..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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giovedì 28 giugno 2018

Antimperialismi a senso unico


Se c’è un modo coerente di sentirsi partecipi dei problemi dei popoli oppressi che cercano di liberarsi dalle catene dello sfruttamento, questo è quello di sentirsi tutt’uno con essi, di vivere le loro difficoltà e i loro drammi come propri, di sentirsi offesi e umiliati quando ad essi si infligge un’offesa e un’umiliazione, e di mettere in atto ogni mezzo per contribuire al superamento della loro situazione. Questo è il senso della solidarietà internazionalista. Ma non il solo. Le dinamiche politiche spesso sono talmente diverse caso per caso da richiedere molta attenzione quando si fanno degli approcci. Noi che viviamo in questa parte di Mondo sotto il dominio delle potenze occidentali, e degli Stati Uniti d’America in particolare, siamo cresciuti combattendo la NATO e l’imperialismo americano, e ci è capitato spesso, non ultimo durante la lotta contro l’installazione della base missilistica di Comiso (primi anni ottanta del secolo scorso), di essere accusati di fare il gioco degli avversari degli USA, in quel caso l’Unione Sovietica e il Patto di Varsavia. Non era così, perché in quanto anarchici e antimilitaristi, la nostra battaglia assumeva – per noi – i caratteri di un’opposizione alla guerra e all’imperialismo. Eravamo antiamericani (nel senso di nemici della potenza statunitense) ma in quanto antimilitaristi, e non viceversa, altrimenti avremmo finito per mettere da parte la nostra avversione per ogni forma di militarismo una volta cessato il bisogno di schierarci contro gli USA.
Ma non tutti la pensano così, e non tutti riescono a comprendere la posizione di chi non simpatizza per nessun potere e quindi gioisce a metà quando uno scontro militare finisce, ma dalle sue ceneri sorge magari un nuovo stato, se-dicente rappresentante di chi lottava contro la grande potenza. L’esempio più classico fu il primo maggio del 1975, quando in tutto il Mondo si festeggiava la fine della guerra in Vietnam del giorno prima, con la sconfitta degli USA; un conflitto che aveva caratterizzato il ventennio precedente, ma che nell’ultimo decennio era stato uno dei temi scottanti attorno a cui si era formata la generazione dei ribelli che darà vita al Sessantotto. Solo gli anarchici, nonostante avessero anch’essi speso energie a iosa contro l’infame guerra in Indocina, quel primo maggio misero in guardia dalla nascita del nuovo Stato vietnamita, un nuovo potere che si annunciava militarista e condizionato da due grandi tirannie, quella russa e quella cinese.
L’antimperialismo a senso unico ne ha fatto di vittime nel tempo; basti pensare a Cuba, nella cui guerriglia non pochi furono gli anarchici impegnati, mitizzata oltre ogni dire (mito ancora duro a morire), emblema di una durissima resistenza allo strapotere statunitense, ma dentro i cui confini si consumavano, tuttavia, delitti politici contro dissidenti ed eretici del regime castrista.
Non va nemmeno dimenticato il dibattito seguito alla cacciata dello Scià in Persia e alla nascita della repubblica islamica dell’Ayatollah Khomeini nel febbraio del 1979; la sinistra internazionale lesse quegli avvenimenti in chiave antiamericana e simpatizzò con la rivoluzione che portò al potere i religiosi sciiti. Gli esempi potrebbero continuare, ma ci interessa tornare all’oggi poiché tali dinamiche si riscontrano nella pratica odierna di un internazionalismo ancora a senso unico.
La Palestina vive nel cuore di tutti noi come l’esempio vivente di una resistenza di lunga durata e di un grande sopruso, di una violenza senza fine tollerata, coperta, supportata, da tutti gli Stati, compresi quelli falsamente amici, che hanno solo appoggiato il popolo palestinese per strumentalizzarne a fini propri il suo sacrosanto diritto ad una propria autodeterminazione. L’antimperialismo a senso unico porta a considerare formazioni come Hamas, in quanto schierate contro lo Stato fascista di Israele e il suo grande protettore USA, degne del sostegno militante, dimenticando l’ideologia di fondo di questo movimento: retrograda, patriarcale, specularmente fascista, tutte premesse che in un futuro eventuale stato palestinese rappresenterebbero inaccettabili condizioni per chi si batte per una liberazione effettiva dei popoli oppressi.
Cambiando area geografica, sono molti gli Stati nel “giardino di casa” degli Stati Uniti, cioè il centro e sud America, ad essere sotto il mirino dell’imperialismo a stelle e strisce, del Fondo monetario, della Banca Mondiale per la loro attitudine a voler gestire in proprio le risorse del paese. La loro collocazione in contrasto con i disegni degli USA e i tentativi di questi di fomentare rivolte e colpi di stato, attuando embarghi, ricatti, assedi, impongono condizioni di vita ai limiti dell’incredibile e seminano odio antimperialista. Tuttavia questa situazione fa spesso perdere ai solidali del Mondo, e a quelli nostrani in particolare, il senso critico, e sposare acriticamente cause come la bolivariana e chavista, oppure populiste o sandiniste, chiudendo gli occhi su ciò che avviene in quelle società, dimenticando che una autentica politica antimperialista va coniugata con un progetto di autentica liberazione sociale, che non può essere spesso solo slogan, oppure richiamo strumentale a lontane origini rivoluzionarie da tempo abbandonate.
In Venezuela lo Stato bolivariano fondato da Chavez, oggi in mano a Maduro, è un regime in mano a una casta di militari eredi di una rivoluzione contraddittoria, che ha affiancato a reali aperture ai poveri e trasformazioni sociali (oggi migliaia di gruppi popolari si autogestiscono la loro vita fuori dal controllo governativo), il rafforzamento di una nuova oligarchia petroliera. Affermare ciò viene considerato fare il gioco del nemico. L’attacco degli USA, del FMI, della BM e delle classi agiate locali, che sta provocando una grande e diffusa povertà, non fa altro che alimentare il mito di un Venezuela baluardo dell’antimperialismo, portando a giustificare un esercito, una polizia, le istituzioni totalitarie, il sistema da caserma, la casta al potere.
Poco distante, in Nicaragua, in nome del sandinismo un élite di ex rivoluzionari abbarbicati al potere e ai suoi privilegi, combatte contro forze giovanili e popolari stanche di subire le angherie di una casta che ormai non ha nulla da invidiare a quella legata al regime del dittatore Somoza rovesciata nel 1979. Ma anche in questo caso, gli internazionalisti a senso unico vedono solo ciò che vogliono vedere, e cioè che lo Stato nicaraguense rappresenta ancora un presidio contro l’imperialismo USA, e non  invece una società dove una classe di nuovi sfruttatori esercita il più antico dei domini di classe contro la popolazione, in nome …dell’antimperialismo.
Torniamo all’inizio: siamo antimperialisti perché rifiutiamo ogni forma di imperio, e non ci schieriamo con nessun tipo di sistema autoritario e statale; l’internazionalismo si definisce nella solidarietà ma anche nell’espressione di contenuti critici e nel supporto verso tutte quelle esperienze che oggi sono portatrici di progetti di liberazione e di ricostruzione sociale su basi effettivamente antiautoritarie, federaliste, femministe, ecologiste, come il Kurdistan, il Chiapas, con le varie esperienze in atto. La contingenza ci può portare senz’altro a sostenere lotte popolari sparse per il mondo, e in tal senso mai smetteremo di supportare, ad esempio, quella palestinese, o quella dei popoli venezuelano o nicaraguense, e di tante realtà che non rinunciano a resistere. Ma senza mai schierarci con i poteri che pretendono di guidarle, oggi nella lotta e domani in nuove caserme chiamate stato.

martedì 26 giugno 2018

27 giugno 1905 viene fondata la Industrial Workers of the World

Il sindacato “Industrial Workers of the World”, conosciuto dalla storia ancor più con l'acronimo IWW, è stato una significativa e rivoluzionaria articolazione del movimento operaio statunitense. Ideato agli albori del 1905 e fondato a Chicago il 27 giugno dello stesso anno attraverso la redazione dell'Industrial Union Manifesto.
Gli attivisti della IWW sono anche conosciuti come 'wobblies', nell'ambivalenza che questa definizione è andata ad assumere: wobblies perché itineranti nel senso di attraversatori dell'America per la diffusione della lotta operaia e del sindacato, wobblies perchè costretti alla precarietà dal lavoro, dal padrone, dallo Stato.
Il contesto dentro il quale ha avuto la forza di emergere ed organizzarsi la IWW è stato quello degli Usa di Woodrow Wilson, tecnocrate classista e razzista che tentò a più riprese di stroncare il movimento operaio statunitense non solamente intensificando l'opera di sfruttamento e controllo, ma soprattutto appoggiandosi al carro dei sindacati padronali, fautori di politiche disciplinanti e repressive, fondate sulla pretesa di negoziazione individuale tra azienda e operaio per l'eliminazione di ogni parvenza di collettività di forza-lavoro.
La Industrial Workers of the World conobbe la sua migliore stagione ad inizio novecento, con i grandi scioperi dei primi anni venti: per i minatori di McKees Rocks (Pennsylvania, 1909), per i tessili di Lawrence (Massachusetts, 1912), per i setaioli di Paterson (New Jersey, 1913), per i portuali di New York (1920).
L'ideologia wobblies rappresentò un alveo sperimentale, innovativo e rivoluzionario. Tante furono le campagne che la fecero conoscere e gli permisero di intraprendere dure lotte e grandi vittorie (dalle mobilitazioni contro le discriminazioni nei confronti dei lavoratori migranti alla libertà di parola per poter fare ed essere sindacato!). La IWW perseguiva l'obiettivo della proprietà operaia dell'industria, considerava ogni sciopero come preparativo alla rivoluzione, non cercava un rapporto contrattuale con i datori di lavoro ma preferiva la via del boicottaggio e del sabotaggio.
Splendida narrazione dei wobblies della IWW, delle lotte operaie americane di inizio novecento, è possibile recuperarla dal romanzo di Valerio Evangelisti, 'One Big'.

giovedì 21 giugno 2018

Il lato cattivo

«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva: il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione».
(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversibile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»
(«NonostanteMilano»)

domenica 17 giugno 2018

Emile Pouget, l'anarchico che inventò il sabotaggio in Francia

Dopo un esilio in Inghilterra introdusse nel sindacato del suo paese i metodi di lotta degli operai inglesi. Una strategia di disobbedienza che corrisponde al più recente slogan lavorare con lentezza. Dopo il varo, nel 1893, delle famose leggi scellerate, la legislazione antianarchica che introdusse in Franca il reato di association malfaiteurs, molti militanti furono costretti a riparare all'estero per sfuggire al carcere. Durante l'esilio a Londra, il sindacalista anarchico Emile Pouget, fondatore nel 1889 del giornale popolare Le Pére Peinard, ispirato al Père Duchesne di Hébert, esponente degli arrabbiati, l'ala sanculotta più radicale della rivoluzione francese, rimase colpito dai metodi di lotta impiegati dal movimento operaio inglese. Quegli anni di dura repressione avevano gettato nel discredito la strategia minoritaria e individualista della propagande par le fait, che aveva conquistato i settori anarchici del periodo. Nel 1892, l'esecuzione di Ravachol aveva aperto l'era degli attentati e delle bombe. Due anni dopo l'anarchico italiano Sante Caserio uccise il presidente della Repubblica francese Sadit Carnot. L'amnistia politica del 1895, seguita all'elezione del nuovo presidente della terza Repubblica, Felix Faure (rimasto alla storia perché folgorato da un infarto fu rinvenuto su un divano dell'Eliseo ancora avvinghiato ai capelli della sua amante, che terrorizzata cercava di riprender fiato), permise a Pouget di rientrare insieme a molti altri militanti e dare vita ad una nuova stagione politica fondata sull'azione di massa e l'intervento sindacale. Ebbe così modo di partecipare alla fondazione della Confédération générale du travail e nel 1896, sul nuovo giornale La Sociale spiegò la teoria del sabotaggio, il sistema dei proletari inglesi che hanno come parola d'ordine: A paga cattiva, cattivo lavoro ... L'azione diretta - scriveva nel 1908 - non è fatalmente sinonimo di violenza: essa può manifestarsi in maniera benevola e pacifica o anche molto vigorosa ... Contro lo Stato si materializza sotto forma di pressione esterna, mentre contro il padronato, i mezzi comuni sono lo sciopero, il boicottaggio, il labello, il sabotaggio. Nell'opuscolo Le Sabotage, Pouget racconta che il termine sabotaggio deriva da sabot (zoccolo). Sabotage non era in origine un'espressione di lotta sociale ma un termine popolare che non indica affatto l'atto di fabbricare zoccoli, ma al contrario designava un lavoro mal eseguito, fatto a «colpi di zoccoli» appunto. Nel 1897, durante il congresso della Cgt a Tolosa, nel quale Pouget animava la commissione boicottaggio, questa tattica ricevette il battesimo sindacale. In effetti, il sabotaggio in origine altro non era che quanto gli operai scozzesi chiamavano, con un'espressione dialettale, Go Canny (vacci piano!). Una strategia di resistenza che da individuale e spontanea si fa col tempo cultura di lotta consapevole, sempre più fantasiosa e organizzata, diffusasi in Inghilterra nel 1889 e successivamente importata in Francia, nel 1895, dal sindacato dei ferrovieri e poi giunta in America, grazie al passa parola delle lotte dei portuali, durante la stagione dell'Iww. Pouget rammenta anche l'arrivo del sabotaggio tra i lavoratori italiani, impiegato per la prima volta, non certo a caso, dai ferrovieri, facilitati dai contatti e dagli scambi quotidiani con i compagni di lavoro d'oltre frontiera, che nel 1905 praticano lo sciopero dello zelo.

venerdì 15 giugno 2018

15 giugno 1944: Mirafori sciopera contro il trasferimento


Nel mese di giugno del 1944, in previsione di un progressivo spostamento della linea del fronte verso nord, le autorità naziste danno l'ordine di trasferire in Germania tutti i macchinari industriali "utili alla macchina bellica tedesca": per la Fiat Mirafiori queste parole significano il trasloco dell'officina 17 (quella dei motori avio) in alcune gallerie scavate nella zona del Garda, vicina all'Alto Adige (annesso alla Germania nazista), un luogo ritenuto dai tedeschi estremamente sicuro.
Il 15 giugno, giorno della decisione del comando tedesco del trasferimento coatto dell'officina 17, vede scatenarsi pronta la reazione operaia, con l'indizione di uno sciopero per il 17 giugno indetto dal comitato di agitazione del Cln.
La manovra in realtà non tende tanto, come dichiarato, a evitare i danni delle incursioni aeree, quanto all'eliminazione delle agitazioni operaie, che sarebbero diventante difficili da gestire, trasferendo l'intero processo produttivo fuori dall'ambiente sociale dei lavoratori, troncando ogni organizzazione operaia ed influenza esterna.
L'agitazione parte dallo stabilimento Fiat Mirafiori, ma ben presto si allarga prima alle altre fabbriche del gruppo (Lingotto, Ferriere, Fonderie ghisa, Acciaierie, Fiat materiale Ferroviario, Grandi Motori), e nei giorni successivi a molte altre aziende, dalla Lancia all'Arsenale Militare, dalla Zenith alla Manifattura Tabacchi.
Le decine di migliaia di operai che scendono in piazza tra il 17 e il 27 giugno non si battono solo per scongiurare la deportazione, ma rivendicano anche un aumento di viveri e salari.
Grazie a questa prova di resistenza gli operai otterranno alcuni miglioramenti economici e impediranno l'invio di macchinari e lavoratori all'estero: lo sciopero del giugno di fatto fornisce ai torinesi l'ennesima prova della grande capacità mobilitativa, e blocca un'iniziativa tedesca che, se non fermata, avrebbe potuto riprodursi su larga scala.

lunedì 11 giugno 2018

11 giugno 1919: l'insurrezione di La Spezia e il biennio rosso


La scintilla che provoca anche in Italia il cosiddetto Biennio Rosso italiano scocca l'11 giugno 1919 nella città di La Spezia.
In tutto il paese, gli effetti della Grande Guerra si dimostrano drammatici: il costo della vita è 4 volte quello del 1913 mentre i salari sono sempre gli stessi, le migliaia di soldati di ritorno dal fronte fanno fatica a trovare lavoro, il deficit di bilancio raggiunge livelli senza precedenti e il debito pubblico continua ad aumentare.
La situazione a La Spezia è in linea con quella nazionale: le numerosissime fabbriche della città, che avevano avuto enormi commesse durante la guerra devono riconvertirsi ad una più limitata produzione civile, e per farlo licenziano quasi la metà dei lavoratori, e gli operai, dichiarati "indispensabili" per lo sforzo bellico, seppur in massima parte sindacalizzati, si trovano a lavorare ancora con le regole che vigevano durante la guerra, quindi senza alcuna possibilità di trattativa o conquista sindacale.
Manca poco che la città, e la nazione tutta, esplodano, e tra gli operai sempre più forte è la tentazione di "fare come in Russia".
L'11 giugno del 919 le tre camere del lavoro spezzine, per la prima volta congiuntamente, indicono una manifestazione contro il carovita.
La calmierizzazione dei prezzi dei beni di prima necessità, sancita dall'ufficio approvvigionamento, scatena però la rabbia dei grossisti, che distruggono interi carichi di frutta e verdura. La voce giunge agli operai, che scendono in quindicimila in corteo, dirigendosi verso il centro città e cominciando i saccheggi.
Le truppe accorse si rifiutano di sparare sulla folla, nonostante gli ordini ricevuti, ma i Carabinieri sparano ed uccidono due operai. Nel frattempo scioperi di solidarietà vengono indetti, prima in tutta la Versilia, poi in tutta la Toscana.
Gli scioperi dilagano in tutta Italia, dalle metropoli industrializzate del nord alle zone rurali del centro sud, dove, tra il settembre e il novembre 1919, i contadini iniziano l'occupazione spontanea di terre povere e non coltivate.
Le rivolte operaie del biennio rosse mettono a dura prova la tenuta dell'ordine istituzionale, che vedrà infatti l'alternarsi di sette governi in soli tre anni; per mettere fine alle agitazioni, e preoccupati dal risultato elettorale raggiunto dai socialisti nel 1919 (32%), il governo con la mediazione del primo ministro Giolitti da una parte cerca un punto di incontro con gli operai, permettendo ai sindacati un controllo sulle fabbriche, controllo però che si dimostrerà debole e non entrerà mai di fatto in funzione, e dall'altra lascia di fatto carta bianca ai neonati fasci di combattimento, organizzazione paramilitare legalizzata che soffocherà nel sangue le agitazioni proletarie.

venerdì 8 giugno 2018

8 giugno 1979: ciclo di lotte alla Fiat Mirafiori


Dall'otto giugno 1979 per alcuni giorni si verificano a Mirafiori una serie di scioperi e cortei operai che riportano in fabbrica i lavoratori licenziati per le lotte esplose da inizio anno e articolatesi per tutto il periodo primaverile.
Un vero e proprio ciclo di lotte autonome quello del 1979 dove la vertenza contrattuale apre le porte ad un conflitto che fuoriesce completamente dalla gestione sindacale.
Dalla primavera del '78 una serie di iniziative di lotta viene portata avanti da lavoratori aggregatasi nei Collettivi operai Fiat in forte contrapposizione con i sindacati confederali.
Il 29 aprile 1979 alle Carrozzerie mille donne del reparto montaggio fanno un corteo interno per la situazione dei servizi igienici, un altro corteo di operai invade la palazzina degli uffici, mette in fuga gli impiegati ed esce all'esterno occupando Corso Agnelli. Nelle prime ore del pomeriggio vengono occupate ed espropriate le mense.
Nei giorni successivi vengono più volte bloccati i cancelli.
A giugno dilagano gli scioperi in Verniciatura.
Il 6 giugno si svolgono cortei interni grossissimi che distruggono scocche e macchinari.
L'Flm (sindacato dei metalmeccanici) si dissocia dagli episodi di violenza.
Il giorno dopo un corteo enorme riassalta la palazzina e le strade di Torino Sud, per la Repubblica 25000 sono i lavoratori in corteo.
La direzione fiat afferma che la mobilitazione è sfuggita di mano ai sindacati e a controllarla sono gruppi di autonomi così licenziando i 5 operai che saranno riportati dentro con il corteo dell'8 giugno 1979.
Il 30 giugno in seguito alla messa in libertà di 4200 operai si verificano degli scontri tra manifestanti (che volevano attuare il blocco totale delle merci) e sindacalisti (che vorrebbero far entrare dei camion carichi di schocche).

mercoledì 6 giugno 2018

7 giugno 1914: la settimana rossa di Ancona


Il 7 giugno 1914, ad Ancona si svolgono dei disordini tra lavoratori anconetani (principalmente portuari e ferrovieri appartenenti a sindacati autonomi di indirizzo socialista ed anarchico) e forze dell'ordine, schierate per difendere la parata militare celebrativa dello Statuto Albertino.
Ancona è all'epoca una città che ha già avuto numerose esperienze di rivolte e sollevamenti popolari: dai moti del pane del 1898 agli scioperi del 1913. In quel periodo inoltre si assisteva alla creazione di un fronte comune di diversi movimenti e sindacati, uniti dall'antimilitarismo. L'opposizione alle politiche di guerra non era una lotta puramente ideologica. La missione in Libia impegnava moltissimi lavoratori, che venivano chiamati alle armi e, dopo aver abbandonato tutto, subivano una formazione militare che significava semplicemente disciplinamento e repressione, in un momento in cui una profonda crisi economica attraversa il paese, costringendo la popolazione ad emigrare. Emblematiche sono le vicende di Augusto Masetti, che spara al proprio tenente al momento di partire per la Libia, e Antonio Moroni, militante socialista inviato in una compagnia di disciplina a causa della sua attività politica.
Il 7 giugno 1914 si celebra con una parata per le vie del centro l'anniversario dello Statuto Albertino; come in tutte le città d'Italia, è prevista una manifestazione contraria ai festeggiamenti, alla corona e all'esercito, per richiedere l'abolizione delle compagnie di disciplina, la liberazione di Masetti e Moroni. Lo scopo è quello di impedire la sfilata militare. Visto il divieto di manifestare, l'appuntamento per l'azione è fissato a Villa Rossa (sede del partito Repubblicano, di indirizzo mazziniano). Dopo un comizio che infiamma il pubblico, i manifestanti escono da Villa Rossa e subito incontrano lo spiegamento delle forze dell'ordine, che impedivano l'ingresso alle vie del centro. Al tentativo di forzare il blocco, i carabinieri rispondono aprendo il fuoco e uccidendo Nello Budini di 24 anni, Attilio Giambrignani di 22 e Antonio Casaccia di 17.
Inizia quindi uno sciopero selvaggio ad oltranza, continuano gli scontri con le forze dell'ordine. Vengono assaltate le armerie, i lavoratori portuali e ferroviari bloccano porto e stazione, rallentando l'arrivo di ulteriori militari chiamati come rinforzo, i palazzi pubblici vengono presi dai manifestanti: gli scontri si trasformano in battaglia.
Ha inizio quella che passerà alla storia come la settimana rossa di Ancona.
Nei giorni successivi lo sciopero si espande a macchia d'olio in tutta Italia, si hanno violentissimi scontri nella Romagna, a Milano, Torino, Bologna, Firenze, Napoli, Palermo e Roma.
Intere zone della penisola sfuggono al controllo dello stato, i comitati rivoluzionari cercano di riorganizzare la vita nelle città in loro possesso. L'impronta fortemente antimonarchica e antimilitarista delle rivolte sembrano mettere il paese sull'orlo della guerra civile. L'intervento dell'esercito arriva, però, con una forza dirompente: il 10 i militari riescono a sbarcare ad Ancona. Importante ricordare anche il ruolo che ebbe CGdL (Confederazione Generale del Lavoro) che, dopo aver inizialmente appoggiato lo sciopero, lo revocò e invitò i lavoratori a riportare l'ordine.
Il 14 giugno, dopo ben 16 morti tra i rivoltosi, la situazione torna definitivamente sotto il controllo dell'esercito. La settimana rossa resterà però un'esperienza rivoluzionaria importante, che fungerà da base per il biennio rosso e storicamente utile per avere uno spaccato di una Italia infuocata dal conflitto sociale, prossima alla prima Guerra Mondiale.


martedì 5 giugno 2018

Finirà questa pacchia...

Sacko Soumayla, ventinovenne maliano, è morto ucciso a fucilate ieri notte nelle campagne di San Calogero, tra Rosarno e Calimera, nel vibonese. Qualcuno ha sparato da lunga distanza. Altri due uomini, Madiheri Drame, 30 anni, e Madoufoune Fofana, 27 anni, sono stati feriti. Si trovavano all’entrata dell'ex Fornace, una fabbrica abbandonata, alla ricerca di vecchie lamiere e altro materiale utile per costruire un riparo di fortuna dove riposarsi dal lavoro nei campi.
Era uno dei tanti braccianti che si spaccano la schiena nelle campagne per pochi euro, per raccogliere le arance che troviamo a caro prezzo nei supermercati. Era attivo nelle lotte sindacali, lì in quelle campagne, nella piana di Gioia Tauro. Una morte che non fa notizia, non troppa. Perché? Perché è un’esecuzione. Una morte non ordinata da questa società ma appartenente al suo ordine normale di società razzista, dove i rapporti di classe sono anche rapporti di segregazione razziale e la vita di quelli come Sacko, esattamente come il suo lavoro, vale meno.
La normalità. C’è chi si sorprende, si rammarica e poi dimentica. C’è chi la conosce e serra ancora i pugni dalla rabbia. Una volta di più. Fa schifo. È la stessa storia di Macerata, quella di Idy Diene a Firenze, quella del giovane senegalese preso a sprangate perché non riusciva a pagare l’affitto una settimana fa a Castelfranco di Sotto, vicino Pisa, o quella del giovane rumeno investito da un treno solo due giorni fa mentre si recava nei campi tra Acerra e San Felice a Cancello. Poi il mare, dove si affonda. 35 morti al largo della Tunisia. Ma oltre l’orizzonte nessuno guarda mai.
Questa è la trave nell’occhio che non vede chi cerca le pagliuzze negli occhi di chi soffre in questo paese: i neri, gli stranieri muoiono perché neri e stranieri. La minaccia della loro vita avara e spietata sfiora porzioni di proleteriato bianco e nativo ma ora a morire sono i neri. La politica segna bene la linea di demarcazione: loro possono pure morire, voi almeno, no. I fucili e le pistole poi non lasciano dubbi. Guardate dove e come muoiono, questi neri, per capire come confinino con noi: muoiono mentre lavorano, nei campi, negli ultimi posti dimenticati da Dio, ovvero, dietro le nostre case e nelle nostre strade. Oltre l’orizzonte nessuno riesce a guardare mai perché la vita piega la schiena.
Salvini continua ad andare all’attacco. Promette guerra: “la pacchia è finita”. È un uomo piccolo. Aggiunge solo infamia a un dato già presente: questa guerra contro i lavoratori migranti c’è già. L’ha usata, l’ha sviluppata in rancore per farne rendita politica, per farne crociata delle istituzioni. Copre quel senso di impunità che permette di ammazzare un uomo per placare un po’ di vendetta contro la miseria di questo mondo o semplicemente per suggellare con la crudeltà il segno del comando.
Ma non ci sono nemici invincibili capaci di far calare la notte da un momento all’altro, come se si spegnesse l’interruttore. Chi è angosciato da questo è esente dalla partita di morte, non conosce la minaccia quotidiana. Salvini cambia poco o se vogliamo cambierebbe tanto come pretesto per ribellarsi alla regola dei cecchini in un mondo di bersagli. Hanno ammazzato uno di noi. Chi sente questo odore di morte sa che non ci sono scorciatoie: non basta un sistema più giusto, bisogna venir fuori per non far passare in mezzo a noi quella linea di confine tra storie di vita senza speranza e storie senza speranza di vita, per contare e non farsi ammazzare. Basta fare da bersagli mobili, finirà questa pacchia...

A Sacko.

venerdì 1 giugno 2018

Dove finisce la mia libertà e dove inizia la tua?


Il mio ragionamento sulla libertà non può che essere diverso da quello condiviso dalla folla. Quando si dice retoricamente che 'la libertà finisce dove comincia quella degli altri' non posso che provare un senso di disgusto, ma anche di vergogna, perché constato il modo in cui la folla sorvola volutamente sull'analisi reale di questa frase. Gli basta la retorica, la bella scorza, soprattutto gli basta sapere di non mettere a repentaglio la sua condizione di schiavo per applaudire a quella frase e sentirsi nel giusto.
Eppure è sulla base di quella frase che, in questa società, ci si scanna e non si ha più libertà da secoli e secoli. È sulla base di quella frase che i governi muovono gli eserciti e impongono coercizioni ai popoli, alle singole persone. Quando si stabilisce un limite, un confine, un divieto anche e soprattutto alla libertà, è sempre un atto criminale, dittatoriale, l'inizio di una catena autoritaria di eventi. Se la mia libertà finisce dove comincia la tua, dovremmo dunque stabilire chi dovrebbe (e soprattutto perché dovrebbe) arrogarsi il diritto di stabilire qual è la tua libertà, e qual è la mia. Lo stabilisce la nostra rispettiva forza brutale muscolare? Il nostro rispettivo esercito? O il suo surrogato burocratico, cioè una struttura istituzionale che legifera e impone divieti a vantaggio di qualcuno e a discapito di qualcun altro? Lo stabilisce una morale sedicente divina che mi esorta a porgere l'altra guancia e a fare voto di povertà affinché qualcun altro si giovi delle ricchezze che produco? In ogni caso, come si può notare, non è più libertà, ma coercizione di governo, dittatura, sfruttamento! E se ci facciamo caso, tutta la nostra società è fondata su quella pretestuosa frase, che si concretizza ogni giorno e in ogni luogo. Se tutti dicono di ricercare la libertà pensando di riuscirci poiché affidano a quella frase tutte le speranze, sappiano che la schiavitù di cui sono vittime
si basa proprio sulla limitazione della libertà del popolo per salvaguardare quella del Capitale e dell'élite al governo.
Io invece intendo la libertà come la intendeva Bakunin, infatti potrò dire di essere veramente libero soltanto quando anche tutti gli altri lo saranno. Questa è per me la libertà, ed è di questa libertà che lo schiavo ha un'enorme e stupida paura. Paura di che? Di morire e di soffrire? Sì! Ma allora questo schiavo non dovrebbe proprio obbedire ai padroni che lo mandano al macello! Non dovrebbe soprattutto crearne di padroni! Tre morti al giorno sul lavoro non bastano? E le guerre? E i genocidi? E le torture? E i suicidi indotti? E le stragi di Stato? Tutto questo non fa paura allo schiavo?
Pare di no, allo schiavo fa invece paura, anzi terrore, la gioia della libertà, una vita vera e totale vissuta pienamente. Paradosso? Certo. Lo schiavo preferisce morire tutte le volte che il suo padrone alza il dito piuttosto che imparare di nuovo a camminare autonomamente sulla strada della libertà insieme agli altri e autogestirsi la vita. Lo schiavo è troppo abituato ai confini imposti dall'alto, ai divieti, ai limiti, agli ordini, alle gabbie. La scuola (e tutta la società scolarizzata) lo educa a considerare normale e giusto tutto questo. Un universo aperto gli fa paura più della morte certa per mano del padrone. La mia libertà, dunque, non finisce affatto dove comincia la tua. Sulla mia libertà nessuno può arrogarsi il diritto di tracciare un confine, altrimenti non è più libertà, è dittatura, cominciamo a capire questo concetto elementare. E al bando la retorica e la morale dello schiavo, come di seguito!
Infatti lo so che cosa direbbe adesso lo schiavo comune. Direbbe che ci deve per forza essere qualcuno a regolamentare, a legiferare, a fare lo sbirro e il giudice. Se soltanto imparasse, questo schiavo, che quel qualcuno altri non è che un essere umano come me, e che se quel qualcuno esterno a me può, secondo lui, avere voce in capitolo sulla mia vita, sul mio pensiero e sulle mie azioni, perché dunque io, che sono parimenti un essere umano, e conosco meglio di chiunque altro le mie esigenze, non posso averla quella voce in capitolo? Si ponga questa domanda, lo schiavo! Ma lo schiavo è tale perché non ragiona, lo schiavo esegue solo ordini, ed è obbedendo al padrone e alla sua legge scritta che lo schiavo si dichiara per quello che è: un essere autoritario e asservito che ha bisogno di un governo, di qualcun altro che dall'esterno gli dica cosa fare, cosa pensare, quando farlo, e tutto il resto.