora e sempre, la forza centrale che può bloccare il funzionamento di questo sistema di sviluppo, la forza indispensabile per reinventare tutte le basi dei rapporti sociali. Questa nuova organizzazione a struttura quindi “consigliare” deve evidentemente unire tutte le categorie di salariati, di precari, di intellettuali. I Consigli devono essere “potenza”, o non potranno essere niente, sono loro che dovranno dettare i tempi, il ritmo delle lotte, non potrà nascere alcun dialogo con i partiti o con le tradizionali organizzazioni sindacali collusi fra loro e con il potere economico, alla fine essi, come sempre, tradiranno le lotte dei lavoratori. Con la leva dei Consigli e il punto di appoggio di una negazione totale della società mercantile-spettacolare, si può sollevare il mondo intero. La vittoria dei Consigli non si pone dunque alla fine, bensì all’inizio del percorso rivoluzionario. Ne consegue che l'unico sciopero generale vero che può essere dichiarato è quello derivante dalla azione diretta spontanea, inarrestabile improvvisa, aspra, irriducibile e gioiosa che nasce dal cuore e dalle menti di coloro che vogliono intraprendere l'entusiasmante strada della riconquista della propria soggettività.

venerdì 19 luglio 2019

21 luglio 1919: lo "scioperissimo"

Tra il 20 e il 21 Luglio 1919, in diversi paesi europei migliaia di persone si mobilitarono contro i dettati imposti dal trattato di pace firmato a Versailles dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale e in nome della solidarietà tra i popoli, per la difesa delle rivoluzioni in Russia e in Ungheria e contro il sostegno degli eserciti "bianchi" offerto dall'Intesa.
Erano stati alcuni dirigenti socialisti e laburisti italiani, francesi e britannici a promuovere l'agitazione.
In Italia l'iniziativa si concretizzò in uno sciopero generale, che assunse grande rilievo e cadde in un momento critico per la vita del paese, tanto da spingere il governo a modificare aspetti essenziali della politica estera.
Ma la capacità di reazione mostrata da Nitti e dalle forze contrarie a uno sciopero definito "politico", la mancata partecipazione di alcune importanti categorie di lavoratori e di alcuni sindacati, l'assenza di una mobilitazione altrettanto significativa in Francia e Gran Bretagna trasformarono quella grande dimostrazione di forza in una sostanziale sconfitta politica per tutti coloro che l'avevano sostenuta.
Con questa immagine fallimentare, ma solo parzialmente vera, la storia dello "scioperissimo" è giunta fino ai giorni nostri, tanto da diventare un tipico esempio degli errori del massimalismo durante il cosiddetto "biennio rosso".
In realtà, le cose furono assai più complesse. Rileggendo fonti d'archivio e periodici, memorie e pubblicazioni ufficiali, ci accorgiamo infatti che lo sciopero ebbe un notevole successo nell'Europa centrale e balcanica, oltre che in Italia; in Inghilterra non si scioperò, ma ci furono manifestazioni, e in Francia fu proprio in reazione all'annullamento dello sciopero che scoppiarono tumulti annonari.
Per quanto parziale, e ritenuto insoddisfacente dai promotori, quello del 1919 riuscì ad essere il primo sciopero internazionale del "secolo breve", con una mobilitazione politica nelle piazze europee capace di coinvolgere migliaia di persone.

martedì 16 luglio 2019

L’addomesticamento della vita

L’addomesticamento è il processo usato dalla civiltà per indottrinare e controllare la vita secondo la sua logica. Questi meccanismi di subordinazione collaudati nel tempo comprendono: la doma, l’allevamento selezionato, la modificazione genetica, l’addestramento, l’imprigionamento, l’intimidazione, la coercizione, l’estorsione, la speranza, il controllo, la schiavizzazione, il terrorismo, l’assassinio … l’elenco continua e comprende quasi tutte le interazioni sociali del mondo civile. Questi meccanismi e i loro effetti si possono osservare e percepire nell’intera società, e sono imposti attraverso istituzioni, riti e costumi. L’addomesticamento è anche il processo attraverso il quale popolazioni umane precedentemente nomadi passano a una esistenza sedentaria tramite l’agricoltura e la zootecnia. Questo tipo di addomesticamento comporta un rapporto totalitario sia con la terra che con le piante e gli animali da addomesticare. Se allo stato selvatico tutte le forme di vita condividono le risorse e competono per adoperarle, l’addomesticamento distrugge questo equilibrio. Il paesaggio addomesticato (per esempio i terreni tenuti a pascolo, i campi coltivati e, in minor misura l’orticultura e il giardinaggio) esige la fine della libera condivisione delle risorse che esisteva in precedenza: ciò che una volta era di tutti, adesso è mio.
Questa nozione di appropriazione gettò le fondamenta per la gerarchia sociale con la comparsa della proprietà e del potere.
Non solo l’addomesticamento trasforma l’ecologia da ordine libero a ordine totalitario, ma schiavizza anche tutte le specie addomesticate. In generale, quanto più un ambiente è controllato, tanto meno è sostenibile. L’addomesticamento degli stessi esseri umani richiede molte contropartite rispetto al modo di vita nomade basato sulla raccolta di ciò che si trova in natura. Merita rilevare che gran parte dei passaggi dal modo di vita  nomade all’addomesticamento non sono avvenuti autonomamente, ma sono stati imposti con la lama della spada o la canna del fucile.

venerdì 12 luglio 2019

L'Europa fa acqua da tutte le parti

Voi sapete bene che siamo degli sfruttatori. Sapete bene che abbiamo preso l'oro e i metalli, poi il petrolio dei «continenti nuovi» e li abbiamo riportati nelle nostre vecchie metropoli. Non senza risultati eccellenti: palazzi, cattedrali, città industriali; e poi, quando la crisi minacciava, i mercati coloniali erano lì per estinguerla o stornarla. L'Europa, satura di ricchezze, accordò l'umanità a tutti suoi abitanti: un uomo, da noi, vuol dire un complice, giacché abbiamo approfittato tutti dello sfruttamento coloniale. Questo continente grasso e smorto finisce per incorrere in quel che Fanon chiama giustamente il «narcisismo ». Cocteau s'irritava di Parigi, «città che parla continuamente di se stessa». E l'Europa, che altro fa? E quel mostro supereuropeo, l'America del Nord? Che cicaleccio: libertà, uguaglianza, fratellanza, amore, onore, patria, che so io? Questo non c'impediva di tenere nello stesso tempo discorsi razzisti, porco negro, porco ebreo, porco arabo. Spiriti buoni, liberali e delicati — neocolonialisti, insomma — si pretendevano urtati da questa incongruenza; errore o malafede: niente di più congruo, da noi, che un umanesimo razzista, poiché l'europeo non ha potuto farsi uomo se non fabbricando degli schiavi e dei mostri. Fintanto che ci fu un indigenato, quella impostura non fu smascherata; si trovava, nel genere umano, un'astratta postulazione d'universalità che serviva a coprire pratiche più realiste; c'era, dall'altra parte dei mari, una razza di sottouomini che, grazie a noi, tra mille anni forse, sarebbe arrivata al nostro stadio. Insomma, si confondeva il genere con l'élite. Oggi l'indigeno rivela la sua verità; di colpo, il nostro club così chiuso rivela la sua debolezza: non era altro che una minoranza. C'è di peggio: poiché gli altri si fanno uomini contro di noi, si vede chiaro che noi siamo i nemici del genere umano; l'élite rivela la sua vera natura: una banda di malfattori. I nostri cari valori perdono le ali; a guardarli da vicino, non se ne troverà uno che non sia macchiato di sangue. Capite bene che non ci si rimprovera d'aver tradito non so qual missione: per la bella ragione che non ne avevamo alcuna. È la generosità stessa ad esser in causa; questa bella parola sonante non ha che un senso: statuto elargito. Per gli uomini di fronte, nuovi e liberati, nessuno ha il potere né il privilegio di dar niente a nessuno. Ognuno ha tutti i diritti. Su tutti; e la nostra specie, quando un giorno si sarà fatta, non si definirà come la somma degli abitanti del globo ma come l'unità infinita delle loro reciprocità. Basta guardare in faccia, per la prima e l'ultima volta, le nostre aristocratiche virtù: esse stanno crepando; come sopravviverebbero all'aristocrazia di sottuomini che le ha generate? Alcuni anni or sono, un commentatore borghese — e colonialista — per difendere l'Occidente non ha trovato altro che questo: «Non siamo angeli. Ma noi, almeno, abbiamo rimorsi». Che confessione! Un tempo il nostro continente aveva altre tavole di salvezza: il Partenone, Chartres, i Diritti dell'Uomo, la svastica. Si sa adesso quello che valgono: e non si pretende più di salvarci dal naufragio se non col sentimento molto cristiano della nostra consapevolezza. È la fine, come vedete: l'Europa fa acqua da tutte le parti. Che è dunque successo? Questo, molto semplicemente, che eravamo i soggetti della storia e che ne siamo adesso gli oggetti. Il rapporto delle forze si è rovesciato, la decolonizzazione è in corso; tutto quel che i nostri mercenari possono tentare è ritardarne il compimento.

(Prefazione di Jean Paul Sartre 1961 - I dannati della terra - Fanon)

venerdì 5 luglio 2019

5 luglio 1962. La rivolta di piazza Statuto, nulla sarà più come prima

1962, rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Torino, 5 luglio: gli operai della città della Fiat si preparano allo sciopero di categoria indetto per il 7-8-9 di quel mese da Fiom, Fim, Uil; si prevede una partecipazione alta, soprattutto per l’adesione allo sciopero della Uil che alla Fiat conta sul 63% degli operai iscritti a qualche sindacato. Tra il 5 e il 6 luglio i dirigenti Fiat e quelli della Uil e del Sida (un sindacato giallo) si accordano per un aumento salariale tanto che La Stampa, il quotidiano degli Agnelli-Fiat, il 6 luglio potrà titolare: Uil e Sida si accordano con la Fiat e invitano gli operai a non scioperare. L'indomani mattina lo sciopero è totale. Non solo totale, ma anche duro. I crumiri che vogliono lavorare devono superare minacce, ingiurie e botte. Le macchine dei dirigenti che tentano di entrare vengono prese a sassate. I lavoratori, soprattutto quelli iscritti alla Uil, sono sbigottiti e furiosi per come quattro burocrati sindacali siano riusciti a rendere nulle, per pochi spiccioli, le ben più importanti richieste di diminuzione dei ritmi, orario di lavoro, norme disciplinari. Un tradimento.
Al pomeriggio, verso le 14.30-15, tre, quattrocento operai in gran parte iscritti alla Uil, ma anche a Cisl e Cgil, sono assembrati davanti alla sede della Uil in piazza Statuto: urlano, fischiano. Un centinaio di agenti con le jeep e due auto-idranti presidiano la sede del sindacato socialdemocratico. La tensione aumenta rapidamente; in un bar vicino, due sindacalisti Uil, riconosciuti, vengono picchiati; sono messi in salvo a fatica; volano le prime pietre contro le finestre del sindacato. Il numero di dimostranti aumenta, così la tensione e gli scontri. Inizia una vera e propria battaglia che si protrarrà  senza momenti di sosta fino alle 4 di mattina del giorno dopo. Tra le 21,30 e le 23 c'è abbastanza calma e la polizia ne approfitta per far evacuare i dirigenti Uil dalla sede in cui sono asserragliati da ormai otto ore; travestiti da dimostranti: ognuno su di una camionetta in mezzo a tre poliziotti a forte velocità verso la "centrale".
La domenica alle 11 piazza Statuto è affollata da centinaia di operai, qualche tensione, ma sostanzialmente la situazione è più calma. Come la notte che scorre tranquilla, con la piazza presidiata da un enorme schieramento di polizia e carabinieri arrivati dal Veneto, dall'Emilia e dalle altre province piemontesi, anche in vista dello sciopero di lunedì.
L'indomani, però, davanti ai cancelli delle fabbriche, di operai ce ne sono ben pochi; solo polizia carabinieri e sindacalisti di professione. Le direzioni di tutte le aziende, sull'esempio della Fiat, hanno invitato i lavoratori a restare a casa. I sindacati non sono stati da meno: Cgil e Cisl hanno sospeso ogni tipo di manifestazione e in particolare la Uil "ha invitato tutti i lavoratori a proseguire lo sciopero restando però a casa e lasciando l'azione di picchettaggio davanti alle fabbriche ai responsabili e agli attivisti sindacali". Il bilancio complessivo dei tre giorni di scontri, come lo riporta la cronaca, è questo: 1215 fermati, 90 arrestati e rinviati a giudizio per direttissima, un centinaio i denunciati a piede libero; 169 i feriti fra le forze dell'ordine. Per quanto riguarda i dimostranti, La Stampa parla di 9 persone che sono costrette a ricorrere alle cure ospedaliere. Non dice che i feriti per le botte ricevute in fase di fermo, in Questura o nelle caserme, sono centinaia.
Finiva la rivolta di piazza Statuto, ma nulla nel movimento operaio sarà più come prima. La rivolta simultanea contro le dirigenze padronali e sindacali segnerà una svolta nella coscienza di quei giovani operai immigrati - anima e braccia di quelle giornate – che qualche anno dopo daranno vita, a partire dall’autunno 1969, a una lunga stagione di lotte autorganizzate, autonome, lontane e contrarie alle gerarchie e alle logiche sindacali.

mercoledì 3 luglio 2019

3 luglio 1969, 50 anni fa la rivolta di corso Traiano a Torino

A cinquarant'anni da Corso Traiano, vogliamo non celebrare una ricorrenza, ma mettere in evidenza un fatto storico di enorme importanza per la nostra città e per le lotte sociali nel loro complesso. Il 3 luglio 1969 è l'atto della riscossa operaia, la resistenza di una periferia nata e cresciuta in nome e per conto della Fiat, la comparsa dell'operaio massa, la sconfitta del sindacato e la nascita delle organizzazioni extraparlamentari degli anni 70.
Corso Traiano apre un ciclo di lotte che si svilupperanno negli anni 70, agli stessi cancelli di Mirafiori, vedendo crescere la classe operaia fino al suo punto di forza più elevato. Mirafiori è il teatro sociale e politico di una nuova figura operaia, quella dell'operaio massa, generalmente immigrato dal sud, non qualificato che rompe la tradizione torinese dell'operaio specializzato, di cultura PCI, fortemente inquadrato nel sindacato, con una tradizione lavorista che lo ha sempre portato a rivendicare diritti in base alle proprie capacità produttive. L'operaio massa spazza via questa figura, relegandola ad una nicchia in fabbrica, e proprio nella Torino modellata per nome e per conto della Fiat, quella che "non affitta case a meridionali", questa nuova figura pone sul piatto del conflitto tutto, mettendo in crisi, quel sistema di contrattazione e di gestione che il sindacato era diventato per i movimenti operai. Basta mere rivendicazioni professionali, le lotte dell'operaio massa nascono libere, slegate da qualsiasi imbrigliamento del connubio capitale-sindacato, e danno vita a nuove pratiche del conflitto, che si adattano al presente, che sono realmente incisive contro il nuovo assetto del capitale, mettendolo decisamente in crisi.
Il "Vogliamo Tutto" del romanzo di Nanni Ballestrini è la piattaforma di uomini e donne che iniziano, insieme alle prime forme dell'Autonomia, a parlare di rifuto del lavoro, fabbrica sociale, di qualità della vita di bisogni sociali. La lotta alla Fiat diviene la scuola per tutti i compagni e le compagne che mirano ad una trasformazione radicale dell'esistente. La rivolta di corso Traiano esemplifica tutto ciò, nel giorno di una manifestazione slegata ed in conflitto con il sindacato, militarizzata dalla Questura di Torino, che vuole portare nel cuore della metropoli le lotte della fabbrica, si sviluppa uno dei momenti più alti nel conflitto cittadino, dopo quelle di piazza Statuto del 1963, vedendo mirafiori e la prima periferia torinese, ingaggiare la battaglia con le autoblindo fino a tarda notte. Una rivolta dispiegata: dalle strade ai balconi dei palazzi, da corso Traiano a Nichelino, gli scontri si moltiplicano e le forze dell'ordine sono costrette a riparare in difesa, rispetto a quella che sarà la forza del conflitto operaio e sociale.
1969, Corso Traiano e lotta di "massa"
Uno a uno gli strumenti con cui i padroni ci controllano vanno a farsi fottere. In fabbrica è finito il tempo di ricatti di guardioni e capi, e degli imbrogli dei sindacati. Fuori è finito il tempo della paura della polizia, o delle menzogne dei giornali e della radio...La nostra lotta si rafforza, si organizza, si estende, a Torino come in tutta Italia. E' questo che mette in crisi il governo dei padroni, e li costringe a fare i duri. Ma dietro quel ghigno duro c'è una smorfia di paura, come sulle facce dei poliziotti di ieri. Noi ieri abbiamo imparato una cosa importante: che la forza è dalla nostra parte e che possiamo vincere. Non da un giorno all'altro certo, ma con una lotta lunga e continua. La giornata di ieri ha segnato in questa lotta una tappa fondamentale.
Già ad inizio gennaio (del 1969) Potere Operaio aveva aperto con il titolo “ricacceranno indietro la lotta operaia, è nel disegno dei padroni, a far passare un nuovo governo e in prospettiva l’accordo di potere con il Partito Comunista”. Ci si riferisce, ovviamente, alla politica di Moro, alla strategia dell’attenzione, ai colloqui che cercano sponde a sinistra per la ristrutturazione di mercato, per traghettare il capitalismo – e quindi l’intero sistema lavoro-produzione-consumo o sviluppo/sottosviluppo – dal modello industriale a quello di massa, al fordismo e al taylorismo. Il peso della crescita è interamente sulle spalle degli operai. Le vittorie sindacali – sempre grazie alla lotta dei lavoratori – sono molte; nascono le scuole materne di stato, vengono abolite le gabbie salariali, si crea la scala mobile, si uniforma la paga tra nord e sud del paese, aumentano le pensioni. Già un anno prima, alla fine dello sciopero, nel novembre del 1968, il Comitato di Lotta della Lancia di Torino chiarisce che «non serve a nulla limitarsi all'incazzatura contro i sindacati e brontolare contro il "tradimento ". Gli operai della Lancia devono trarre da questo sciopero tutte le lezioni e gli insegnamenti che possono servire nelle lotte future, ad evitare compromessi vergognosi che indeboliscono e dividono gli operai di fronte al padrone. Lo sciopero della Lancia non va visto come un fatto isolato. Esso è stato solo un momento, un episodio, di una lotta più generale che la classe operaia italiana sta combattendo contro tutto il piano di riorganizzazione capitalistica, a livello nazionale e internazionale, con vittorie e sconfitte. Le grandi aziende capitalistiche, come la Fiat, la Montedison, si stanno concentrando in complessi sempre più vasti e costringono le aziende minori a riorganizzarsi e ad integrarsi con loro. Questo piano comporta in certe aziende licenziamenti, riduzioni d'orario, riorganizzazione interna, aumento dello sfruttamento. E dappertutto chi paga i costi delle operazioni capitalistiche è sempre la classe operaia. Le organizzazioni sindacali e i partiti riformisti che stanno dietro di loro, invece di opporsi radicalmente a questo piano accettano che le concentrazioni capitalistiche avvengano a spese degli operai. In questi giorni esse hanno concluso, con il governo e con gli imprenditori, un accordo che si limita a concedere un po' di soldi in più agli operai colpiti dai licenziamenti o dalle sospensioni, mentre dà mano libera ai padroni all'interno di ogni fabbrica».
Passa un anno, denso di avvenimenti, e la situazione non cambia, peggiora. A Battipaglia – il 9 aprile - la polizia si toglie la maschera democratica e scopre il suo vero volto, sparando sulla folla in sciopero contro la chiusura di due grandi industrie. Due morti e 200 feriti. E’ il 1969. Passaggio obbligato per la mutazione del soggetto politico, dagli anni delle barricate degli operai-immigrati di Piazza Statuto, gli episodi di Corso Traiano lasciano sul selciato della battaglia importanti indicazioni. E il lessico ne riflette il significato; la lotta dei lavoratori della Fiat non è rivolta, ma «il punto più alto dell’autonomia politica». Infatti gli operai, dopo cinquanta giorni di mobilitazione che hanno coinvolto un numero enorme di lavoratori e studenti, con il blocco della produzione, i sabotaggi e una propaganda politica che riceve la solidarietà di mezz’Italia, decidono di rompere gli indugi. La condizione dei sindacati è ormai distante dalla classe operaia, ricoprendo un ruolo di rappresentanza delle categorie nella conduzione delle trattative, con pochissimi radicamenti nelle fabbriche. Proprio in questo contesto, dove è nuovamente il bisogno proletario, non solo del lavoratore Fiat ma anche della sua famiglia, ad occupare le assemblee ed a diventare rivendicazione, viene proclamato uno sciopero di 24 ore. L’intento, ovviamente, è quello di uscire dalla condizione di isolamento e di alienazione della fabbrica, di iniziare un percorso politico autonomo – non più succube della contrattazione, ma fiero della propria appartenenza, anche ideologica, alla storia della classe operaia - di allargare il più possibile il campo delle rivendicazioni (per esempio contro il caro-vita, caro-affitti).
La Fiat non è solo Torino, ma tutt’Italia. Ciò che succede a Torino fa da modello, e trova sbocchi nelle fabbriche di tutto il paese. Non per un’estetica dello scontro, del fatto eclatante, ma per il suo significato. Perché le condizioni di sfruttamento e la “fine del mese” sono condivise da tutti i lavoratori in tutta la penisola.  Questo è il punto fondamentale, il vero colpo di genio che trasporta una lotta dura in una guerra a campo aperto. Non quello della fabbrica, dove i comportamenti sociali vengono regolati con meccanismi di punizione, ma della piazza, dello scontro, del conflitto anche militare. E, ancora una volta, le parole si fanno simbolo. Sono gli anni delle vittorie del Viet Nam del Nord, sotto Ho Chi Minh e Vo Nguyen Giap, del dopo offensiva del Tet. Nixon è costretto ad aprire a Parigi, nel gennaio del 1969, le trattative di pace. Anche se poi la guerra finirà parecchi anni dopo, rimarrà nella memoria dei comunisti l’insegnamento del Viet Nam che vince contro il più grande esercito del mondo. Quindi non c’è da stupirsi se, proprio gli operai torinesi, in corteo ripetono lo slogan «Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina». Come detto il campo dello scontro è cambiato. Ha preso le strade torinesi. Lo sciopero generale, nelle mani degli operai, viene organizzato per unire, allargare ed espandere la protesta. Anche sul terreno spaziale – quello dell’organizzazione della città – il percorso deciso sintetizza gli intenti; unire Mirafiori con i quartieri popolari, ripercorrendo al contrario il tragitto del dopo lavoro, verso i quartieri-dormitorio che dall’inizio degli anni sessanta sorgono nelle periferie della città per spostare dal centro i lavoratori. La città ricostruisce uno schema societario piramidale, dove più si allontana dal centro e minore è il potere; l’importanza che diventa decisionalità si basa sulla rappresentanza, sulla delega come modello per affermare il proprio dominio. Una delle critiche del nuovo soggetto politico sarà proprio su questo passaggio, quello della delega. Nella scuola come nella fabbrica; non si tratta più di una critica ribellistica, ma del punto di contatto dal quale partire per svolgere le contraddizioni del presente.
L’iniziativa operaia si fonde con quella studentesca. Questo dato riporta al realismo la corrente storica che vorrebbe porre su piani differenti il 1968 studentesco e le lotte operaie. Se un paragone è permesso potrebbe essere quello dei binari paralleli, distinti ma capaci di diventare insieme la via d’accesso e di sviluppo del conflitto. Si tratta di ambiti differenti, ciascuno con proprie pratiche e parole d’ordine. La prova di forza, che prende il via davanti i cancelli di Mirafiori giovedì 3 luglio 1969, non è solo contro la fabbrica. Ma anche contro i partiti, i sindacati. A migliaia, con la loro partecipazione, sfidano tutto il modello di produzione; è nato un nuovo soggetto politico che è capace di determinare il proprio futuro senza bisogno dei capetti (dentro e fuori dalle fabbriche). Ed è proprio per questo che il corteo, prima ancora di mettersi in cammino, viene caricato a freddo. La polizia protegge un ordine sociale che va ben oltre la legge, è ordine di classe. Uscire dalle maglie della rappresentanza, anche sindacale, significa portare lo scontro su di un altro terreno. Più alto e potenzialmente pericoloso per lo stesso ordine sociale. Se la guerra non è nient’alto che la continuazione della politica con altri mezzi – come diceva il generale prussiano Von Clausewitz – cosa sta per succedere a Torino è una ovvia, ma brutale, conseguenza. «La polizia carica di nuovo, furiosamente. Ma poliziotti, padroni e governo hanno fatto male i loro conti. In poco tempo, non sono solo le avanguardie operaie e studentesche a sostenere gli scontri, ma tutta la popolazione proletaria del quartiere. Si formano le barricate, si risponde con le cariche alle cariche della polizia. Per ore e ore la battaglia continua e la polizia è costretta a ritirarsi. Il corteo non serve più, è la lotta di massa che conta. Non è una lotta di difesa: mentre gli scontri si fanno più duri nella zona di Corso Traiano, la lotta contagia altre zone della città, dal comune di Nichelino a Borgo San Pietro, a Moncalieri. Dappertutto le barricate, le pietre, il fuoco vengono opposti agli attacchi della polizia.
I giornali parleranno di estremisti: sono gli operai di Torino, i ragazzi, le donne. Decine di migliaia di "estremisti", coscienti che l'unica arma degli sfruttati è la lotta, e che vincere è possibile. Poliziotti e carabinieri, abituati a picchiare vigliaccamente, hanno paura, si disperdono. Mandati a bastonare un corteo, si trovano di fronte alla forza impressionante della classe operaia». La stampa si chiede anche un’altra cosa, importante. Cosa vogliono questi “delinquenti”? Le risposte sarebbero tante ed importanti; conquistare un ruolo da protagonisti in fabbrica, eliminare le briglia del sindacato da una parte e del padrone dall’altro, vogliono un aumento salariale (100 lire per tutti) e di categoria (la seconda), la riduzione dei tempi di lavoro. Ma non solo, vogliono molto di più. Un cartello innalzato sulle barricate recita”Cosa vogliamo: tutto!”. Così spiega il documento dell’assemblea operaia dei 5 luglio: «Oggi in Italia è in moto un processo rivoluzionario aperto che va al di là dello stesso grande significato del maggio francese. Non è un movimento improvviso, ma una lunga lotta che stringe saldamente operai, studenti, braccianti e tecnici, una lotta in cui i progetti capitalistici vengono continuamente sconvolti. Il governo Rumor cade ridicolmente a un giorno di distanza dalla lotta generale di Torino. La violenza repressiva, ben lungi dal distruggere le avanguardie militanti, si scontra con la lotta di massa e la radicalizza. Il grande programma di inserimento del PCI al governo viene svuotato dalla distruzione progressiva dell'influenza del PCI sui movimenti della classe operaia».    Non si tratta solo di una questione di salario, l’obbiettivo è ben più alto, è “la presa del potere”. Alcuni storici vedono, in questo passaggio, il punto di partenza per l’assalto al cielo e della capacità di ipotizzare la costruzione di un percorso rivoluzionario. Certamente la guerra di Corso Traiano passerà alla storia per la dimensione dell’operaio-massa e per aver ridato alla classe operaia l’attenzione sul tragitto politico da intraprendere, slegandolo da partiti e sindacati, facendo dell’autonomia un’area extraparlamentare affollata di soggetti e di percorsi.