..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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giovedì 30 maggio 2013

Grazie Franca

Grazie. Per quella forza. Per quella dignità e per quel coraggio nel denunciare, raccontare, urlare e vomitare il dolore e l’affronto dello stupro subito. Grazie. Anche a nome di tutte quelle donne che non ce la fanno, sconfitte doppiamente da una violenza fisica e da una società che raramente le sostiene al cento per cento, come andrebbe fatto.
In un periodo atroce per il paese, in cui la miseria umana cresce anche a causa di quella economica, e un numero impressionante di omicidi ha come vittime donne colpevoli solo di essere donne, la voce di Franca ci mancherà.
Franca Rame ha sempre dato voce alle donne. Qui, il giorno dopo la sua morte, vogliamo ricordarla per Lo Stupro, il monologo che scrisse nel 1975 e poi portò coraggiosamente in teatro (e negli anni ’80 anche in Rai di fronte a milioni di persone). All’epoca di violenza sessuale si parlava molto poco: Processo per stupro, il documentario che aprì il dibattito sulla criminalizzazione delle vittime nei tribunali, è del 1979.
Franca Rame disse di aver preso il racconto da una testimonianza che aveva letto su Quotidiano Donna. In realtà aveva subito uno stupro in prima persona: la sera del sera del 9 marzo del 1973, a Milano, fu caricata su un furgone, torturata e violentata a turno da cinque uomini di estrema destra. Proprio come racconta il monologo. Solo due anni prima, l'attrice si era pubblicamente esposta sottoscrivendo una lettera aperta, pubblicata dal settimanale L'Espresso, sulla morte del ferroviere anarchico Pinelli, in cui numerosi esponenti della cultura e della politica chiedevano la destituzione di alcuni funzionari.
Fu uno stupro punitivo: i violentatori erano neofascisti, volevano farla pagare per le sue idee politiche, ma scelsero di punirla in quanto donna.
Non furono mai arrestati, nonostante molti anni dopo un pentito abbia fatto i loro nomi, perché il reato era ormai prescritto. Ma Franca Rame ha sconfitto la loro violenza con la parola. Invece di accettare l’obbligo al silenzio esistenziale e politico, ha dimostrato con la sua arte che era più forte dei suoi violentatori.
Di seguito il video e successivamente la trascrizione del monologo:


Lo stupro
Il brano che ora reciterò è stato ricavato da una testimonianza apparsa sul “Quotidiano Donna”, testimonianza che vi riporto testualmente.
C’è una radio che suona… ma solo dopo un po’ la sento. Solo dopo un po’ mi rendo conto che c’è qualcuno che canta. Sì, è una radio. Musica leggera: cielo stelle cuore amore… amore…
Ho un ginocchio, uno solo, piantato nella schiena… come se chi mi sta dietro tenesse l’altro appoggiato per terra… con le mani tiene le mie, forte, girandomele all’incontrario. La sinistra in particolare.
Non so perché, mi ritrovo a pensare che forse è mancino. Non sto capendo niente di quello che mi sta capitando.
Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce… la parola. Prendo coscienza delle cose, con incredibile lentezza… Dio che confusione! Come sono salita su questo camioncino? Ho alzato le gambe io, una dopo l’altra dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso?
Non lo so.
È il cuore, che mi sbatte così forte contro le costole, ad impedirmi di ragionare… è il male alla mano sinistra, che sta diventando davvero insopportabile. Perché me la storcono tanto? Io non tento nessun movimento. Sono come congelata.
Ora, quello che mi sta dietro non tiene più il suo ginocchio contro la mia schiena… s’è seduto comodo… e mi tiene tra le sue gambe… fortemente… dal di dietro… come si faceva anni fa, quando si toglievano le tonsille ai bambini.

L’immagine che mi viene in mente è quella. Perché mi stringono tanto? Io non mi muovo, non urlo, sono senza voce. Non capisco cosa mi stia capitando. La radio canta, neanche tanto forte. Perché la musica? Perché l’abbassano? Forse è perché non grido.
Oltre a quello che mi tiene, ce ne sono altri tre. Li guardo: non c’è molta luce… né gran spazio… forse è per questo che mi tengono semidistesa. Li sento calmi. Sicurissimi. Che fanno? Si stanno accendendo una sigaretta.
Fumano? Adesso? Perché mi tengono così e fumano?
Sta per succedere qualche cosa, lo sento… Respiro a fondo… due, tre volte. Non, non mi snebbio… Ho solo paura…
Ora uno mi si avvicina, un altro si accuccia alla mia destra, l’altro a sinistra. Vedo il rosso delle sigarette. Stanno aspirando profondamente.
Sono vicinissimi.
Sì, sta per succedere qualche cosa… lo sento.
Quello che mi tiene da dietro, tende tutti i muscoli… li sento intorno al mio corpo. Non ha aumentato la stretta, ha solo teso i muscoli, come ad essere pronto a tenermi più ferma. Il primo che si era mosso, mi si mette tra le gambe… in ginocchio… divaricandomele. È un movimento preciso, che pare concordato con quello che mi tiene da dietro, perché subito i suoi piedi si mettono sopra ai miei a bloccarmi.
Io ho su i pantaloni. Perché mi aprono le gambe con su i pantaloni? Mi sento peggio che se fossi nuda!
Da questa sensazione mi distrae un qualche cosa che subito non individuo… un calore, prima tenue e poi più forte, fino a diventare insopportabile, sul seno sinistro.

Una punta di bruciore. Le sigarette… sopra al golf fino ad arrivare alla pelle.
Mi scopro a pensare cosa dovrebbe fare una persona in queste condizioni. Io non riesco a fare niente, né a parlare né a piangere… Mi sento come proiettata fuori, affacciata a una finestra, costretta a guardare qualche cosa di orribile.
Quello accucciato alla mia destra accende le sigarette, fa due tiri e poi le passa a quello che mi sta tra le gambe. Si consumano presto.
Il puzzo della lana bruciata deve disturbare i quattro: con una lametta mi tagliano il golf, davanti, per il lungo… mi tagliano anche il reggiseno… mi tagliano anche la pelle in superficie. Nella perizia medica misureranno ventun centimetri. Quello che mi sta tra le gambe, in ginocchio, mi prende i seni a piene mani, le sento gelide sopra le bruciature…
Ora… mi aprono la cerniera dei pantaloni e tutti si dànno da fare per spogliarmi: una scarpa sola, una gamba sola.
Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena.
Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare.
Devo stare calma, calma.
“Muoviti, puttana. Fammi godere”. Io mi concentro sulle parole delle canzoni; il cuore mi si sta spaccando, non voglio uscire dalla confusione che ho. Non voglio capire. Non capisco nessuna parola… non conosco nessuna lingua. Altra sigaretta.
“Muoviti puttana fammi godere”.
Sono di pietra.
Ora è il turno del secondo… i suoi colpi sono ancora più decisi. Sento un gran male.
“Muoviti puttana fammi godere”.
La lametta che è servita per tagliarmi il golf mi passa più volte sulla faccia. Non sento se mi taglia o no.
“Muoviti, puttana. Fammi godere”.
Il sangue mi cola dalle guance alle orecchie.
È il turno del terzo. È orribile sentirti godere dentro, delle bestie schifose.
“Sto morendo, – riesco a dire, – sono ammalata di cuore”.
Ci credono, non ci credono, si litigano.
“Facciamola scendere. No… sì…” Vola un ceffone tra di loro. Mi schiacciano una sigaretta sul collo, qui, tanto da spegnerla. Ecco, lì, credo di essere finalmente svenuta.
Poi sento che mi muovono. Quello che mi teneva da dietro mi riveste con movimenti precisi. Mi riveste lui, io servo a poco. Si lamenta come un bambino perché è l’unico che non abbia fatto l’amore… pardon… l’unico, che non si sia aperto i pantaloni, ma sento la sua fretta, la sua paura. Non sa come metterla col golf tagliato, mi infila i due lembi nei pantaloni. Il camioncino si ferma per il tempo di farmi scendere… e se ne va.
Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti. È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male… nel senso che mi sento svenire… non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo… per l’umiliazione… per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello… per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero… mi fanno male anche i capelli… me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia… è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca.
Cammino… cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura.
Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora… Sento le loro domande. Vedo le loro facce… i loro mezzi sorrisi… Penso e ci ripenso… Poi mi decido…
Torno a casa… torno a casa… Li denuncerò domani.


Ciao Franca!

giovedì 23 maggio 2013

Torino. Tre giorni contro i CIE

Il 23, 24, 25 maggio si faranno a Torino tre giorni di lotta contro i CIE.
Di seguito il testo di presentazione dell’iniziativa promossa da “Ti ricordi di Fatih? Antirazzisti contro la repressione”:

“Il 23 maggio è il quinto anniversario della morte di Fatih. Fatih era un immigrato tunisino senza documenti rinchiuso nel CIE. Nella notte del 23 maggio 2008 stava male. I suoi compagni chiesero inutilmente aiuto.
La mattina dopo Fatih era morto.
Il caso venne subito chiuso.
I testimoni furono deportati.
Non sappiamo di cosa sia morto Fatih. Sappiamo però che in una struttura detentiva gestita dalla Croce Rossa nessuno lo ha assistito.
Due giorni dopo il gestore del CIE, il colonnello e medico Baldacci dichiarerà “gli immigrati mentono sempre, mentono su ogni cosa”.
Parole che ricordano quelle degli aguzzini di ogni dove.
Il 2 giugno 2008 un gruppo di antirazzisti si recò a casa di Antonio Baldacci.
Si batterono le pentole, si distribuirono volantini, si appesero striscioni.
La protesta di persone indignate per una morte senza senso.
Oggi quella protesta è entrata nel processo contro 67 antirazzisti, che lottarono e lottano contro le deportazioni, la schiavitù del lavoro migrante, la militarizzazione delle strade.
Nei CIE le lotte, le fughe sono pane quotidiano, come quotidiana è la resistenza di chi crede che, nell’Italia dei CIE, delle deportazioni, dei morti in mare, ribellarsi sia un’urgenza che riguarda tutti.
Per questa ragione non accettiamo che le lotte vengano rinchiuse in un aula di tribunale: portiamo le nostre ragioni nelle strade di questa città, portiamo il CIE per le vie di Torino.”

Stay Zam: I sogni non si sgomberano

2 palestre, 3 palcoscenici, 2 sale concerto, 2 bar, 2 uffici, 1 redazione, decine di attività sportive per centinaia di persone, 160 m2 di pareti da arrampicata, oltre 200 concerti, oltre 100 appuntamenti culturali, 1 festival di cinema e documentari, 1 laboratorio teatrale, 1 laboratorio hip hop, migliaia di persone dentro e attraverso, oltre 2 anni di occupazione e autogestione.
Questo è stato Zam dal 29 Gennaio 2011, la minaccia di sgombero è diventata realtà: la proprietà si avvia alle solite bieche operazioni di speculazione immobiliare, la Questura esegue gli ordini, il Comune tace, altrimenti dovrebbe parlare della propria incapacità di mettere in piedi una politica sugli spazi e sulle autogestioni tanto sbandierata in campagna elettorale quanto disattesa nei fatti.
Il colpevole silenzio di Sindaco e consiglio comunale è costato alla città nei primi due anni di mandato più sgomberi di quelli fatti dalla giunta Moratti: sono già 6.
Le forze dell’ordine sono arrivate e hanno dovuto portare via di peso le persone che si erano messe in mezzo alla strada per impedire l’accesso allo spazio, hanno dovuto abbattere le barricate che erano state costruite dai ragazzi dello spazio e che rappresentavano quello che in questi due anni è stato lo Zam, quindi palestre e auditorium ricostruiti”.
Mentre era in corso lo sgombero, due compagni sono saliti sul tetto, srotolando uno striscione, con scritto: “Stay Zam i sogni non si sgomberano”. I due giovani hanno poi urlato che l’intenzione è che la mobilitazione continui.
Nessuno sgombero fa paura, Zam e gli altri centri sociali , sono un sogno tatuato sulla pelle viva delle città: potete provare a nasconderlo sotto il maquillage della città vetrina della mafia e dello scempio, ma la traccia è indelebile e non si cancella.


Storie nostre

Beh state facendo la cosa giusta, o la più rapida per lenire il malessere.
La fine nell’isolamento
Fuggire o resistere? Quando l'alternativa si presenta davanti ai nostri occhi nella totale indifferenza dei molti, vuol dire che la misura è smisurata, che il vaso ha tracimato, che la paura abita le nostre contrade è visibile persino dalla cima della torre d'avorio.
I migranti muoiono senza un rantolo per mano delle armi Made in USA, in Russia, in Italy o in Svizzera o … ma anche negli aranceti.
Sparate vigliacchi!
Goccia a goccia la Vostra “libera” economia di mercato spreme la nostra essenza. Dal valore di scambio, allo sfruttamento del tieni la testa bassa o ti butto fuori non c’è alternativa. Noi non abbiamo l'exit strategy come i vostri rampolli della Bocconi che emigrano sulle ali della ricchezza di una poderosa rete di relazioni intessute tra i corridoi del palazzo. È  il vicolo cieco invece davanti alle migliaia di lavoratori precari, trentenni e quarantenni, che hanno iniziato a costruire il proprio progetto di vita in questa Italia decadente, priva di qualsiasi strategia di sviluppo o idea di futuro.
Caccia al sovversivo
Noi siamo quelli che si sono alzati sempre presto la mattina per fare i coglioni nei vostri centri produzione, per comprarci le stesse merci che per voi produciamo. Il capitalismo ci ha reso merce comprando il nostro lavoro, facendo delle nostre esistenze una vita che ha valore solo se si ha reddito, solo se per voi si lavora. Così quando il nostro lavoro non vi serve più perché i profitti si fanno altrove o in un altro modo, ce lo togliete e con questo sapete di levare valore alla nostra vita. Perché se non siamo più merce umana non valiamo più niente. Noi siamo quelli della fabbrica deserta, del 270bis, abbiamo annaspato nella melma e alcune volte, ci siamo ripresi la merce che ci negate. Noi siamo quelli che si riappropriamo degli spazi negati che poi voi chiudete per trasformarli in lande psicotiche del capitalismo.

Il senso di una presenza
Le coalizioni proletarie per la difesa e l'offesa contro i poteri mutano, si trasformano o soccombono, ma saranno sempre li ad aspettarvi al varco quando meno ve lo aspettate. Non conta quanti siamo ma quanti saremo, quanto la rivolta individuale è apprezzabile perché scaturisce dal convincimento che questo mondo non ci appartiene ed solo un ostacolo al nostro futuro.
Baldi e Coatti.
Canteremo l’insurrezione dell'anima consumata. La notte, il sogno e la visione. Tutto ciò che sublima le nostre anime ad un altro non ordine superiore di conoscenza. Noi siamo quelli che camminano da soli per strada, quelli sospesi tra l'illusione del mondo e l'inganno del mondo reale. Scorriamo i sentieri e navighiamo nell'oceano della disinformazione. Siamo quelli che sostano all'ombra degli alberi, in ascolto del loro respiro avvolgente. E quando dormiamo, esploriamo le Terre del Sogno. …

In ricordo di Evardo M. militante del movimento trovato esanime nei pressi del casolare in cui viveva da diverse generazioni depredato dalle banche.  Era un tempo in cui la speculazione aveva già deciso  che la terra non era più redditizia coltivarla e il tessile era andato a produrre altrove … ciao Evardo

sabato 18 maggio 2013

Autogestione: istruzioni per l’uso

Autogestione è un composto antico, frutto di centenaria ricerca e di sapiente sperimentazione tramandata da generazioni, che manifesta ancora inalterata la sua carica rivoluzionaria.
Il principio attivo di autogestione è l’azione diretta, una molecola in grado di aggredire i noduli autoritari del corpo sociale, garantendo altresì una fluida circolazione del pensiero e delle esperienze.
Autogestione è disponibile in tre diverse preparazioni: gel, liquida, aeriforme.
Autogestione preparazione gel si somministra nelle fasi acute di occupazioni (oggi meglio note come “riappropriazioni”) di luoghi pubblici o privati: fabbriche, terre, teatri, case, edifici interi. Ha effetto immediato e riesce a contrastare prontamente i fenomeni da sfruttamento di cui quei luoghi sono modello e simbolo.
A più lento rilascio è invece autogestione liquida che trova impiego nel consolidare legami covalenti di affinità: gruppi sociali e di lavoro, in cui la forza del pensiero precede la forza dell’azione.
Autogestione aeriforme è disponibile in flaconcini spray: si consiglia di portarli sempre con sé ed inalare alla bisogna, ogni qualvolta si venga attraversati da impulsi statalisti, capitalisti o semplicemente autoritari; una sola inalazione ripristina l’equilibrio libertario.
Autogestione è un prodotto naturale, estratto da una pianta paritaria che si sviluppa in senso orizzontale (mai in direzione verticale) in terreni ricchi di libertà. Al contrario di altri composti artificiali e di sintesi (democrazia delegata, parlamentarismo, sistemi maggioritari, leaderismo). Autogestione non dà assuefazione passiva. Autogestione, dunque, deve essere assunta in dosi massicce e per periodi prolungati (si consiglia di non privarsene per la vita intera).
Evitare pubblicità ingannevoli: non esiste una ricetta unica per autogestione: ciascuno può preparare, sperimentare, affinare, ricercare la propria autogestione e confrontarla con quella di altri, in un sistema di mutuo soccorso e di libero scambio.
Sino ad oggi non sono stati descritti effetti collaterali di autogestione. L’esposizione prolungata può causare: euforia, senso di liberazione dai vincoli, solidarietà, partecipazione, autodeterminazione, indipendenza, autonomia prolungata, godimento per la propria unicità.
Autogestione manifesta effetti sinergici con ribellione, rivolta, lotta: si raccomanda di associare tutte le componenti per moltiplicare l’efficacia del composto.
Tenere autogestione fuori dalla portata di: soggetti autoritari quali fascisti e stalinisti; riformisti e riformatori; socialdemocratici e liberali; mestatori; politici di professione; preti e bigotti; sbirri e giudici; mafiosi e intrallazzasti; conduttori televisivi. Somministrare autogestione ai bambini sin dalla tenera età.
Autogestione è ricca di componenti sociali e politiche; maneggiare con cura e con affetto.
Nessuno può sottoporre autogestione a controllo: autogestione è esente da ticket.
Autogestione è un prodotto del pensiero e della sperimentazione anarchica. autogestione non ha copyright: sta a chi la usa saper distinguere l’originale dalle imitazioni.



lunedì 13 maggio 2013

Senza servi niente padroni

Considerato indispensabile all’essere umano, il Lavoro è in realtà ciò che più lo mortifica.
Quali lavoratori oserebbero, in tutta sincerità, proclamare la propria gioia, la propria intima soddisfazione per il lavoro che compiono? Il lavoro è comunque schiavitù, non tanto e non solo quello più servile e avvilente, l’atto quotidiano di prostituirsi al fine di assicurarsi una magra pietanza, nel suo affliggente avvicendamento di alienazione, fatica e noia. Sia chiaro che il problema non sta nella qualità tanto meno nella quantità del lavoro svolto. Anche quei pochi fortunati pronti a dichiararsi soddisfatti del mestiere che fanno magari prestandosi utili e virtuosi come volontari, pagano il proprio privilegio con l’addomesticamento.
Allo stesso modo, le chiacchiere sulla riduzione dell’orario lavorativo servono a far dimenticare che il lavoro non conosce orario. Tutta la nostra esistenza è scandita dal lavoro, dai suoi ritmi e dalle sue necessità. Anche il nostro riposo , anche il nostro piacere, anche il cosiddetto tempo libero. Il nostro futuro è progettato sul lavoro. La nostra mente è programmata sul lavoro. Volenti e dolenti, siamo dipendenti dalla tossicità del lavoro 24 ore al giorno. Proprio grazie al suo carattere totalitario il lavoro ci viene presentato come la sola possibilità che abbiamo di realizzarci, di socializzare con gli altri, ci viene imposto come unica condizione di vita.
Il lavoro serve da ossatura e da armatura all’organizzazione sociale, la consolida, contribuisce al mantenimento e alla riproduzione di questa società basata sulla gerarchia e sullo sfruttamento. Lavorare significa produrre merci (non solo materiali tangibili) necessarie alla sopravvivenza e alla conservazione della società. Accettare l’ineluttabilità del lavoro è il modo migliore per perpetuare lo stato di sopravvivenza e la società. Ecco perché sul lavoro non si può neanche pensare di costruire un qualche progetto di rinnovamento sociale.. non esiste lavoro liberato, lavoro alternativo, lavoro ridotto, nemmeno quando ci si illude di compierlo in uno spazio che ci siamo conquistato. Le catene che ci imprigionano devono essere spezzate, anche quando vengono allungate, anche quando vengono alleggerite. La libertà ha niente a che fare con la politica del male minore.
Fra tanti idoli che stanno cadendo miseramente nella polvere, ce n’è dunque uno che sembra rimanere inattaccabile e in attaccato: il LAVORO. Certo, si può provare ad ignorarlo, a subirlo passivamente pur considerandolo estraneo alla nostra vita, ma questo non ci potrà mai soddisfare, né ci potrà restituire le nostre facoltà le uniche che possano consentirci di progettare da soli la nostra esistenza. Perché l’indifferenza non ci basta più. Perché il distacco non modifica le condizioni. Per sentirci paghi vogliamo intervenire direttamente così da far cessare questa inesorabile tirannia. Attraverso il sabotaggio, attraverso la distruzione del lavoro, attraverso tutti i piaceri che decideremo di prenderci fissando da noi le regole del gioco.

(Archivio storico: Volantino per una tre giorni contro il lavoro a EL PASO occupato, Torino 01/04/1994)

domenica 12 maggio 2013

Una nuova occupazione

Dopo gli sgomberi di martedì, da questa mattina all’alba c’è una nuova occupazione abitativa in città. In corso Principe Oddone 94/bis, in una zona in piena riqualificazione forzata, a pochi metri dal fantasma della vecchia Stazione Dora. Gli occupanti invitano tutti i solidali ad andare a trovarli. E mentre il leghista Ricca invoca, a tempi di record, lo sgombero immediato voi leggetevi invece il volantino con il quale gli occupanti si sono presentati al quartiere.

«Buongiorno,
siamo un gruppo di persone che ha deciso di occupare una nuova casa nel quartiere e perciò da ora in poi saremo i vostri nuovi vicini.
Siamo persone stanche di dover fare i soliti salti mortali per pagare un affitto ad un ricco proprietario, siamo stufi di veder ingrassare pochi individui alle spalle di molti.
Già da tempo in molti ci opponiamo agli sfratti delle case in questi quartieri dove abbiamo sempre vissuto e condiviso la nostra vita. Lottiamo perché non possiamo permettere ai padroni e alla polizia di sbatterci per strada a loro piacimento.
Perciò resistiamo agli sfratti e occupiamo posti vuoti lasciati all’abbandono. È inaccettabile rendersi conto di come questo quartiere così come l’intera città di Torino siano pieni di edifici lasciati deliberatamente vuoti dal Comune e dai proprietari e nello stesso momento la gente venga buttata in strada o obbligata a pagare affitti insostenibili.
In tali condizioni non pensiamo che sia dignitoso chiedere al Comune una casa o fare l’elemosina davanti alle istituzioni perché se ci sono delle case vuote bisogna semplicemente prenderle ed abitarle.
Nei giorni scorsi allo scopo di indebolire la lotta in atto nei quartieri, alcune case occupate abitate da sfrattati e da persone attive e solidali con chi resiste sono state sgomberate e poste sotto sequestro. Questo chiaramente non ci affligge; infatti di case ne occuperemo tante altre e continueremo a resistere nei luoghi dove viviamo come sempre.
Vorremmo farlo insieme a chi nel quartiere trascorre la propria quotidianità.
Chiunque fosse interessato a parlare, discutere o anche dare una mano è sinceramente e felicemente benvenuto.
Vi aspettiamo in Corso Principe Oddone 94-bis.»

macerie @ Maggio 10, 2013

sabato 11 maggio 2013

Incazzati a tempo indeterminato

Siamo stati posteggiati perennemente davanti alla televisione da genitori che seguivano i dettami del consuma, produci e crepa. Siamo stati severamente addestrati nelle nostre “case del mulino bianco” a carpire i segreti della vita trasmessici con regolare amore dai telefilm. Nelle galere scolastiche ci hanno forgiato alla patriottica ubbidienza, infondendoci la capacità di cavarcela da soli nel diventare abili incapaci, con un pesante bagaglio di esperienze e nozioni inutili. Oggi abbiamo circa trent’anni e dopo il periodo dei grandi inganni ci ritroviamo bruscamente a cercare una collocazione in questa insulsa catena di montaggio. È un lontano ricordo il tempo dei concorsi e degli affollati carrozzoni che davano magicamente un posto senz’altra contropartita che rinunciare alla propria emancipazione. Essere oggi nel pieno delle facoltà ed accorgersi amaramente che si è troppo cresciuti ed ancora troppo giovani e poco qualificati o forse, semplicemente, troppo umani per trovare uno straccio di “lavoro”. Venire castrati senza accorgersene anche della prospettiva di potere, un giorno o l’altro, mandare avanti una qualche specie di famiglia. Scoprirsi incapaci di conquistare quel minimo di dignitosa autonomia da quel nucleo famigliare che attende da noi con tanta altruistica apprensione. Che commozione sarebbe per loro vedere il caro “bamboccione” aprire le ali della rassegnazione e spiccare il volo, per finire dritto nelle fauci di qualche mostruosa azienda, e lasciarsi masticare dalle tasse, dagli affitti e dalle rate di un bel mutuo. Se vogliamo cercarlo bene alla fin fine, qual­che lavoro lo si trova, se saremo disposti a fare da badanti agli anziani. Nell’Italia di oggi questa è diventata la vera ricchezza da cui poter derivare un “reddito di sudditanza”, da spremere direttamente dai cateteri della terza età, per battezzare col piscio il nostra imminente ritorno a una condizione di terzo stato. Specie in Sicilia vorrebbero costringerci a farci ambire al massimo di impiegare l’importante potenziale creativo dei nostri talenti solo per pulire il culo di “anziani telespettatori”. Ovvero quella intera generazione che si è lasciata rincoglionire dalla televisione, mandando pure alla malora tutte le conquiste sociali del passato. Avrebbero potuto leggere qualche libro in più oppure avrebbero potuto battersi da partigiani con le armi alla mano contro la prima, la seconda o la terza repubblica, ed arricchire veramente così il loro prestigioso curriculum carcerario. Forse, se avessero fatto questo magari, quando ci si riuniva a tavola, qualche racconto in più, di vita vera e interessante, l’avremmo potuto sentire e ci ritroveremmo in un paese migliore. Se non si fossero risparmiati così tanto politicamente e annullati umanamente, sicuramente potremmo essere in grado di fare qualcosa di meglio e di più utile che pulire il culo a chi ci ha garantito questo ragguardevole futuro di merda. Di certo non possiamo permetterci il loro stesso errore perché per noi sarà molto meglio rischiare seriamente di morire su una barricata, piuttosto che andare a testa bassa incontro ad una vecchiaia che non è ormai assolutamente più garantita da alcun provvidenziale sistema previdenziale, in cui il culo saremmo costretti a salvarcelo e a pulircelo da soli.

Alessio Giannetto

giovedì 9 maggio 2013

Contro la mafia, lo stato, il capitale: azione diretta!

La mattina del 9 maggio 1978 l’Italia si sveglia con il ritrovamento a Roma del cadavere di Aldo Moro e con quello che i giornali descrissero subito come il “suicidio terroristico” di Peppino Impastato a Cinisi sui binari della ferrovia Palermo-Trapani.
Con una strana coincidenza, si volle subito criminalizzare la morte di Impastato descrivendola come l’involontario suicidio di un “terrorista rosso” che fatalmente – proprio quel giorno – decideva di abbandonare la sua prassi di lotta al sistema per commettere un attentato dinamitardo.
L’evoluzione delle indagini e la successiva sentenza finale, emessa significativamente dopo 20 anni, hanno poi confermato quello che è stato sempre sostenuto da chi lo conosceva e dai suoi compagni di lotta: Impastato è stato ucciso dalla mafia.
Le modalità con cui l’assassinio di Impastato venne abilmente camuffato, la coincidenza temporale con il ritrovamento del corpo di Moro e le coperture istituzionali che a tutti i livelli hanno ostacolato la ricerca della verità su entrambi gli episodi, sono tutti attrezzi del mestiere che lo stato ha sempre utilizzato per portare a compimento le sue strategie di dominio. Nella prassi del potere politico, la mafia ha sempre avuto un ruolo assolutamente organico alle istituzioni: una compenetrazione grazie alla quale la Sicilia è ancora oggi terra di conquista del potere, ostaggio del ricatto capitalista e del terrorismo mafioso.
La lotta alla mafia espressa da Impastato era la lotta di un militante comunista ed era concretamente proiettata al cambiamento sociale. Niente a che vedere con il ritualismo legalitario con cui oggi si tende a riscrivere la storia della Sicilia e di chi ha lottato contro la mafia autonomamente. La legalità in quanto tale è un simulacro vuoto su cui non si può e non si deve appiattire l’azione antimafia perché la legge dello stato è sempre frutto dei rapporti di forza tra le classi e, dunque, esprime gli interessi di chi detiene il potere politico ed economico. Ecco perché mafia e stato sono facce di una stessa medaglia, e tutti quelli che sono stati ammazzati dalla mafia sono sempre stati ammazzati prima dalla politica e dall’isolamento in cui le istituzioni li hanno strumentalmente lasciati.
Oggi siamo qui non solo per rinnovare il nostro omaggio a Peppino Impastato, ma per rilanciare la mobilitazione contro l’assedio della mafia e dello stato; contro la deriva autoritaria e fascista del paese che, in nome della legalità, partorisce provvedimenti repressivi e liberticidi come il pacchetto-sicurezza; per riaffermare che solo attraverso l’azione diretta e la lotta di classe libertaria sarà possibile respingere l’offensiva di tutti i poteri e far rinascere quella coscienza collettiva ispirata alla solidarietà, alla libertà, all’uguaglianza.

Coordinamento Anarchico Palermitano

martedì 7 maggio 2013

“La mafia uccide, il silenzio pure …”

9 maggio 1978. Evocando questa data, a molti, forse a tutti, verrà in mente la tragica immagine del corpo del presidente della DC, Aldo Moro, ripiegato su se stesso nel cofano di una Renault parcheggiata lungo via Caetani. A pochi, forse nessuno, verrà in mente un’altra immagine: il corpo di un uomo, un militante di quelle piccole formazioni nate alla sinistra del PC, un siciliano che ha dedicato la sua “breve” vita alla lotta contro la mafia. Pochi avranno in mente l’immagine di quel corpo lungo la ferrovia di Cinisi, fatto a pezzi da una carica di tritolo. A pochi verrà in mente il nome di Giuseppe Impastato.
Peppino era di famiglia mafiosa. Mafioso era il padre, Luigi Impastato, costretto al confino durante la dittatura fascista. Addirittura capo-mafia di Cinisi era il cognato di Luigi, Cesare Manzella. Peppino scopre fin da ragazzo l’aria che si respira in famiglia. E non ci sta. Nel 1965, ad appena 17 anni, rompe con il padre e aderisce al PSIUP. Nello stesso anno fonda l’”Idea socialista”, foglio ciclostilato dal quale Peppino comincia a denunciare l’epidemia mafiosa che soffoca il suo paese. Negli anni successivi, percorre tutta la trafila dei gruppi extraparlamentari e dell’associazionismo di base: la Lega dei comunisti, il Pcd’I Linea Rossa, il Manifesto, Lotta Continua. Sono anni di grande fermento politico: le occupazioni delle università nel ’68, le manifestazioni contro l’esproprio delle terre ai contadini, la lotta affianco degli edili per il diritto al lavoro. Nel 1975 costituisce il circolo culturale “Musica e Cultura”, l’anno dopo fonda Radio Aut, radio indipendente autofinanziata, da cui denuncia i crimini di mafia. Particolare attenzione dedica a Gaetano Badalamenti, capo-mafia di Cinisi e vecchio “amico” di famiglia.
Nel 1978, decide di candidarsi con Democrazia Proletaria alle elezioni comunali. La campagna elettorale è dura e faticosa, soprattutto per qualcuno che mette il “problema Mafia” al centro del dibattito. Nella notte tra l’8 e il 9 maggio, a pochi giorni dalle elezioni, Peppino viene ucciso, fatto saltare in aria da una carica di tritolo lungo la ferrovia. Sarà comunque eletto al Consiglio comunale. Stampa, forze dell’ordine e magistratura, sosterranno per anni la tesi dell’atto terroristico, in cui l’attentatore (Peppino) sarebbe rimasto vittima. Solamente l’attività del Centro siciliano di documentazione di Palermo, nato nel 1977 e intitolato a Peppino 3 anni dopo, riuscirà a denunciare il depistaggio delle indagini, costringendo la magistratura a riaprire l’inchiesta. Il 5 maggio del 2001, Vito Palazzolo sarà condannato a 30 anni per omicidio. L’11 aprile del 2002, Gaetano Badalamenti riceverà una condanna all’ergastolo come mandante dell’esecuzione.
Venti anni di silenzio hanno avvolto la storia e la memoria di Peppino. Nel 2000, grazie all’uscita de “I cento passi” di Marco Tullio Giordana, la storia di questo piccolo grande uomo ha appassionato migliaia di giovani. Peppino è diventato un simbolo di ideale, di lotta, un “Che Guevara di Sicilia“. Il Centro di documentazione “Giuseppe Impastato”, insieme al fratello di Peppino, Giovanni, e ai suoi compagni di lotta, ha organizzato una grande manifestazione contro la mafia in occasione del trentennale dalla morte. Molti sono i giovani, siciliani e non, che hanno ancora voglia di resistere, di lottare, e di gridare, come faceva Peppino nel suo giornale, che “la mafia è una montagna di merda“.
La voce dell’alternativa, della lotta sociale, dell’antimafia, dell’informazione libera e indipendente a Palermo oggi trova sede anche in “RADIO 100 PASSI”, web radio nata dalle ceneri di Radio Aut e Radio Sud 103 che ha scelto d’essere una web radio perché consapevole che i passi da percorrere sono molto più di cento per arrivare la dove le mafie hanno investito i loro capitali. La scelta di internet non è quindi casuale ma preferita perché oltre a percorrere grandi distanze è il luogo più frequentato dalle giovani generazioni. L’emittente è nata per essere un microfono aperto alla partecipazione d’associazioni, gruppi, ma anche di singoli che vorranno proporre trasmissioni e contenuti.
“La mafia uccide, il silenzio pure …” - diceva Peppino e da lui possiamo solo continuare ad imparare.





I vostri sprechi, i vostri privilegi, i vostri profitti hanno costruito la nostra povertà

Chi comanda ha scelto la via della restaurazione. La svolta è avvenuta in una settimana, rieletto Napolitano si è dato il via al governo Pd-Pdl presieduto da Letta. Napolitano aveva già voluto il governo Monti, col sostegno di Berlusconi e del Pd. Un governo che ha prodotto più disoccupazione e centinai di migliaia di lavoratori esodati; ha ridotto le pensioni della povera gente, aumentato le tasse, fatto crescere i costi di benzina, luce, gas, acqua e dei generi di prima necessità. I loro provvedimenti economici non hanno fatto uscire il paese dalla crisi ma costi della crisi li hanno fatti pagare a noi con un forte peggioramento delle condizioni di vita e con la crescita smisurata della precarietà. Oggi per milioni di italiani il salario è precario, il posto di lavoro è precario, i servizi sociali sono precari, la sanità è precaria; la scuola è precaria, la casa è precaria, la possibilità di andare in pensione è precaria. Non sappiamo cosa ci toglieranno domani, ma siamo certi che ci toglieranno qualcosa, che ci chiederanno altri sacrifici.
Le istituzioni sono sempre più separate dal paese reale e i politici, che si considerano i padroni delle istituzioni, gestiscono il potere contro i cittadini. Hanno fatto una campagna elettorale sostenendo solo falsità, promettendo cose che sanno di non poter mantenere. Tutti i partiti che hanno sostenuto Monti hanno perso milioni di voti, più della metà degli italiani ha espresso un voto di protesta o non è andata a votare. Hanno paura che tutto salti ma non sono disposti a introdurre alcun cambiamento, e soprattutto non sono disposti a rinunciare al potere. Nessuno sa cosa fare per uscire dalla crisi, ma tutti vogliono far stare in piedi questo sistema che è marcio, basato su grandi sprechi, privilegi intoccabili e ingenti profitti per pochi. È un sistema che si regge sugli intrecci degli interessi di lobby: della finanza, delle professioni, della burocrazia pubblica, dei baroni universitari, dei costruttori edili e di grandi opere, degli assicuratori, dei giornalisti, dei sindacati, dei politici. Il sistema dei partiti è come una piovra: estende i suoi tentacoli ovunque ci siano interessi, soldi, potere da esercitare. I politici sono infatti gli unici che non rimangono mai disoccupati.
Napolitano ha parlato chiaro, se i partiti vogliono sopravvivere devono rassicurare l’Europa, i banchieri europei, le grandi multinazionali europee, i capitali finanziari globalizzati. Dunque il governo Letta dovrà continuare e completare quello che ha incominciato Monti: far pagare i costi della crisi a milioni di donne, giovani, lavoratori e pensionati. Berlusconi e Letta mettendosi insieme hanno voluto dirci che i loro interessi sono gli stessi, che finita la campagna elettorale la politica che conta è la loro, perché loro  comandano e sostengono gli interessi dei poteri forti. I soldi pubblici dovranno continuare ad andare al sistema televisivo, ai giornali, alle banche, alle assicurazioni, alla Tav, a chi distrugge il territorio, a chi privatizza, ai baroni dell’ università, della sanità, ai sindacati e così via.
Ora tutti parlano delle imprese che chiudono, dell’occupazione che diminuisce, del lavoro che non c’è, dei giovani che non hanno futuro. Ma noi ci domandiamo cosa ha fatto il sindacato negli ultimi dieci anni, cosa hanno fatto i partiti del centro sinistra? Quanti sindacalisti, quanti “compagni” si sono preoccupati più dei loro destini personali, si sono affrettati ad andarsi a sedere su qualche comoda poltrona del Parlamento, degli enti locali, dei consigli d’amministrazione delle partecipate.
Chi è rimasto nel territorio, nella città, a costruire partecipazione sociale e politica? Pochi o nessuno.
L’accentuarsi della crisi ci dice il lavoro oggi è sempre più precario, a volte non corrisponde neanche alla certezza di un salario, per molti è solo uno strumento di ricatto, subordinazione e sfruttamento. Se oggi per molti la retribuzione non arriva a mille euro, che senso ha accettare ulteriori sacrifici?
Oggi gli interessi sono più che mai contrapposti. Le condizioni di vita si possono cambiare solo con il rifiuto, la contrapposizione, il conflitto. Bisogna rivendicare collettivamente il cambiamento dei rapporti di forza, costruendo atti e comportamenti concreti per riprendere con la lotta collettiva quello che ci spetta. La contrapposizione collettiva costruita per ottenere le cose concrete che ci abbisognano per vivere può diventare un arma importante per cambiare e modificare i rapporti di forza.
Così oggi è importante intendersi quando si parla di reddito di cittadinanza: non può essere un elemosina per acquietare; deve necessariamente diventare pratica di riapropriazione, multiforme, diversificata ma concreta. Impedire gli sfratti, occupare le case, impedire che chiudano gli ospedali; che restino accessibili i costi dei farmaci e delle cure, che non ci facciano pagare 400 il posto di un bambino all’ asilo; non accettare che gli universitari debbano pagare le tasse, le mense o i testi scolastici per poi avere un diploma o una laurea che attesti l’impossibilità di essere occupati... Tutto questo è reddito sociale. L’intensità delle lotte e dei comportamenti ne sancisce la legittimità, la quantità e la qualità.
I privilegi sono per pochi i diritti sono e devono diventare per tutti e tutte!

Testo dell'editoriale distribuito in piazza il 1 maggio dal Network Antagonista Torinese

domenica 5 maggio 2013

Partigiani e Squatter uniti e ribelli … come la gramigna


In realtà sono solo appunti, nessuno ha voluto seguirci su quella strada, pensavo tra me e me. Avevamo scelto di evidenziare la dimensione "comunitaria" delle storie e di chi le racconta perché  ci sembrava quella la questione da affrontare. In realtà  stavamo parlando dell'uovo di colombo, o della lettera rubata del racconto di Poe, in fondo di constatazioni banali, descrizioni assolutamente pragmatiche di cose che succedevano e succedono ogni giorno. Ogni bar, ogni compagnia di amici ha il suo cantastorie, che è uno storico orale, ma anche il rielaboratore della memoria del luogo e/o del gruppo.
Parliamo dell’antifascismo, dell’antirazzismo, dell’egualitarismo di un pensare e agire la politica che abbia come fine ultimo l’emancipazione dalle classi dominati, la liberazione dei nuovi schiavi, il riscatto degli oppressi. Quelli che una volta erano pensieri condivisi da gran parte dell’arco costituzionale sono ora ingombranti intralci da tacere, retaggio di un’epoca in cui il conflitto sociale era lo strumento di un lavoro politico e non un fantasma da rinchiudere con imbarazzo in un armadio.
Lo stesso ceto politico che si inchina ai poteri forti, della quale esso stesso è parte, alle gerarchie ecclesiastiche, ai poteri economici, che si vergogna della Resistenza, a lungo confinata in una irreale dimensione di lotta del Bene contro il Male.
In questi tempi difficili persino questa interpretazione è troppo progressista, dal momento che intralcia almeno formalmente l’attenta opera di riciclo dei post-fascisti mai pentiti e, soprattutto, si contrappone a una operazione di capillare diffusione di messaggi xenofobi, razzisti, discriminatori, omofobi.
Tale operazione non passa attraverso analisi e dibattiti, ma si accontenta di riletture mediatiche della storia di ieri e di oggi: semplificazioni a uso dei mass media, costruite a colpi di fiction, di film di serie B, di salotti televisivi, di attori dal volto accattivante, di registi prezzolati, di dirigenti compiacenti della TV pubblica e privata.
Questa produzione mediatica è anche una produzione culturale e risponde a precise esigenze politiche: dire che i fascisti non erano poi così cattivi, che spesso non erano d’accordo con i nazisti, che anzi lottavano strenuamente per difendere la popolazione italiana è la premessa logica per riproporre alcune teorie e alcune pratiche che avevano proliferato nel ventennio e che sono insite nel bagaglio culturale della classe dominante di questo Paese.
Contro queste teorie e queste pratiche hanno combattuto i partigiani della Resistenza e continuano a combattere ancora oggi per chi le sa vedere, portando ovunque una testimonianza che vuole essere anche un monito, non solo la narrazione di un pezzo di storia che è stata.
Contro queste teorie e queste pratiche continuano a combattere le compagne e i compagni dei collettivi studenteschi, delle università e delle strutture di base. Tutti coloro che insistono nel ricordare come la Resistenza abbia significato guerra antifascista, conflitto sociale, lotta popolare e che ogni eccidio fascista, ogni omicidio delle squadracce, ogni offensiva dei camerati di ieri e di oggi è un’aggressione alle masse popolari, agli umili, agli oppressi, ai proletari, a quella che è la parte migliore della società.
I partigiani tra gli squatter.  La Resistenza e lo Spirito di Seattle. Fazzoletti rossi di cinquant’anni fa e i black block. Cortocircuito ideale, gioco di rimandi che starebbe bene in un libro, ma ancor più nelle piazze e forse ogni tanto ci sta.
Perché sono le condizioni che ci mettono insieme, creare le occasioni dunque è strategico.
I vecchi nemici dei nazifascisti e giovani avversari della globalizzazione sono, devono essere,  dalla stessa parte.