..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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lunedì 28 agosto 2017

Gustav Landauer

Nato a Karlsruhe nel 1870, Gustav Landauer aderì in età giovanile all’anarchismo, difendendone per tutta la vita i valori e il progetto d’emancipazione. Attivo prevalentemente a Berlino, dove si era stabilito all’inizio degli anni Novanta, si legò all’Unione dei Socialisti Indipendenti, un’associazione fondata da un gruppo di transfughi della socialdemocrazia tedesca ostile al riformismo e al culto del parlamentarismo dominanti nel Partito. Tra il 1891 e il 1894, l’Unione si propose di sviluppare un confronto con le correnti dell’anarchismo che rifiutavano la “Propaganda del fatto” (omicidi politici, attentati a capi di Stato e di governo e ai vertici delle polizie europee, azioni dimostrative violente), servendosi soprattutto del suo organo di stampa, Der Sozialist, di cui Landauer divenne presto redattore, assumendone poi la direzione.
In questo periodo, egli assimilò il pensiero di Pierre-Joseph Proudhon e di Pëtr Kropotkin, elaborando una linea cooperativistica autonoma – approfondita nell’opuscolo del 1895 Una strada per la liberazione dei lavoratori – che gli dischiuse le porte verso il comunitarismo libertario, in seguito non più abbandonato. Alla fine del decennio, si aprì per lui un periodo di ripensamento e di studio: tradusse in tedesco opere di Walt Whitman, di William Shakespeare, di Oscar Wilde, e si avvicinò alla filosofia del linguaggio di Fritz Mauthner (1849-1923), tramite il quale scoprì anche le prediche del mistico medievale Meister Eckhart, che volse in tedesco moderno. Ritornato nel mondo politico, tra il 1908 e il 1915 animò l’Alleanza Socialista e riesumò Der Sozialist, che ne divenne la voce ufficiale. La nuova formazione politica si proponeva di creare comunità accanto allo Stato esistente, nell’ottica i fornire un esempio di vita basata sul lavoro in comune, a contatto con la terra e al riparo dalle conseguenze peggiori dell’industrializzazione: alienazione e sfruttamento, anzitutto.
Dopo la guerra Landauer partecipò alle vicende della rivoluzione tedesca in veste di Ministro dell’istruzione popolare nella prima Repubblica dei consigli di Monaco; cadde vittima della repressione il 2 maggio 1919.
Nel periodo del primo impegno politico, Landauer aveva risolutamente osteggiato il carattere determinista e scientista del socialismo dominante in Germania, opponendovi un’etica fondata sulla prefigurazione del fine ultimo – la società anarchica – in termini di passione e desiderio e sulla coerente individuazione dei mezzi adatti al fine. Differenziandosi dal socialismo scientifico, soprattutto nella forma veicolata dalle correnti ortodosse del marxismo tedesco, egli non pensava alla “città ideale” quale esito necessario dello sviluppo capitalistico; credeva infatti che la sua realizzazione dipendesse dall’intervento attivo degli uomini nella storia. Su queste basi, nel 1907 pubblicò il volume La rivoluzione, in cui, affrontando il problema della transizione con piglio eterodosso, esprimeva in prospettiva libertaria il clima culturale dell’epoca.

domenica 27 agosto 2017

Quella non è una carezza1

Lasciamo che le parole appartengano ai loro luoghi e ai loro momenti. Restituiamo le carezze alla spensieratezza della complicità. Alcune le lasceremo tra i nostri ricordi infantili, altre le potremo portare sulla pelle d’oca delle lenzuola. Accarezzate chiunque vogliate nel mondo, usatele, queste mani, per esprimere l’affetto e la curiosità che scuotono le nostre giornate. Ma non strappiamo le parole dai loro significati. Perché le mani di quell’uomo sul volto di Genet erano tutto tranne che una carezza.
Sono state usate e abusate già così tante parole su questo gesto, che urge tornare agli strumenti necessari per riconoscere la violenza, soprattutto laddove si cela dietro mani diverse. Le manganellate sono sì dolorose, e chi ha assaggiato almeno una volta la gelida potenza di un idrante conosce l’arroganza con cui si impone. Ma le mani di un uomo sul corpo di una donna, quando non richieste, non possono essere l’espiazione per queste violenze. Non c’è contraddizione né discontinuità tra il razzismo e gli abusi della celere in piazza Indipendenza e quel gesto che in tanti, troppi, hanno chiamato conforto. Non c’è alcuna mela sana qui, è il terreno da cui l’intero frutteto si è nutrito ad essere marcio. Purtroppo non possiamo lasciar correre, perché un paese intero si sta lavando la coscienza sul corpo di una donna e sulla sua rituale mediatizzazione.
Prima dell’obiettivo dell’Ansa, prima di Repubblica e dei giornalisti che citano l’eros e thanatos di Freud, già in origine quel gesto non era confortevole, né naturale, né neutro. Sono neutre le mani di uno sconosciuto che ci tocca nel centro di una piazza? Sono forse neutre le mani di un uomo su una donna? Certo esse possono esprimere dolcezza, stimolo, passione, e allora non saranno neutre. Ma altrettanto non lo possono essere quando controllano, impongono, soffocano. E sono mai state neutre le mani di un poliziotto su un corpo indifeso? Le mani di una guardia su un corpo in lotta? Quelle di un europeo su di un africano? Il potere irrompe sui nostri corpi, li piega, li allontana, li plasma, li fa cozzare, a volte li tocca con mano diretta. La violenza dell’imposizione, del paternalismo e della pietà (nella più disincantata delle accezioni) con cui quell’uomo ha messo le mani sul volto di Genet è proporzionale all’irruenza dell’alba infame che si accompagna ad uno sgombero spietato.
Quelle mani rinchiudono il volto di Genet, la chiudono nel suo ruolo sociale di creatura fragile, bisognosa perché donna, lasciando fuori la dignità del suo lottare. La compassione dell’uomo costringe le lacrime ad essere ammissione di sofferenza, negando la rabbia delle urla appena uscite dalla bocca della donna. L’allegoria è immediata: ecco l’uomo che tocca la donna e la salva dalla sua isteria. Poi la prende per mano e la porta via, verso la calma.
E per rispettare la nostra ritualità l’hanno sbattuta in prima pagina, volto senza voce e senza storia dell’ennesimo capitolo di storia scritto su un corpo femminile. L’unico spazio mediatico previsto per una donna (africana, povera, per giunta in lotta) è quello delle mani non richieste del poliziotto bianco su di lei. Spazio per il suo racconto non ne rimane. La donna nera è pubblicamente riabilitata dalla mano dell’uomo bianco e in una catarsi collettiva la sporcizia della sua pelle è contaminata dalla purezza del white man, così esistenzialmente consapevole del peso del suo compito di redenzione. La nazione festeggia sulle sue prime pagine, perché la donna è ora presentabile, sopita e ripulita, tra quelle due parentesi bianche. È la luce, è la pace! E anche questa sera si può evitare di porsi domande.
Genet la voce l’ha esaurita in piazza Indipendenza, i giornali si sono presi solo l’utile opportunità del colore della sua pelle nel momento giusto, ma chi ha voce e occasione deve ricostruire la storia. Quanti soldati italiani hanno toccato donne eritree durante il colonialismo? Quante donne africane nei secoli sono state toccate da mani bianche e si sono sentite dire “dai non piangere”? Quante donne africane continuano a essere toccate da mani bianche ogni notte? Mai che queste mani abbiano chiesto il consenso...
La storia che ci impegniamo a raccontare noi non è semplice e lineare come quella degli scribacchini da clickbait. Non c’è alcuna catarsi e lasciamo Freud ad occuparsi della piccola Dora. Noi raccontiamo delle donne che si ribellano e combattono, in Italia come in Eritrea, ovunque nel mondo esse si trovino, per essere libere da violenze ed ingiustizie. Donne che stanno in prima fila non per assenza degli uomini, ma perché nulla vieta - uomini o meno - che una donna voglia e possa stare in prima fila, con coraggio, a fronteggiare un esercito mandato a distruggere.
Ricordiamoci di raccontare queste storie e di farlo in tanti, perché saranno troppi i riflettori che vorranno costruire una versione a loro più utile. Raccontiamole ogni giorno, affinché diventi pratica abituale riconoscere l’oppressione dietro ogni maschera, anche la più magnanima. Perché ogni giorno sia una lotta per non farci vincere dal dilagante patetismo paternalistico. Perché io davanti a quella foto non mi commuovo, sento le viscere contorcersi e mi incazzo. Quella non è una carezza, è lo sfregio del potere sulla pelle di una donna. Ed è una violenza.

sabato 26 agosto 2017

Roma, la resistenza dei rifugiati allo sgombero di Via Curtatone

Ancora una volta blindati a Piazza Indipendenza per le operazioni di sgombero dell'immobile di via Curtatone. Centinaia di famiglie in emergenza abitativa stanno resistendo dentro e fuori lo stabile.
La mattina del 23 luglio sono ricominciate le operazioni di sgombero dello stabile di via Curtatone, iniziate il 19 scorso all'alba. Era stato dato l'ultimatum per uscire dall'immobile. Decine di blindati hanno nuovamente bloccato l'intera zona. Questa volta però le famiglie si sono organizzate per resistere: dentro tanti e tante si sono barricate sui tetti e sui balconi, fuori un presidio di diverse centinaia di persone intona cori e fronteggia la polizia. Senza paura e con energia i rifugiati sono pronti a resistere per ore.
La questura è in evidente difficoltà e sta cercando di allontare giornalisti e solidali. Il comune si dimostra assolutamente incapace nel trovare soluzioni accettabili e dignitose. La proposta di sistemazione prevede lo smembramento dei nuclei familiari. Ancora una volta le istituzioni in questa città operano uno sgombero senza offrire alternative.
Le persone sgomberate sono circa un migliaio e vengono quasi tutte dall'Eritrea e dalla Somalia. Dai balconi vengono calati striscioni con scritto "Siamo rifugiati, non terroristi".
Anche oggi a Roma sarà un'altra giornata di lotta e di resistenza per chi ha bisogno di un tetto sopra la testa, anche oggi continua a consumarsi un'altra pagina vergognosa delle istituzioni di questa città e di questo paese.
Cosa è successo in piazza Indipendenza a Roma?
Il 19 agosto un ingente dispiegamento delle forze dell’ordine si è presentato a piazza Indipendenza per sgomberare un palazzo occupato dal 2013 in cui avevano trovato casa centinaia di nuclei familiari sfrattati o senza soluzione abitativa. Le istituzioni predispongono però lo sgombero ma nessuna soluzione alternativa, al punto che la sera stessa la polizia è obbligata a far tornare ai primi piani dell’immobile un centinaio di persone, fra le più “fragili”. Alle altre centinaia persone viene semplicemente detto di accamparsi nei pressi della piazza, non esistendo alcuna soluzione alternativa. Nel pomeriggio del 23 agosto la polizia, arrogante e dilettantesca, si ripresenta in Piazza Indipendenza e tenta di sgomberare di nuovo gli sgomberati, pretendendo di spostarli come fossero bestiame. Incontra però la resistenza decisa degli occupanti: “siete voi che ci avete detto di restare qui, che questo era il piano B… e ora ci dite di andarcene?”. La mattina seguente (24 agosto) la polizia arriva all’alba e aziona gli idranti contro le persone ancora infagottate nelle proprie coperte, al primo segno di resistenza le carica fin dentro a stazione Termini. Un funzionario di polizia, furtivamente ripreso da una telecamera, incita i suoi uomini: “devono sparire peggio per loro, se tirano qualcosa spaccategli un braccio”.
Chi sono quelli che “devono sparire”?
Si tratta per la maggior parte di rifugiati etiopi ed eritrei, cittadini, quindi, di due ex colonie italiane. Sono quindi “quelli che hanno il diritto di restare”, il paravento dietro cui si nascondono i vari razzisti per dire che non sono razzisti… indovinate un po’ ? Anche questa volta si invocano ruspe e crociere per tornare a casa! Peccato che la casa degli sgomberati di Piazza Indipendenza sia proprio qui. Perché sono qui da anni, perché qui hanno i loro affetti, qui mandano qui i figli a scuola, qui lavorano, spesso ipersfruttati e sottopagati nell’industria turistica come tanti italiani.
Cos'è il palazzo di via Curtatone?
Il Palazzo è stato occupato nel 2013 dai movimenti per il diritto all’abitare di Roma per sopperire alla latitanza dell’istituzioni verso le persone senza casa. Grazie all’occupazione centinaia di persone che non avevano letteralmente un tetto sopra la testa hanno potuto trovare una sistemazione dignitosa senza levare niente a nessuno. Il palazzo è infatti la ex-sede di Federconsorzi, uno dei peggior esempi di mangioneria affaristico mafiosa tipicamente italica, chiusa nel 1991 per bancarotta fraudolenta. 
Chi sono gli attuali proprietari?
L’immobile è stato poi ceduto a un fondo di speculazione immobiliare, Idea Fimit SGR, che lo ha inserito nel suo pacchetto Omega e lo ha lasciato per anni all’abbandono. Idea Fimit è tra le maggiori Società di gestione risparmi in Italia, con un patrimonio attuale stimato a 9 miliardi di euro così diviso: il socio di maggioranza è De Agostini con il 64,3%, poi INPS con il 27,3% e Carispezia con il 6%. De Agostini holding gestisce, oltre a Idea FIMIT, anche la concessione esclusiva del gioco del Lotto in Italia e sta oggi massicciamente investendo nei cosiddetti Non performing loans, i crediti deteriorati che hanno poi generato il fallimento di diversi istituti di credito in Italia. Interessante che tra le altre rendite della De Agostini ci sia anche quella sui migranti. Idea Fimit è infatti in realtà piuttosto ben disposta verso i futuri rifugiati, purché rappresentino un business. Il 14 marzo scorso la Prefettura di Roma ha comunicato di aver individuato proprio in uno stabile del suo fondo Alfha un'interessante soluzione per uno dei nuovi hub di schedatura dei migranti previsto per circa cinquecento persone.
Ma è vero che agli sgomberati sono state proposte soluzioni alternative?
A (una piccolissima parte) degli sgomberati è stato permesso soprattutto di rientrare dentro il famoso circuito dell’accoglienza. Per 80 persone è prevista la sistemazione provvisoria in uno SPRAR come se fossero appena arrivati in Italia. L’attuale locatario dell’immobile di piazza Indipendenza ha invece proposto per qualche altra decina di persone un breve ricollocamento a Rieti a non si sa quali condizioni (e con quale tornaconto…). Per il resto (stiamo parlando di centinaia di famiglie!) nessuna soluzione all’orizzonte, neanche la strada visto che sono stati cacciati anche da lì.
A dire il vero, davanti all’inerzia delle istituzioni, una soluzione gli sgomberati l’avevano trovata da sé, organizzandosi dal basso per prendersi un diritto fondamentale come la casa. Ora invece si prefigura un nuovo giro dentro meccanismi pelosi di “buoni samaritani” che non sono né tanto buoni né tanto samaritani.
E le bombole del gas?
Il 23 agosto durante il tentativo di “sgomberare gli sgomberati” un gruppo di donne, disperate alla vista degli agenti, si è barricato su un terrazzo minacciando di aprire le bombole del gas e ammazzarsi. Un gesto estremo come troppi se ne vedono quando si perde tutto e che per fortuna non è stato portato a compimento. La mattina del 24 sembra che una bombola del gas sia stata lanciata dalla finestra con alcuni agenti di polizia si trovavano a decine di metri di distanza. È importante sapere che le bombole sono ormai l’unica soluzione per scaldarsi e cucinare nelle occupazioni abitative visto che l’art. 5 del Piano casa di Renzi vieta di allacciare regolari utenze negli stabili occupati, aumentando ancora il disagio di persone che si trovano già in situazione precaria. Ci sembra ci sia poco da stupirsi del lancio di oggetti vari. Se provano a sbattere fuori di casa te e la tua famiglia, se ti umiliano e ti trattano come un animale ti difendi con cosa hai sottomano: voi non fareste così? In ogni caso questo gesto sembra aver particolarmente impressionato i professionisti dell’ordine. La Questura di Roma ha diramato un comunicato stampa che è stato acriticamente copia-incollato da tutti i giornalisti (alla faccia del quarto potere!) senza neanche interpellare gli sgomberati o movimenti per il diritto all'abitare.
Che cosa succede ora?
I movimenti per il diritto all’abitare hanno convocato una manifestazione sabato 26 agosto alle 16 a Piazza dell’Esquilino con lo slogan “Roma città aperta: italiani e migranti mai più senza casa, diritti, dignità”. Ora la facciamo noi una domanda: riusciremo per una volta a non fare distinzioni che fanno solo il gioco del sistema e stare dalla parte di chi decide di lottare riprendendosi ciò che gli spetta?

giovedì 24 agosto 2017

Le radici libertarie di Victor Serge

Scrittore francese di sangue e spirito russo, romanziere, poeta, storico, giornalista e traduttore, Victor-Napoleon Lvovich Kibalchich – alias Victor Serge, Le Rétif, Le Masque, Ralph, R. Albert, Victor Stern, Victor Klein, Alexis Berlowsky, Sergo, Siegfried, Gottlieb, V. Poderewski e qualche altro pseudonimo – nacque in esilio a Bruxelles, il 31 dicembre 1890, e morì, sempre in esilio, a Città del Messico, il 17 novembre 1947. Visse il mondo ipocrita della Belle Époque, l’esaltazione comunista degli anni Venti e l’incubo totalitario della mezzanotte del secolo. Passò per le correnti più importanti del movimento operaio: il socialismo riformista, il comunismo anarchico, l’individualismo, l’anarcosindacalismo, il bolscevismo e il trotzkismo, senza mai abbandonare una spiccata sensibilità libertaria. Trascorse una decina d’anni di prigionia in diversi Paesi, partecipò a tre rivoluzioni – la spagnola (1917), la russa (1919-20) e la tedesca (1923) – e fu attivo anche in Belgio, Francia, Austria e Messico. Sopravvisse al Gulag e alla barbarie nazista, e fu tra i primi a qualificare l’URSS come un regime totalitario.
Autore di culto, sebbene quasi sconosciuto al grande pubblico, non sviluppò un sistema dottrinale né lasciò una scuola di pensiero. Non fu neppure un intellettuale nel senso tradizionale; in ogni tappa critica, cercò di dare alle esigenze dello spirito uno sbocco nell’azione. La sua attualità risiede nella riflessione traboccante, letteraria e poetica ancor più che teorica, sulla tragedia di una rivoluzione che divora se stessa. Nelle centinaia di pagine che dedicò a questo tema, mantenne la freddezza dell’analista distaccato conservando, allo stesso tempo, la passione militante e la certezza di un avvenire migliore. È impossibile avvicinarsi all’opera di Victor Serge senza evocare le sue vicende umane. Nato nel seno di una famiglia poverissima, cominciò a guadagnarsi la vita a quindici anni. Fu, in ordine successivo, apprendista fotografo, fattorino, gasista, disegnatore tecnico, tipografo, traduttore, giornalista e correttore di bozze. Un lontano parente, il chimico Nicolai Kibalchich, era stato l’esperto in esplosivi della Narodnaia Volia (Volontà del Popolo), la famosa organizzazione rivoluzionaria erede del populismo, che vedeva nella comune rurale russa (il mir) la possibilità di costruire un socialismo contadino. In casa Kibalchich, la poesia sostituiva la preghiera e si narravano storie di attentati, processi e fughe dalla Siberia, in un’atmosfera analoga ai romanzi di Dostoevskij, Chernichevsky e Turgenev. Nei tanti alloggi di fortuna dove visse la famiglia, poteva mancare il pane, ma vi era sempre un samovar fumante, libri in varie lingue e foto di vittime della repressione. La famiglia sopravviveva a stento: Raoul-Albert, il fratellino minore, morì di fame e, anni dopo, la madre Vera finì stroncata dalla tubercolosi, la malattia dei poveri.
Da quei genitori atipici che lo colmarono d’affetto, senza mandarlo a scuola, Victor ereditò il raro dono della coscienza sociale, un’insaziabile curiosità intellettuale e una grande indipendenza di spirito. Il padre Leonid, che si rifaceva all’evoluzionismo di Herbert Spencer, trasmise al figlio la cultura scientifica e materialista del suo tempo, mentre Vera, donna di grande sensibilità e raffinatezza, lo iniziò alla poesia e alla letteratura universale. A ciò bisogna aggiungere un sapere fatto di biblioteche popolari, circoli di studio, pubblicazioni sindacali, feuilleton, opere di divulgazione scientifica e tutto l’arsenale della cultura popolare dell’epoca.

lunedì 21 agosto 2017

Bagliori nella nebbia

Dalla terra si elevano lentamente ciuffi lattei di foschia, silenti lemuri in perpetua erranza provenienti dall'Averno. Poi inaspettatamente si forma una densa coltre opalescente che annulla ogni contorno e le parvenze vengono inghiottite di repente. Permangono suoni attenuati, sporadici rumori dispersi nel nulla. La nebbia ha invaso lo spazio fisico dell'esistente e lo chiude nella propria invisibilità, condizione di incomunicabilità e di segregazione illimitata. La bianca e impalpabile sostanza diviene grigia nube venefica quando scaturisce dalla putredine sociale industrializzata dal dominio. Il programma globale di confezionamento del vivente prosegue a pieno ritmo e diventa sempre più sofisticato. Ogni essere viene rinchiuso in gabbie invisibili che percorrono la durata della sua esistenza. Tutto deve seguire le tappe stabilite del grande meccanismo produttivo. Dalla nascita alla morte gli individui percorrono l'unica strada asfaltata delimitata da ogni tipo di merce che stimoli indotti obbligano ad un consumo ossessivo.
L'artificio tecnologico genera masse abnormi di fumo tossico che soffoca lo sguardo, le sensazioni e l'intelletto. Il distacco dall'autenticità del vivente è quasi irreversibile, ma questo non viene percepito dai più che si preoccupano soltanto di rimanere nel circuito produttivistico del post capitalismo. La nebbia del dominio entra nelle menti e le narcotizza creando dipendenze totalizzanti. In questa fumosa atmosfera si intravede una luce fittizia perennemente accesa sotto la quale nascono generazioni di umani contenti di essere accarezzati dai suoi raggi elettromagnetici. Il controllo del pianeta diventa alla fine progressivamente invadente, quasi completo. Nella fitta rete ipertecnologica del dominio ci sono però piccole crepe, smagliature quasi invisibili che mani ribelli lacerano giorno dopo giorno; mani sempre più numerose che agiscono in molte zone della vasta ragnatela. Nella nebbia globale densa di rassegnazione, di depressione e di frustrazione questi atti di rivolta sono bagliori di vera luce, fiamme di libertà che espandono il calore della giustizia e della solidarietà. Si staglia così in tutta la sua indomita fierezza l'immagine dell`anarchia, dotata di una bellezza semplice ma irresistibile che innamora con il suo sguardo moltitudini di individui. A nulla valgono le operazioni repressive del potere, al suo cospetto non sono che afoni balbettii. La pesante fuliggine si dissolve, è il momento della splendente libertà!

domenica 20 agosto 2017

Il varco

“Proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono nel momento in cui so di essere unico. Nell'unico il proprietario stesso rientra nel suo nulla creatore, dal quale è nato. Ogni essere superiore a me stesso, sia Dio o l'uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e impallidisce appena risplende il sole di questa mia consapevolezza. Se io fondo la mia causa su di me, l'unico, essa poggia sull'effimero, mortale creatore di sé che se stesso consuma. ”
Max Stirner: “L' unico e la sua proprietà”

A volte mi piace paragonare l'esistente ad un'ampia strada circolare senza sbocchi laterali. Penso con tristezza alle stagioni del vivere che si susseguono con una prevedibilità sconcertante resa ancora più squallida (e spesso dolorosa) dalle consuetudini sociali e dagli artigli del dominio. L'azione nefasta di entrambi comprime costantemente le pulsioni e i desideri dell'individuo che viene obbligato a percorrere un unico tracciato. Attraverso le lunghe gallerie dell'educazione, della famiglia, della religione, del lavoro e del diritto etc... si cerca di modellare l'unicità dei viventi sino a ridurli a materiali inerti privi di stimoli creativi e di capacità di azione. L'espansione epidemica della tecnologia ha alterato la percezione del reale sostituendosi con una vasta dimensione spettacolare.
Lo spontaneo incedere dell'io viene bloccato in un ruolo mistificante. Il potere organizza, attraverso il consenso sociale, lo svuotamento dell`autenticità egoistica trasformandola in un simulacro. Ecco profilarsi il presupposto della “lievitazione” della massa industrializzata, obiettivo ultimo di ogni sistema politico autoritario. Come evadere allora da questo perverso circuito? La consapevolezza della potenzialità dell'io e della sua finitudine incentiva il desiderio di appropriarsi del presente e di goderlo, di consumarlo senza remore. Non bisogna proiettarsi in un futuro “magnifico” fondato sull'attesa messianica di un'umanità liberata. La nostra unicità esige fin da ora la fruizione del mondo, pretende di assaporare la linfa vitale che fluisce nell'attimo irripetibile. Ostacolo a tutto questo rimane pertanto la malattia specificatamente umana chiamata dominio, cancro abnorme che assimila la nostra energia primigenia. Sottrarsi a questo parassita letale è la reazione necessaria per continuare a vivere. Questo atto preferisco chiamarlo rivolta. É l'espandersi orgoglioso dell'io che sboccia nel gesto liberatorio di spezzare le catene, di abbattere il muro della prigione, di aprire al fine un varco e di respirare profondamente il profumo di un nuovo giorno.

venerdì 18 agosto 2017

L’impeto refrattario

Una forza naturale e indomabile insita nei viventi scuote da sempre la struttura del dominio e della società. L'impeto refrattario fa tremare le artificiali e precarie fondamenta del potere (nelle sue varie forme politiche, economiche, religiose, morali e culturali) che nel corso del tempo sono state costruite sullo sfruttamento e sulla morte. Ogni individuo dotato di energia vitale non si adegua volontariamente all'esistente ma lo contrasta con tutti i mezzi a sua disposizione. Gli esseri viventi nascono liberi e con una propria unicità che non desidera essere sottoposta a coercizioni, a limiti, tanto meno a prigionie.
Quando l'io prende coscienza di sé inizia una lotta incessante con una realtà sociale che lo vuole plasmare nei suoi innumerevoli “valori” basati sull'autoritarismo e sull'oppressione. Nei primi mesi di vita l'individuo viene educato (prima dall'ambiente famigliare poi dalla scuola) per diventare un “buon cittadino”, un “lodevole studente”, un “lavoratore produttivo”, un “bravo genitore”, un “generoso consumatore di merci”. L'addestramento viene completato dalle nuove tecnologie mediatiche che bombardano incessantemente la sua mente. Ma l'egoista refrattario respinge con veemenza questo sistema omologante e si adopera per bloccare questo gigantesco meccanismo distruttore.
L'individuo ribelle comprende benissimo che per manifestare e difendere la propria libertà (e quella dell'intero vivente) deve necessariamente scontrarsi con il dominio. L'io refrattario non rinvia la lotta a un incerto domani (in attesa di creare o usufruire di organizzazioni politiche rassicuranti) ma intraprende fin da subito la propria lotta senza tregua e se in questo frangente incontra altri indomabili affini si unisce a loro per rendere più efficace la sua battaglia.
L'individuo ribelle è un vagabondo del pensiero, un nomade della conoscenza e di tutti i territori esistenziali; afferra ciò che desidera e lo divora senza ritegno, gode il presente e ignora il futuro, detesta la rinuncia e per evitarla è disposto ad affrontare rischi estremi. La conquista dell'esistente da parte dell'io è possibile soltanto liberando l'impeto refrattario, questa fiamma primigenia che ci muove fin dal primo respiro. Quanti solerti funzionari del dominio si adoperano per soffocarla! Per spegnere la brace che arde silente nel nostro gesto sovversivo! Ma nessuno alla fine può opporsi al sorgivo impulso ribelle che frantumando ogni barriera diviene danza gioiosa del vivere.

mercoledì 16 agosto 2017

Il tiranno secondo Etienne de la Boétie:

«Vi sono tre tipi di tiranni: gli uni ottengono il regno attraverso l’elezione del popolo, gli altri con la forza delle armi, e gli altri ancora per successione ereditaria. Chi lo ha acquisito per diritto di guerra si comporta in modo tale da far capire che si trova, diciamo così, in terra di conquista. Coloro che nascono sovrani non sono di solito molto migliori, anzi essendo nati e nutriti in seno alla tirannia, succhiano con il latte la natura del tiranno, e considerano i popoli che sono loro sottomessi, come servi ereditari; e, secondo la loro indole di avari o prodighi, come sono, considerano il regno come loro proprietà. Chi ha ricevuto il potere dello Stato dal popolo […] è strano di quanto superino gli altri tiranni in ogni genere di vizio e perfino di crudeltà, non trovando altri mezzi per garantire la nuova tirannia che estendere la servitù ed allontanare talmente i loro sudditi dalla libertà, che, per quanto vivo, gliene si possa far perdere il ricordo. A dire il vero, quindi, esiste tra loro qualche differenza, ma non ne vedo affatto una possibilità di scelta; e per quanto i metodi per arrivare al potere siano diversi, il modo di regnare è quasi sempre simile».

Interessante l'analisi che Boétie fa sui modi in cui i tiranni convincono i cittadini a sottomettersi:

1) Abituarli all'abitudine e all'oblìo
«È incredibile come il popolo, appena è assoggettato, cade rapidamente in un oblio così profondo della libertà, che non gli è possibile risvegliarsi per riottenerla, ma serve così sinceramente e così volentieri che, a vederlo, si direbbe che non abbia perduto la libertà, ma guadagnato la sua servitù [...] È vero che, all’inizio, si serve costretti e vinti dalla forza, ma quelli che vengono dopo servono senza rimpianti e fanno volentieri quello che i loro predecessori avevano fatto per forza. È così che gli uomini che nascono sotto il giogo, e poi allevati ed educati nella servitù, senza guardare più avanti, si accontentano di vivere come sono nati, e non pensano affatto ad avere altro bene né altro diritto, se non quello che hanno ricevuto, e prendono per naturale lo stato della loro nascita. [...] Benché dunque l’indole umana sia libera, l’abitudine ha sugli individui effetti maggiori che non la loro indole, e così essi accettano la servitù se sono sempre stati educati come schiavi».

2) Abbrutirli
Qui Boétie elenca una serie di divertimenti, 'distrazioni poco serie' di cui i tiranni si servono per impoverire culturalmente il popolo, una sorta di televisione ante-litteram, com'è stata la musica elettronica e vuota degli anni '80 dopo l'impegno sociale dei cantautori nei '70, praticamente la strategia romana del 'panem et circenses'. Infatti dice:
«Così i popoli, istupiditi, trovando belli quei passatempi, divertiti da un piacere vano che passava loro davanti agli occhi, si abituavano a servire più scioccamente dei bambini che, vedendo le luccicanti immagini dei libri illustrati, imparano a leggere».

3) Dividerli
Se è vero che 'il popolo unito non sarà mai vinto', allora la strategia di Stato deve intervenire per fare in modo che il popolo venga diviso e litighi. Ma, al contempo, è necessario che il tiranno, il capo del governo, venga percepito come l'entità unificatrice, il tutore, il padre raccoglitore di tutte le istanze, l'eliminatore delle discordie interne al popolo (che il tiranno stesso aveva messo). Lo Stato deve essere percepito come un dogma, il cui rappresentante, il capo, dev'essere un Hammurabi o un faraone, colui che unisce il popolo sotto uno scettro (carta costituzionale).
«gli imperatori romani non dimenticarono neanche di assumere di solito il titolo di tribuno del popolo, sia perché quella era ritenuta sacra, sia perché era stata istituita per la difesa e la protezione del popolo, e sotto la tutela dello Stato. Così si garantivano che il popolo si fidasse di più di loro, come se dovesse sentirne il nome e non invece gli effetti. Oggi non fanno molto meglio quelli che compiono ogni genere di malefatta, anche importante, facendola precedere da qualche grazioso discorso sul bene pubblico e sull’utilità comune».

4) Gerarchizzarli
«non lo si crederà immediatamente, ma certamente è vero: sono sempre quattro o cinque che sostengono il tiranno, quattro o cinque che mantengono l’intero paese in schiavitù. È sempre successo che cinque o sei hanno avuto la fiducia del tiranno, che si siano avvicinati da sé, oppure chiamati da lui […]. Questi sei ne hanno seicento che profittano sotto di loro, e fanno con questi seicento quello che fanno col tiranno. Questi seicento ne tengono seimila sotto di loro, che hanno elevato nella gerarchia, ai quali fanno dare o il governo delle province, o la gestione del denaro pubblico […].Da ciò derivano grandi conseguenze, e chi vorrà divertirsi a sbrogliare la matassa, vedrà che, non seimila, ma centomila, milioni, si tengono legati al tiranno con quella corda […]. Insomma che ci si arrivi attraverso favori o sotto favori, guadagni e ritorni che si hanno sotto i tiranni, si trovano alla fine quasi tante persone per cui la tirannia sembra redditizia, quante quelle cui la libertà sarebbe gradita»

domenica 13 agosto 2017

Ravachol davanti ai giudici

Il 1° maggio del 1891 il governo francese fece reprimere una manifestazione a Fourmies con l'uso delle armi, 14 persone furono uccise e 40 ferite. Nello stesso giorno a Clichy la polizia arrestò alcuni anarchici che avevano usato delle armi, furono condannati a lunghe detenzioni e ai lavori forzati.
Per vendetta, l'11 marzo del 1892 Ravachol mise una bomba nella casa del giudice di Clichy e il 27 marzo in casa del procuratore. Nello stesso mese organizzò un attentato presso una caserma di Parigi. Gli attentati provocarono grossi danni ma non fecero vittime.
Ravachol fu riconosciuto dal proprietario di un ristorante nel quale si trovava e arrestato. Fu condannato ai lavori forzati a vita ma due mesi più tardi il processo passò al tribunale di Montbrison dove era stato accusato di omicidio e la condanna fu trasformata in condanna a morte per ghigliottinamento.
Questa la dichiarazioni davanti ai giudici di Francois Claudius Koenigstein, detto Ravachol:

Se prendo la parola, non é per difendermi degli atti di cui mi si accusa, poiché solo la società che, con la sua organizzazione, mette gli uomini in continua lotta gli uni contro gli altri, é responsabile. E in effetti, non vediamo in tutte le classi, in tutti gli ambienti, persone che desiderano, non dico la morte, poiché suonerebbe male all'orecchio, ma la disgrazia dei loro simili se questa può procurare loro dei vantaggi?
Esempio: un padrone non si augura di veder sparire un concorrente? Tutti i commercianti, in generale, non vorrebbero, reciprocamente, essere i soli a godere i vantaggi che possono venire dalla propria industria?
L'operaio senza impiego non sogna, per ottenere del lavoro che, per un qualsiasi motivo, colui che é occupato venga licenziato?
Ebbene, in una società dove si producono simili fatti non devono sorprendere atti come quelli che mi si rimproverano, i quali non sono altro che la logica conseguenza della lotta per l'esistenza tra gli uomini che per vivere sono obbligati ad impiegare tutti i mezzi possibili. Dal momento che ciascuno deve pensare a sé, colui che si trova nella necessità deve agire. Ebbene! Poiché così é, quando ho avuto fame non ho esitato ad impiegare i mezzi che erano a mia disposizione a rischio di fare delle vittime.
Quando i padroni licenziano gli operai si preoccupano poco di vederli morire di fame.
Tutti coloro che hanno il superfluo, si interessano di chi manca delle cose necessarie? Vi sono alcuni che danno qualche aiuto, ma sono impotenti a sollevare tutti coloro che si trovano in stato di necessità e che muoiono prematuramente in seguito a privazioni di ogni tipo, o volontariamente suicidandosi in ogni modo per porre fine ad un'esistenza miserabile o per non aver potuto sopportare i rigori della fame, le onte delle innumerevoli umiliazioni senza alcuna speranza di vederli finire. Così come hanno fatto la famiglia Hayem e la signora Soufrein che hanno dato la morte ai loro figli per non vederli ancora patire la fame.
E tutte quelle donne che, nel timore di non poter dare da mangiare ai loro figli, non esitano a compromettere la loro salute e la loro vita distruggendo nel loro seno i frutti del loro amore!
Ebbene! tutto questo accade in mezzo all'abbondanza di ogni tipo di prodotto. Si capirebbe se tutto questo avesse luogo in un paese povero di prodotti, dove vi é carestia; ma in Francia, dove regna l'abbondanza, dove le macellerie sono stracolme di carni, i panifici di pane, dove i vestiti e le scarpe riempiono i magazzini; dove vi sono appartamenti vuoti, come ammettere che nella società tutto va bene quando si vede così bene il contrario? Vi sono persone che piangono tutte queste vittime ma dicono che non é possibile far niente! Che ognuno se la sbrogli come può! Cosa può fare colui che, pur lavorando, manca del necessario? Se non lavora, non gli resta che lasciarsi morire di fame, e allora qualcuno getterà qualche parola di pietà sul suo cadavere. Ecco ciò che ho voluto lasciare ad altri. Ho preferito diventare contrabbandiere, falsario, ladro e omicida!
Avrei potuto mendicare, ciò é degradante e vigliacco ed é anche punito dalle vostre leggi che fanno della miseria un delitto.
Se tutti i bisognosi, invece di aspettare, prendessero dove ce n'é e con qualsiasi mezzo, forse i benestanti comprenderebbero più in fretta che é pericoloso voler conservare l'attuale stato sociale in cui l'inquietudine é permanente e la vita é in ogni istante minacciata; finirebbero senza dubbio per comprendere che gli anarchici hanno ragione quando dicono che, per avere la tranquillità morale e fisica, bisogna distruggere le cause che producono il crimine e i criminali. Non é sopprimendo colui che preferisce afferrare con violenza ciò che gli serve per assicurarsi il benessere, piuttosto che morire di una morte lenta dovuta alle privazioni che sopporta, o che dovrebbe sopportare senza speranza di vederle finire (se ha un poco di energia). Dopo tutto la fine della propria vita non é altro che una fine delle sofferenze.
Ecco perché ho commesso gli atti che mi si rimproverano e che sono la conseguenza logica dello stato barbaro di una società che non fa altro che accrescere il numero delle sue vittime col rigore delle sue leggi che intervengono sugli effetti senza mai toccare le cause!
Si dice che bisogna essere crudeli per ammazzare un proprio simile: ma coloro che parlano così non vedono che lo si fa per evitare che lo facciano a noi stessi! Anche voi, signori giurati, senza dubbio mi condannerete a morte perché ritenete che sia una necessità e che la mia scomparsa sarà una soddisfazione per voi che avete orrore di veder scorrere il sangue umano; ma quando credete che sia utile versarlo per assicurare la vostra esistenza, non esitate più di me a farlo. Con questa differenza, che voi lo farete senza alcun pericolo, al contrario di me che agivo a rischio e pericolo della mia libertà e della mia vita. 
Ebbene, signori, non vi sono criminali da giudicare ma le cause del crimine da distruggere. Creando gli articoli del Codice, i legislatori hanno dimenticato che non attaccavano le cause ma semplicemente gli effetti e che in tal modo non distruggevano affatto il crimine. In verità, esistendo sempre le cause, scaturiranno sempre effetti e si avranno sempre dei criminali, poiché oggi ne distruggete uno ma domani ne nasceranno due.
Cosa bisogna fare allora?
Distruggere la miseria, questo genio del crimine, assicurando a ciascuno la soddisfazione di tutti i propri bisogni.
E quanto sarebbe facile realizzarlo. Bisognerebbe stabilire la società su nuove basi in cui tutto fosse in comune, in cui ciascuno producendo secondo le proprie possibilità e le proprie forze, potesse consumare secondo i propri bisogni.
Allora gli inventori, avendo tutto a loro disposizione, creerebbero delle meraviglie per fare in modo che i lavori che ci sembrano penosi o ripugnanti diventino una distrazione o un passatempo. Allora non vi sarebbe più quell'inquietudine per il domani che é un continuo tormento per l'operaio e anche per il padrone, per tutti. Non si vedrebbe più gente, come l'eremita di Nostra Signora delle Grazie ed altri, mendicare un metallo del quale diviene la schiava e la vittima!
Non si vedrebbero più donne vendere il proprio corpo come una volgare merce, in cambio di quello stesso metallo che molto spesso ci impedisce di capire se l'affetto é veramente sincero!
Non si vedrebbero più uomini come Pranzini Prado e Anastay, pur adolescenti che, sempre per avere questo metallo, arrivano ad uccidere.
Tutto questo dimostra chiaramente che la causa di tutti i crimini é sempre la stessa; che bisogna veramente essere stupidi per non vederla!
Sì, lo ripeto, é la società che fa i criminali. E voi giurati, invece di colpire loro, dovreste impiegare le vostre forze a trasformare la società.
Di colpo sopprimereste tutti i crimini e la vostra opera, attaccando le cause, sarebbe più grande e più feconda di quanto non lo sia la vostra giustizia che si limita a colpire gli effetti.
Io sono solo un operaio senza istruzione ma, avendo vissuto l'esistenza dei miserabili, sento meglio di un ricco borghese l'iniquità delle leggi repressive.
Dove prendete il diritto di uccidere o di rinchiudere un uomo che, messo sulla terra con la necessità di vivere, si é trovato nella necessità di prendere ciò che gli era necessario?
Ho lavorato per vivere e far vivere i miei, tanto che io e i miei non abbiamo troppo sofferto, sono rimasto quello che voi chiamate onesto. Poi il lavoro é mancato e con la disoccupazione é venuta anche la fame!
Fu allora che questa grande legge della natura, questa voce imperiosa che non ammette repliche, l'istinto di conservazione, mi spinse a commettere i crimini e i delitti di cui mi riconosco l'autore.
Nego di aver commesso quelli della Varizelle [Ravachol era stato anche incolpato di omicidio volontario nella persona di Jean Rivolier abitante a La Varizelle, ndr] e delle signore Marcon [due donne trovate uccise a Saint-Etienne, ndr] poiché ne sono completamente estraneo e voglio evitare alla vostra coscienza i rimorsi di un errore giudiziario.
Giudicatemi, signori giurati e, se mi avete compreso, nel giudicarmi giudicate tutti i disgraziati che la miseria, alleata alla fierezza naturale, ha fatto diventare criminali e che in una società intelligente sarebbero state persone come tutte le altre”.

giovedì 10 agosto 2017

Kill for peace - Fugs

In un periodo in cui l'opposizione alla guerra del Vietnam aveva appena iniziato a costruire una propria identità, i Fugs satirizzavano l'assurdità della guerra mettendo il testo di "Uccidere per la Pace" in un rocker grezzo che ricorda "Twist and Shout".
Cantava nel 1967 Tuli Kupferberg, straordinario personaggio della contro-cultura, al confine fra mondo beat e folk revival:
Kill, kill, kill for peace
Kill, kill, kill for peace
Near or middle or very far East
Far or near or very middle East.
“Ammazza, ammazza, ammazza per la pace: nel vicino o medio o molto estremo oriente, nell’estremo, vicino, o molto medio Oriente…” 
E continuava, scandendo sui cliché degli slogan politici e pubblicitari: “Se non li ammazzi tu li ammazzeranno los cubanos […] se non li ammazzi potrebbero sovvertire la Prussia, se non li ammazzi potrebbero amare la Russia […] ammazza, ammazza, sarà bellissimo, me l’ha promesso il mio capitano…” Kupferberg continuò ad aggiornare la canzone con nuove strofe, fino almeno alla fine degli anni ’80. Non sappiamo se ha continuato a farlo anche dopo, ma non c’è dubbio che il suo “Kill for peace” avrebbe trovato nitide risonanze nei “bombardamenti umanitari” di fine e inizio nuovo millennio.

Kill, kill, kill for peace
Kill, kill, kill for peace
Near or middle or very far east
Far or near or very middle east
Kill, kill, kill for peace
Kill, kill, kill for peace
If you don't like the people
or the way that they talk
If you don't like their manners
or they way that they walk,
Kill, kill, kill for peace
Kill, kill, kill for peace
If you don't kill them
then the Chinese will
If you don't want America
to play second fiddle,
Kill, kill, kill for peace
Kill, kill, kill for peace
If you let them live
they might support the Russians
If you let them live
they might love the Russians
Kill, kill, kill for peace
Kill, kill, kill for peace
(spoken)
Kill 'em, kill 'em, strafe those gook creeps!
The only gook an
American can trust
Is a gook that's got
his yellow head bust.
Kill, kill, kill for peace
Kill, kill, kill for peace
Kill, kill, it'll
feel so good,
like my captain
said it should
Kill, kill, kill for peace
Kill, kill, kill for peace
Kill it will give
you a mental ease
kill it will give
you a big release
Kill, kill, kill for peace
Kill, kill, kill for peace
Kill, kill, kill for peace
Kill, kill, kill for peace
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Nel vicino, nel medio e nell'estremo Oriente
Nel lontano, nel vicino o nel medio Oriente
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Se non ti piace quella gente
o il modo in cui parlano,
Se non ti piace come si comportano
o il modo in cui camminano
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Se non li ammazzi
ti ammazzeranno i cinesi
Se non vuoi che l'America
giochi un ruolo di secondo piano
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Se li lasci vivere
potrebbero aiutare i russi
Se li lasci vivere
potrebbero amare i russi
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Ammazzali, ammazzali, punisci quegli stronzi di musi gialli!
Il solo muso giallo
di cui un americano può fidarsi
è quello che gli hanno
rotto la testa gialla.
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Ammazza, ammazza, ti farà
sentire così bene,
come il mio capitano
disse che dovrebbe essere
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Ammazzare ti darà
sollievo alla mente
ammazzare ti darà
una grande liberazione
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace
Ammazza, ammazza, ammazza per la pace

martedì 8 agosto 2017

Etienne de la Boétie, un attualissimo politico anarchico del XVI secolo

Etienne de la Boétie a sedici anni scrive il 'Discorso sulla servitù volontaria', un testo che l'editoria contemporanea ha riscoperto e sta ristampando. Noi anarchici lo conosciamo da sempre perché le sue parole risuonano vivide nella coscienza di tutte le persone, di tutte le epoche.
Non ci dilunghiamo nella biografia, diciamo solo che è stato un diplomatico francese, laureato in Giurisprudenza, consigliere al parlamento di Bordeaux dove rimane per soli quattro anni perché non sopportava la politica di quei despoti corrotti e corruttori e dalla violenza delle leggi fratricide: segno di un'evidente sua coscienza libertaria. Muore giovanissimo per malattia. Il testo di cui ci apprestiamo a parlare fu fonte di ispirazione anche per i propositori della Rivoluzione Francese.
Ma cosa dice di tanto importante Etienne de la Boétie? Egli prende in analisi l'autorità dei governi (si noti il plurale) e anche il rapporto che si viene a creare tra lo Stato e i cittadini, un rapporto in cui il popolo è sempre posto in condizione di schiavitù e tale schiavitù è per giunta volontaria. Il cittadino, per vari motivi che vedremo, non si accorge neppure di essere egli stesso il fautore della propria servile condizione. Boétie ribalta la concezione stessa della politica comunemente accettata secondo cui è il tiranno che impone dapprima il suo bastone. Non è così. E' il popolo che accetta di essere sfruttato. Ma vediamo perché e come.
«è davvero sorprendente, e tuttavia così comune che c’è più da dispiacersi che da stupirsi nel vedere milioni e milioni di uomini servire miserevolmente, col collo sotto il giogo, non costretti da una forza più grande, ma perché sembra siano ammaliati e affascinati dal nome solo di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, visto che è solo, né amare le qualità, visto che nei loro confronti è inumano e selvaggio. […] Quale vizio, o piuttosto, quale disgraziato vizio? Vedere un numero infinito di persone non obbedire, ma servire?»
In buona sostanza, Boétie ci vuole dire che è sufficiente desiderare di essere liberi per liberarsi veramente dal giogo dei governi. Ma questo desiderio non c'è perchè i popoli vengono ingannati, ammansiti, imboniti, illusi, divisi in fazioni, gerarchizzati. Lo Stato con i suoi governi viene fatto percepire come una sorta di religione a cui si deve credere a priori e ciecamente. E questo credo, costruito attraverso una propaganda autoreferenziale fin dalla tenerissima età, deve essere l'unico, nonché la sola entità veramente autorevole-autoritaria per il popolo, come un dio michelangiolesco, vigoroso, potente. In questo clima di propaganda costante, ogni idea di libertà viene fatta letteralmente dimenticare, il popolo non sa più cosa sia la libertà.