..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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domenica 28 gennaio 2018

La città liberata

La partecipazione in prima persona e l'azione diretta più o meno pacifica con l'apporto di una diversa consapevolezza, capace di modificare e rendere più intense le relazioni tra le persone, guidano l'iniziativa su una scala territoriale forse più limitata, ma più incisiva.
Rimettersi alle istituzioni significa accettare che ogni scelta urbanistica fatta e gestita dal ceto politico in nome della collettività e del bene comune si trasformi ineluttabilmente in un ulteriore impoverimento delle libertà dei singoli.
Si creano gruppi di individui disponibili a mettersi in gioco, in modo anche molto radicale, su problemi concreti e circoscritti, riguardanti il proprio territorio e la vivibilità quotidiana.
Aria, tempo, spazio, piacere, terra, cibo sono sempre più motivo di conflitti e rivendicazioni.
La loro mancanza, il loro degrado, l'impossibilità di goderne liberamente stanno rimodellando velocemente i valori, le idee, le paure, le prospettive e con esse i modi e le ragioni stesse del fare politica.
Sono queste le persone che possono reagire e resistere, perché impostano la lotta contro la privatizzazione e la mercificazione dello spazio come lotta frontale, non necessariamente violenta, ma certamente coerente con il proprio sentire, autorganizzata e solidaristica, orientata a ottenere risultati tangibili e immediati in situazioni che valorizzino le caratteristiche di ognuno, rendano possibile e migliorino la qualità sociale. Sono le persone che hanno intuito che né il mercato né lo Stato agiscono per l'interesse collettivo tanto meno per quello dei singoli e che si stanno orientando verso modelli che li ridimensionano o li escludono.
Per loro affidarsi al mercato significa rendersi partecipi della trasformazione delle città in centri commerciali o musei a cielo aperto e chi la abita in polli in allevamento da far sopravvivere in una gabbia luccicante. Così, in modo più o meno radicale, contro il mercato praticano l'autoproduzione, la riutilizzazione dei materiali, l'autocostruzione, il baratto e il mutuo appoggio organizzato.
Introducono il dono nei rapporti di scambio tra le persone; si associano in gruppi di acquisto, in attesa, magari, di potersi organizzare autonomamente creando orti collettivi in città o nelle sue vicinanze. Così, si oppongono alla speculazione edilizia, alla costruzione di edifici che trasformano la città in uno spazio espositivo per il marketing pubblicitario di banche e multinazionali, a infrastrutture ingombranti e inutili.
Sono le persone che occupano le case abbandonate per abitarci o condividerne gli spazi con chi vuol frequentarle. Utilizzano le strade, i marciapiedi, le piazze, i muri, i parchi al di là delle convenzioni e dei regolamenti sottraendole anche solo momentaneamente alle automobili, a un’estetica mediocre, a una tristezza uniforme.
I partiti e le istituzioni amministrative non possono rappresentare l'interesse pubblico perché fanno parte del sistema, perché rappresentano essi stessi interessi privati e perché sono strumenti avversi alla formazione di meccanismi di decisione collettivi e alla mobilitazione.
Non devono mai affidare la loro volontà a rappresentanti non eletti e non revocabili, né permettere la specializzazione politica: devono escludere i dirigenti.
In questo consiste l'autorganizzazione.
Non cedere alle prevaricazioni né alla seduzione. Il suo obiettivo irrinunciabile deve essere la liberazione del territorio dagli imperativi del mercato, e ciò significa farla finita con il territorio inteso come territorio dell'economia. Deve stabilire un rapporto di rispetto tra l'uomo e la natura, senza intermediari.
In definitiva si tratta di ricostruire il territorio, non di amministrarne la distruzione.
Questo compito spetta a coloro che nel territorio vivono, non a coloro che ci investono, e l'unico ambito in cui ciò è possibile è quello offerto dall'autogestione territoriale generalizzata cioè la  gestione del territorio da parte dei suoi abitanti attraverso assemblee comunitarie.

giovedì 25 gennaio 2018

Noi non temiamo le rovine

L'umanizzazione del pianeta e dell'universo naturale, l'umanizzazione dell'uomo stesso, è il possibile, che traspare al di là dei diagrammi del collasso capitalista, al di là della mostruosità imposta al mondo e agli uomini da un modo di produzione necrotizzante, fondato sulla valorizzazione del falso.
La produzione di profitto mortifero e di sottouomini ad esso incatenati deve avere fine, o finirà ogni progetto umano. Questa certezza realizza e incarna, nel movimento reale, il contenuto delle teorie rivoluzionarie del passato superando la loro forma ancora idealisticamente coscienziale. Il passaggio in armi dalla speranza alla certezza, dalla coscienza alla esperienza vivente, alla vera gnosi, è la transizione necessaria.
La certezza fatica a liberarsi dalle forme vuote in cui l'ideologia la trattiene; a mano a mano che la falsa guerra sceneggiata dalla ideologia mostra ai rivoluzionari la corda con cui strozza il loro furore, la certezza avanza, la vera guerra procede.
È questo il compito della critica radicale.
Noi illustreremo al mondo nuovi principi traendoli dai principi del mondo.
Fatica e lotte di uomini hanno strappato ai principi del mondo il segreto di un mondo finalmente possibile, hanno fatto propria la coscienza di una speranza il sogno di una cosa. Si tratta oggi di infrangere l'ultimo diaframma, di fare proprio il mondo stesso.

Noi non temiamo le rovine, erediteremo la terra, questo è certo. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi e questo mondo ogni momento che passa cresce. Sta crescendo proprio adesso che sto parlando con voi”.

Buenaventura Durruti

domenica 21 gennaio 2018

Lo Stato, il privato e la TAV

L’incompatibilità assoluta del capitalismo nella sua fase attuale e del sistema professionalizzato dei partiti con le forme borghesi democratiche di prima è parecchio evidente, dato che all’interno di istituzioni verticali nelle mani di partiti che funzionano come imprese è semplicemente impossibile che un interesse di classe possa essere presentato come generale, ovvero che riesca a separarsi anche solo di un minimo dagli interessi privati. Nelle società di massa degradate manca l’elemento unificatore, la paura del nemico di classe e al suo posto troviamo il bottino rappresentato dai fondi pubblici, motivo per cui si crea una gerarchia di interessi particolari in cui predominano senza alcun ostacolo le oligarchie economiche, che formano assieme alla casta politica di qualunque livello una specie di associazione mafiosa. In realtà l’interesse della classe dominante è una giustapposizione di interessi diversi privi di un denominatore comune, che provengono sia dall’impresa privata sia dalla burocrazia partitica. La partitocrazia è il tipo di parlamentarismo tipico della globalizzazione, in cui la casta politica ha occupato tutti gli organismi istituzionali e si è impadronita dell’intero erario pubblico e di tutte le risorse statali, dilapidandole in accordo con gli interessi del partito, della corrente, del gruppo o del clan che le gestisce. La corruzione non è necessaria: delle leggi create ad hoc per fare in modo limpido il lavoro che prima facevano bustarelle, borse e valigie piene di denaro in biglietti. Il privato ha invaso il pubblico a tal punto che qualsiasi piano “nazionale” non riflette una politica di Stato nel senso proprio del termine bensì un progetto arbitrario di investimenti il cui beneficiario esclusivo è la lobby corrispondente. Da qui deriva la segretezza delle operazioni e il disprezzo per l’opinione delle persone coinvolte. Per quanto riguarda le infrastrutture, la ricchezza in effetti viene accaparrata dalle imprese costruttrici, la lobby di “cemento, mattone e sabbia”. Lo Stato si incarica semplicemente di coprire gli sprechi sottraendo il denaro da altre parti oppure direttamente attraverso l’aumento delle tasse. Le conseguenze economiche sono sempre disastrose, tuttavia la falsa corrispondenza tra la prosperità e l’abbondanza delle infrastrutture è penetrata a fondo nella coscienza dei cittadini sudditi. La popolarità dell’Alta Velocità, scommessa irragionevole per il trasporto elitario dei passeggeri, è un esempio vivente di come questo mito persiste. La realtà invece è esattamente l’opposto.

sabato 20 gennaio 2018

Come insegnano ormai i bambini

Come insegnano ormai i bambini, il piacere di vivere non deve più affermarsi pagando un tributo alla retorica della sua sconfitta. A dispetto delle antiche oppressioni, l’amore di sé, quale lo scoprono l’infanzia e la nuova coscienza degli amanti irradia da una potenza di cui la potenza industriale, perfettamente concentrata nell’irradiazione nucleare, sarà stata il mortale surrogato. È il motivo per cui consideriamo l’esigenza amorosa di essere tutto, in ogni tempo e ovunque, come l’unica alternativa alla società mercantile.
O l’economia porterà a compimento la perdizione del vivente, o la società si fonderà sulla predominanza dei desideri affrancati dall’universo mercantile. O noi periremo nella stupidità crescente del profitto e del prestigio promozionale, o il primato del godimento porterà alla rovina il lavoro attraverso la creatività, lo scambio mediante il dono, il senso di colpa tramite l’innocenza, la volontà di potenza grazie alla volontà di vivere, gli appagamenti angosciati per mezzo del ritmo naturale del piacere e del dispiacere.
Una scommessa aperta. Tra la tendenza ad abbandonare il meglio per il peggio, e la trasmutazione dell’Es individuale. Tra il disprezzo di sé, questa virtù di cui si onora lo schiavo, di rimettersi ad una guida – politico, prete, medico, psicanalista, pensatore, istituzione, governo -, e un’arte di godere, pazientemente decantata dalle impregnazioni della morte.
Il movimento del Libero Spirito ha posto la domanda nel momento storico in cui il processo mercantile iniziava la sua accelerazione. La fine del XXI secolo sentirà la risposta nell'esplosione finale della macchina per snocciolare l’individuo. Ma nelle parole pericolosamente strappate al linguaggio di Dio, e nelle parole trascinate, ai nostri giorni, nella derisione di una sopravvivenza insignificante e di una vita che non ha un senso riconosciuto, è lo stesso ciclone del godimento che, con la sua violenza intemporale, spazza la storia. La ricerca di un amore da inventare nella pura materia dell’umano fonda la misura universale di una società radicalmente nuova.

mercoledì 17 gennaio 2018

Adeguarsi

L’angoscia della strada, i gesti abusivi. Le ossa sfinite e morbide. Le donne senza volto, rigide, dai capelli spezzati. Un rottamaio, dove tutto è così, dove ad ogni domanda si prescrive un’iniezione diversa.
Dove ogni gesto personale è fuori luogo.
Non si possono aprire sempre casi diversi. Un terreno dove l’aria si rifiuta di entrare. Silenzio.
Nello specchio tutta la rabbia, le urla, le voci, le parole di questi vuoti a perdere. Morte e distruzione si moltiplicano come la cantilena della buonanotte. Domani sarà uguale, ti ci abituerai.
Il sorriso le si rifletteva sul vetro della scatola che le stavano portando via.
ADEGUARSI. Lei non vedeva persone a cui adeguarsi, ma soprammobili, bambole di pezza, ceramiche e secondini puliti.
È così che si è trovata nel buio della stanza, un calore vaporoso, intorno al letto confusione, scintillante, metallica, meccanica.
Dentro è densa, un freddo contenitore. Malata, immobile, pesante, piombo. Polvere di vetro scivola nelle vene, incapace di parlare o cantare. Il bianco guardiano entra, i polsi le dolgono, è bianco, distaccato e bisognoso. Le dà la medicina della salute, senza sapere e capire che soffriva di un qualcosa di diveso, incomprensibile alla sua maniacale voglia di decodificazione.
Sono condannati ad incontrarsi.
Di suo, non sentiva più nulla, al tatto le sfuggivano i vestiti, le capsule, le ossa, il sangue. La sua personalità che non voleva reprimere e trattenere, era in serio pericolo. Tra quelle mura insonorizzate rischiava di appiattire il suo ENCEFALOGRAMMA.
Qualcosa si frantuma, non si adegua, ha bisogno di un rasoio, non si adegua, è sudata.
Quando si è alzata, ha tagliato i suoi piedi, c’era sangue dappertutto, ma non ha provato niente, aveva bisogno di un rasoio per tagliare l’atmosfera.
Desiderano che si adegui, ma la scatola di vetro è stata rotta.
Tutti kazzi vostri.


(Tratto da: Luna Nera Contro la psichiatria Villa Azzurra Giugno 1992)

sabato 13 gennaio 2018

La nascita del sistema rappresentativo

«[…] Il sistema rappresentativo fu cosa ignota alle antiche civilizzazioni. Le sue origini rimontano all’oscura epoca del medioevo, allorché il cristianesimo e la feudalità si dividevano la direzione del gregge umano. La posizione dei “villani” diventava alle volte impossibile, essi delegavano a qualcuno dei loro a presentare la lista delle loro lamentele al signore. Questi poveri paria personificavano allora, di fronte al diritto assoluto e divino, la miserabile esistenza della gleba governata. Era la prima rappresentanza; l’Inghilterra ne fu la culla. Appena terminata la sua missione (ammesso che ne fossero tornati vivi uscendo indenne all’ira a volte omicida del signore del feudo, aggiungiamo noi), questa misera delegazione si scioglieva; e non si sa precisamente per quale oscuro lavoro dei secoli, si sia trasformata nelle potenti assemblee parlamentari odierne […]» (Tratto da Cronaca Sovversiva, Barre U.S.A., 7 ottobre 1905).
Negli archivi della monarchia inglese, si trovano le documentazioni di più umili e tutt’altro che democratiche origini del sistema rappresentativo. Vi si trova, per esempio, un’ordinanza  del re Enrico III, che risale al 1254.
I nobili –i Lords temporali e spirituali- vanno ancor oggi personalmente e di diritto a sedere in parlamento, dove rappresentano se stessi e la classe che insieme costituiscono. Col documento su citato, Enrico III invitava il Lords a prendere il loro posto nel Parlamento e, inoltre impartiva agli sceriffi di tutte le contee del regno, l'ordine di provvedere a che «si presentino davanti al Consiglio del Re due buoni e discreti Cavalieri che gli uomini della contea avranno scelto a questo scopo, in luogo e vece di tutti loro, onde esaminare insieme a i cavalieri delle altre contee quali aiuti dare al re». (Da Enciclopedia Britannica, voce: Representation).
Qui si trova già l'essenza del sistema rappresentativo in regime di privilegi economici e politici. Non sono i "villani" che prendono l'iniziativa di mandare i propri rappresentanti al re, ma è il re che ordina, per mezzo dello sceriffo, l'invio dei rappresentanti al Consiglio, e non vuole che siano villani, prescrive che siano "buoni e discreti cavalieri". Il re vuole che i fondi che saranno stanziati in suo favore, abbiano il consenso dei rappresentanti del popolo, ma lo sceriffo deve vigilare a che tali rappresentanti siano persone perbene, cioè ligie al re. In altre parole, il re si preoccupa non già che i rappresentanti eletti dalle contee rappresentino gli uomini delle contee stesse; si preoccupa, invece, rappresentino gli interessi del re.
La finzione della rappresentanza politica è già trasparente in quel vecchio documento. Nella generalizzazione attuale del sistema rappresentativo cambiano i nomi, ma la sostanza è la stessa.
Provate a sostituire le seguenti parole con queste altre:
il re con lo Stato (cioè banchieri, assicuratori, imprenditori, petrolieri, i padroni e i poteri forti insomma);
il Consiglio del Re con Camere Deputati e Senato;
gli sceriffi del re con i partitir politici o con i sindacati;
i buoni e discreti cavalieri con i candidati delle liste elettorali o sindacali;
i villani con gli elettori (operai, contadini, pescatori, impiegati, precari, cassintegrati, disoccupati, licenziati, casalinghe, pensionati, studenti … ecc)
aiuti da dare al re con tasse o più ore di lavoro per il padrone;
portate adesso la scena dal 1254 al 2018 … Cosa c’è di diverso?
Il popolo sovrano elegge i suoi rappresentanti, ma i suoi rappresentanti (come i buoni e discreti cavalieri di Enrico III d’Inghilterra) devono essere innanzitutto buoni cittadini, devoti all’ordine costituito, cioè rispettosi del diritto della proprietà privata, dei monopoli capitalistici della ricchezza sociale, dell’autorità dello Stato, vale a dire devono rappresentare non la volontà, le aspirazioni o gli interessi di coloro che li eleggono, ma il dominio, l’autorità e i privilegi che l’ordine costituito consacra e protegge.
Il sistema rappresentativo è, in ultima analisi, un congegno ideato per dare ai governanti, privati  dall'investitura divina, le apparenze di un'investitura popolare. Il potere politico ha le sue radici nel potere economico e, finché questo rimanga monopolio di piccole minoranze onnipotenti, è fatale che sia utopico sperare nel trionfo di una vera democrazia, dove la gestione della cosa pubblica sia veramente opera del popolo e beneficio del popolo stesso. Con la rappresentanza il popolo si crede libero, ma si sbaglia molto; lo è solamente durante le elezioni dei membri del Parlamento, finite le elezioni ritorna ad essere schiavo, ritorna a non essere più nulla.

venerdì 12 gennaio 2018

Nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà…

Stornelli d’esilio, meglio conosciuta come Nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà, è una canzone di Pietro Gori scritta nel 1895. La prima pubblicazione risale al 1898, sulla rivista degli anarchici italiani profughi in America “La Questione sociale”, ed è diventata l’inno dell’internazionalismo libertario.
Pietro Gori potrebbe averla scritta sia all’epoca del primo esilio - quando fu espulso dalla Svizzera dove era riparato per evitare l’arresto, accusato di essere l’ispiratore dell’attentato di Sante Caserio al presidente francese Sadi Carnot – sia a quella del secondo esilio, quando Gori fu costretto a fuggire in Sud America a seguito della repressione scatenata a partire dai moti milanesi del 1898.

O profughi d’Italia, a la ventura
si va senza rimpianti né paura.
Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ed un pensiero
Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ribelle in cor ci sta.
Dei miseri le turbe sollevando,
fummo d´ogni nazione messi ai bando,
Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ed un pensiero
Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ribelle in cor ci sta.
Dovunque uno sfruttato si ribelli,
noi troveremo schiere di fratelli.
Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ed un pensiero
Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ribelle in cor ci sta.
Raminghi per le terre e per i mari,
per un´idea lasciammo i nostri cari.
Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ed un pensiero
Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ribelle in cor ci sta.
Passiam di plebi varie fra i dolori,
de la nazione umana precursori.
Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ed un pensiero
Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ribelle in cor ci sta.
Ma torneranno, o Italia, i tuoi proscritti,
ad agitar la face dei diritti,
Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ed un pensiero
Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ribelle in cor ci sta.

sabato 6 gennaio 2018

Sulla pedagogia libertaria

Il lavoro degli insegnanti è quello di dare al popolo il mezzo intellettuale alla rivolta”.
Louise Michel

Conoscere e conoscersi sono azioni che vanno di pari passo o, perlomeno, così dovrebbero andare. Poiché non esiste cosa da noi osservata o con la quale entriamo in varia forma in relazione, che non sia quel che noi vediamo o pensiamo della stessa cosa, è evidente come il desiderio di conoscere ciò che è fuori di noi porti con sé la possibilità di conoscere anche una parte di noi stessi. È una caratteristica che ci contraddistingue, un modo di fare.
Ed è così, o così dovrebbe essere, anche e soprattutto all’interno di un processo educativo che sostanzialmente è fatto di relazioni, di dialoghi, di domande e scoperte che, se usate al meglio delle loro possibilità creative, fanno della scuola una circostanza meravigliosa.
Bello sarebbe se questa circostanza si trasformasse in passione pedagogica, cioè nel desiderio di provare a mettersi in gioco, nonostante la costante spinta che la classe insegnante subisce a trasformarsi in demotivati proponitori di nozioni facilmente verificabili con crocette messe sul quadratino giusto.
Cos’è la cultura, se non critica e capacità di discussione di ciò che accade? Che cos’è l’arte, se non ribellione al proprio tempo e proposta di altri sguardi sul mondo? Cos’è la coscienza, se non il rimettere continuamente in causa ciò che diamo per scontato e per vero? E la scuola non dovrebbe essere il tempio di cultura, arte e scienza?
Bisogna dare ai ragazzi il tempo di perdere tempo. In questo tempo veloce, ansioso addirittura, in cui la cosa più importante sembra essere sempre quella di raggiungere il risultato in programma, poter sostare a lungo su un argomento, lavorare intorno ad un’opera d’arte o ad un problema geometrico tutto il tempo che ci vuole è chiaramente sintomo di qualità. Lenta e meticolosa costruzione di comprensioni corali che si sviluppano da dibattiti gestiti in classe da un/a rispettoso/a maestro/a che restituisce ai bambini ed alle bambine il valore della loro voce e del loro pensiero.
Si ha il vizio di separare tutto precocemente mentre ogni giornata dovrebbe servire ad arricchire il nostro immaginario e quello dei ragazzi intorno a quella tensione al conoscere che vede l’unità di tutto il sapere e che caratterizza la nostra specie. Dovrebbe essere così anche per noi che i banchi ce li siamo lasciati alle spalle da un pezzo, invece succede che la scuola strappi l’imparare a leggere dall’amore per la lettura, il saper contare dalla meraviglia che la matematica racchiude, senza rendersi conto che quello che non succede in quegli anni spesso poi non si recupera più.
La scuola per i più piccoli, ma non solo, è un grande sforzo; ciò che a noi appare scontato non lo è per loro e confrontarsi con quelle che sono state le grandi scoperte dell’umanità, le grandi rivoluzioni che furono, ad esempio, il calcolo e la scrittura, richiede che vengano proposte in maniera viva, che li si accompagni a ragionare sull’origine di queste “comuni” pratiche umane, affinché se ne approprino col gusto della scoperta, di ciò che trasforma il modo di vedere il mondo.

giovedì 4 gennaio 2018

Contro l'iniquità, per la libertà

Non solo si può essere contro la privatizzazione degli strumenti, dei beni e dei saperi; bisogna esserlo sempre, anche a rischio di apparire velleitari o utopisti. Noi crediamo che tutto vada messo in comune, in maniera orizzontale. Per questo siamo contro il copyright e contro la proprietà privata (del singolo, dell'azienda o dello Stato) degli strumenti di produzione della ricchezza economica e culturale di una comunità. Solo così realizzeremo la vera uguaglianza: dentro, e non contro, la libertà di tutti e di ciascuno. 
Dobbiamo essere liberi, perché uguali. Dobbiamo essere uguali, perché liberi. Dobbiamo essere in uno stato di parità, esercitando ciascuno le proprie libere inclinazioni ed aspirazioni senza compromettere il bene della comunità.
Combattere l'iniquità significa combattere per la libertà. In ogni luogo di lavoro e di vita. Autorganizzarsi e autogestirsi, senza delegare. La delega può esserci, sia chiaro: ma deve essere momentanea, a breve termine e sempre revocabile. Altrimenti diventa burocrazia: nel pubblico o nel privato, la burocrazia è sempre negativa. Perché trasforma la libertà in sopruso e l'uguaglianza in appiattimento. Perché alimenta il privilegio e  mortifica il merito e le capacità.