Scrittore
francese di sangue e spirito russo, romanziere, poeta, storico, giornalista e
traduttore, Victor-Napoleon Lvovich Kibalchich – alias Victor Serge, Le Rétif,
Le Masque, Ralph, R. Albert, Victor Stern, Victor Klein, Alexis Berlowsky,
Sergo, Siegfried, Gottlieb, V. Poderewski e qualche altro pseudonimo – nacque
in esilio a Bruxelles, il 31 dicembre 1890, e morì, sempre in esilio, a Città
del Messico, il 17 novembre 1947. Visse il mondo ipocrita della Belle Époque,
l’esaltazione comunista degli anni Venti e l’incubo totalitario della
mezzanotte del secolo. Passò per le correnti più importanti del movimento
operaio: il socialismo riformista, il comunismo anarchico, l’individualismo,
l’anarcosindacalismo, il bolscevismo e il trotzkismo, senza mai abbandonare una
spiccata sensibilità libertaria. Trascorse una decina d’anni di prigionia in
diversi Paesi, partecipò a tre rivoluzioni – la spagnola (1917), la russa
(1919-20) e la tedesca (1923) – e fu attivo anche in Belgio, Francia, Austria e
Messico. Sopravvisse al Gulag e alla barbarie nazista, e fu tra i primi a
qualificare l’URSS come un regime totalitario.
Autore di culto,
sebbene quasi sconosciuto al grande pubblico, non sviluppò un sistema
dottrinale né lasciò una scuola di pensiero. Non fu neppure un intellettuale
nel senso tradizionale; in ogni tappa critica, cercò di dare alle esigenze
dello spirito uno sbocco nell’azione. La sua attualità risiede nella
riflessione traboccante, letteraria e poetica ancor più che teorica, sulla
tragedia di una rivoluzione che divora se stessa. Nelle centinaia di pagine che
dedicò a questo tema, mantenne la freddezza dell’analista distaccato
conservando, allo stesso tempo, la passione militante e la certezza di un
avvenire migliore. È impossibile avvicinarsi all’opera di Victor Serge senza
evocare le sue vicende umane. Nato nel seno di una famiglia poverissima,
cominciò a guadagnarsi la vita a quindici anni. Fu, in ordine successivo,
apprendista fotografo, fattorino, gasista, disegnatore tecnico, tipografo,
traduttore, giornalista e correttore di bozze. Un lontano parente, il chimico
Nicolai Kibalchich, era stato l’esperto in esplosivi della Narodnaia Volia
(Volontà del Popolo), la famosa organizzazione rivoluzionaria erede del populismo,
che vedeva nella comune rurale russa (il mir) la possibilità di costruire un
socialismo contadino. In casa Kibalchich, la poesia sostituiva la preghiera e
si narravano storie di attentati, processi e fughe dalla Siberia, in
un’atmosfera analoga ai romanzi di Dostoevskij, Chernichevsky e Turgenev. Nei
tanti alloggi di fortuna dove visse la famiglia, poteva mancare il pane, ma vi
era sempre un samovar fumante, libri in varie lingue e foto di vittime della
repressione. La famiglia sopravviveva a stento: Raoul-Albert, il fratellino
minore, morì di fame e, anni dopo, la madre Vera finì stroncata dalla
tubercolosi, la malattia dei poveri.
Da quei genitori
atipici che lo colmarono d’affetto, senza mandarlo a scuola, Victor ereditò il
raro dono della coscienza sociale, un’insaziabile curiosità intellettuale e una
grande indipendenza di spirito. Il padre Leonid, che si rifaceva
all’evoluzionismo di Herbert Spencer, trasmise al figlio la cultura scientifica
e materialista del suo tempo, mentre Vera, donna di grande sensibilità e
raffinatezza, lo iniziò alla poesia e alla letteratura universale. A ciò
bisogna aggiungere un sapere fatto di biblioteche popolari, circoli di studio,
pubblicazioni sindacali, feuilleton, opere di divulgazione scientifica e tutto
l’arsenale della cultura popolare dell’epoca.