..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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venerdì 27 dicembre 2019

Il partito della morte

Quando il lavoro prende il posto della raccolta delle risorse che la terra, l'acqua, le foreste, il vento, il sole, la luna, le stagioni offrono all'ingegnosità umana, esso sostituisce alla relazione simbiotica degli uomini e della natura un rapporto di violenza. L'ambiente e la vita che ne deriva scadono al rango di paesi conquistati e da riconquistare senza sosta. Il produttore li tratta da ribelli da subdoli nemici.
La natura ha conosciuto la stessa sorte della donna, ammirabile come oggetto, disprezzabile come soggetto. E' stata violentata, strapazzata, saccheggiata, spezzettata in proprietà, mortificata giuridicamente, esaurita fino alla sterilizzazione. Il corpo allenato al va e vieni dei muscoli e alle ridondanze dello spirito non è forse il trionfo della civiltà sui "bassi istinti!, cioè sulla ricerca dei piaceri?.
È risaputo come tante virtù che governano la felicità abbiano propagato il gusto di distruggere e di distruggersi. Quando la fabbrica del lavoro universale non assorbiva l'energia libidica, l'eccedente si sfogava in conflitti di interesse e di potere che le grandi Cause, tanto diverse quanto sacre, portavano a passeggio di bandiera in bandiera. Tuttavia anche la natura umana si consuma e l'edonismo. che riduce la soddisfazione dei desideri al consumo di piaceri surgelati, è buon contemporaneo delle foreste moribonde, dei fiumi senza pesci e dei miasmi nucleari.
Il lavoro ha talmente separato l'uomo dalla natura e dalla sua natura che ormai niente di vivente si può investire nell'economia senza che prenda il partito della morte. È concepibile che appaiono altre direzioni e che la gratuità, un tempo tacciata di irrealismo sia ormai la sola realtà da creare.

martedì 24 dicembre 2019

Stragi di Stato: da Ferrero a Pinelli. Gli anarchici non dimenticano.


Torino, 18 dicembre 1922. Le squadracce fasciste al comando di Pietro Brandimarte, torturarono e assassinarono sindacalisti, anarchici, socialisti. Tra loro Pietro Ferrero, della Unione Anarchica Italiana, segretario della FIOM. 
Umiliato e pestato sotto la Camera del Lavoro in via Cernaia, venne legato ed un camion e trascinato sino al monumento a Vittorio Emanuele. Lì, più morto che vivo, venne finito dai fascisti. 
La strage di Torino fu l’atto finale di una lunga ritorsione, cominciata dopo l’occupazione delle fabbriche. 
I padroni avevano avuto paura, paura che gli operai in armi passassero all’insurrezione, espropriando le fabbriche e continuando a far sa se. 
Pietro Ferrero era nato a Grugliasco (Torino) il 12 maggio 1892. Durante la Prima guerra mondiale era stato attivo nelle lotte operaie culminate prima nell’insurrezione contro la guerra del 1917 in Barriera di Milano, poi nel biennio rosso. Fu attivo nella CGL contro l'ala riformista del sindacato, militando nella corrente rivoluzionaria. Nel 1917, insieme ai compagni anarchici della Barriera di Milano, partecipò ai moti di Torino contro il padronato e la guerra; nel 1919 venne eletto segretario della sezione torinese della FIOM. Nell'aprile 1920 fu attivo nello "sciopero delle lancette" contro la decisione unilaterale della Fiat di spostare l'orario di lavoro dall'ora solare a quella legale e negli eventi che porteranno all'occupazione delle fabbriche nel settembre 1920, durante il biennio rosso. Con Garino si opporrà all’abbandono delle fabbriche voluto dalla gran parte della dirigenza della FIOM. 
Sapeva che se avessero mollato, il prezzo sarebbe stato durissimo. Licenziamenti, reparti confino, pestaggi, omicidi. 
In piazza XVIII dicembre, di fronte alla vecchia stazione di Porta Susa, c’è una lapide che ricorda le vittime dello squadrismo fascista. 
Pochi sanno è che nel dopoguerra Brandimarte venne reintegrato nell’esercito e seppellito con gli onori militari. 
Nulla di cui stupirsi. Il comunista Togliatti, ministro della giustizia del primo dopoguerra, amnistiò i fascisti, che aveano imprigionato, torturato e ucciso partigiani e antifascisti. 
Gli antifascisti imprigionati per aver combattuto il fascismo fuori dalle date ufficiali della Resistenza, restarono in carcere per decenni. La Resistenza venne imbalsamata quando ancora era nell’aria la polvere da sparo, quando viva era la memoria degli anni di Salò, dei deportati e degli uccisi.  
L’Italia democratica imprigiona i partigiani, libera e onora i fascisti.  
Milano, 15 dicembre 1969. L’anarchico Pino Pinelli viene ucciso nei locali della questura di Milano e gettato dal quarto piano per simulare un suicidio. Tre giorni prima una strage di Stato, eseguita da fascisti agli ordini del governo, aveva fatto 16 morti nella sede della banca dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano. La questura e i media puntarono il dito sugli anarchici: Pietro Valpreda farà tre anni di carcere prima che la pressione delle piazze porti alla sua liberazione.  
Questore di Milano era Marcello Guida, già capo del confino di Ventotene, dove vennero rinchiusi centinaia di antifascisti, molti dei quali anarchici.  
Per quella strage non ci sono colpevoli, l’omicidio di Pinelli venne archiviato come “malore attivo”. Lo Stato non processa se stesso.  
Il fascismo non finisce il 25 aprile del 1945. La Repubblica teme che i semi sovversivi piantati durante la resistenza germoglino: i funzionari, poliziotti e giudici fascisti restano al loro posto. 
Nel 1969 un vento di libertà scuoteva le fabbriche, le scuole, i quartieri. La strage di piazza Fontana, preparata dall’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, fu la risposta di chi sperava in una clima di terrore, per imporre una svolta autoritaria. 
Non ce la fecero. Tutti sapevano chi era STATO. 
Fascisti vecchi e nuovi furono la manovalanza di una trama tessuta da chi temeva che i movimenti di quell’anno potessero prendere una piega sovversiva.
Quando i movimenti sociali fanno paura, lo Stato reagisce con la violenza.
La democrazia reale ammette il dissenso, purché resti semplice opinione, mero esercizio di eloquenza, banale gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa azione diretta, se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, la democrazia reale mette in campo ogni arma per piegare chi ne nega la legittimità.
Quando vengono messi in pericolo proprietà privata, gerarchia, tribunali e polizia lo Stato democratico colpisce a fondo.
A volte bastano le regole di un gioco truccato alla partenza, a volte servono squadracce e fascisti con le bombe. A volte basta un carabiniere con una pistola, come a Torino il 18 dicembre del 1922, a Milano il 15 dicembre del 1969, a Genova il 20 luglio del 2001.

giovedì 19 dicembre 2019

Valpreda è colpevole


Pietro Valpreda è colpevole di NON aver messo le bombe della strage di Milano, ma i suoi crimini sono molto più gravi dell’assassinio di sedici persone innocenti: la Repubblica Italiana lo ha già condannato senza possibilità di appello né di riabilitazione.
Pietro Valpreda è nato colpevole. Colpevole come tutti quelli che nascono in una famiglia, in una casa, in un quartiere poveri di una città industriale, colpevole come tutti i figli degli sfruttati. Ma Pietro Valpreda ha voluto trasformare questa condizione di colpevolezza in una scelta criminale rifiutando la propria condizione di sfruttato, rifiutando di passare dalla parte degli sfruttatori e dei loro servi. Pietro Valpreda è colpevole. Pietro Valpreda è la belva umana colpevole di aver scelto la povertà. Colpevole di avere i capelli lunghi. Colpevole di non avere amicizie influenti. Colpevole di non portare la cravatta. Colpevole di non timbrare un cartellino. Colpevole di non essere una spia. Colpevole di essere un ballerino. Colpevole di non essere un ballerino famoso. Colpevole di non essere un violento. Colpevole di vivere le proprie idee. Colpevole di non avere in tasca la tessera di un partito. Colpevole di credere nella rivoluzione proletaria. Colpevole di essere un anarchico. COLPEVOLE DI ESSERE UN UOMO.
Cosa importa se non è lui che ha messo le bombe, cosa importa? Pietro Valpreda è il mostro che deve essere schiacciato: un insulto, una provocazione vergognosa che lo stato borghese deve cancellare, per cercare di cancellare tutto quello che Valpreda rappresenta.
Non ci sono inchieste, libri, petizioni, interpellanze parlamentari, giudici integerrimi che possono far riconoscere l’innocenza di Pietro Valpreda. Sta a noi compagni gridare così forte da fermare per la paura la mano del boia. Noi non vogliamo celebrare un altro martire, noi ti vogliamo tra di noi, colpevole tra i colpevoli, compagno tra i compagni per continuare la lotta, per continuare la vita. La vita di Pietro Valpreda e dei compagni che lo stato italiano sta assassinando.
(Tratto da A Rivista Anarchica Anno II N.2 Febbraio 1972)

lunedì 16 dicembre 2019

Lunedì 16 dicembre. Strage di Stato. 50 anni di criminalità del potere


Sono passati 50 anni dalla strage di piazza Fontana.
Il 12 dicembre 1969 una bomba esplose alla Banca Nazionale dell’Agricoltura: uccise 17 persone e ne ferì 88.
Il 1969 fu l’anno in cui lo scontro di classe fu il più intenso e radicale nella storia della Repubblica.
Quella di piazza Fontana fu una strage di Stato, la prima delle tante che negli anni successivi insanguinarono l’Italia.
Dopo la strage si scatenò una durissima repressione contro gli anarchici: centinaia di compagni furono fermati e trattenuti in questura.
Uno di loro, Giuseppe Pinelli, precipitò dal quarto piano della questura di Milano. La polizia liquidò la faccenda come suicidio, per coprire l’assassinio di Pino.
Pietro Valpreda, accusato della strage, venne liberato dopo tre anni di prigione.
Oggi in tanti provano a riscrivere quella storia.
La verità su quella vicenda, che spezzò per sempre qualsiasi illusione sulla Repubblica nata dalla Resistenza, è patrimonio di una memoria resistente che i movimenti continuano tenacemente ad alimentare.
Oggi come allora sappiamo che “la strage è di Stato – Pinelli è stato assassinato – Valpreda è innocente”!
Oggi le stragi di Stato continuano… Nel Mediterraneo, per le strade delle nostre periferie, nei cantieri dove si muore di lavoro, sulle montagne dove muoiono i migranti…
Ne parliamo con Massimo Varengo, testimone e protagonista di quei giorni
alle ore 21 alla Federazione Anarchica in corso Palermo 46

domenica 15 dicembre 2019

Giuseppe Pinelli

Nasce a Milano il 21 ottobre 1928 da Alfredo e Rosa Malacarne. Nel 1944, sedicenne, partecipa alla Resistenza antifascista come staffetta della BGT Franco, collaborando con un gruppo di partigiani anarchici, che costituiscono il suo primo tramite con il pensiero libertario. Nel 1954 entra nelle ferrovie come manovratore. Nel 1955 si sposa con Licia Rognini. Nei primi anni ’60 si costituisce a Milano un gruppo di giovani anarchici (Gioventù libertaria). Nel 1965 dopo una decina di anni senza sede, se ne apre una in viale Murillo, Pinelli è tra i fondatori del circolo Sacco e Vanzetti. In seguito ad uno sfratto, gli anarchici milanesi cambiano sede e il primo maggio del 1968 viene inaugurato il circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, sito in piazzale Lugano, nel periferico quartiere operaio della Bovisa. Siamo nel ’68 e il vento della contestazione che soffia dalla Francia arriva anche a Milano. L’ambiente anarchico milanese è in pieno fermento, in molte scuole superiori nascono nuclei libertari, anche nelle fabbriche ci sono operai anarchici e frequenti sono i volantinaggi di primo mattino. Gli anarchici milanesi sentono la necessità di una seconda sede, questa volta nella zona Sud di Milano. Tra i più impegnati nella sistemazione e nell’apertura del Circolo di via Scaldasole c’è il Pinelli. Il 25 aprile 1969 due attentati colpiscono la Stazione Centrale e la Fiera. Le indagini si indirizzano verso ambienti libertari e alcuni anarchici vengono arrestati: è l’inizio di una campagna di criminalizzazione, che trova nuova linfa in agosto, quando alcuni attentati ai treni vengono ancora attribuiti agli anarchici. Pinelli e il gruppo Bandiera Nera danno vita sull’esempio della Black Cross inglese di quei mesi e della Croce Nera russa degli anni ’20, alla Crocenera anarchica, specificatamente dedita alla solidarietà concreta con i compagni detenuti, ma anche alla pubblicazione di un bollettino di controinformazione. Pinelli è l’anarchico più in vista e frequentemente è in questura per richieste di autorizzazione ecc. il suo interlocutore è perlopiù un giovane commissario di polizia, informale nei modi: Luigi Calabresi. Così, quando nel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1969, subito dopo l’attentato di piazza Fontana, Calabresi si presenta al Circolo di via Scaldasole e invita Pinelli a recarsi in questura, questi acconsente senza problemi.
In questura Pinelli incontra, in un grosso salone, gran parte degli anarchici milanesi, fermati come lui per chiarire il proprio alibi. Entro 48 ore, limite massimo concesso dalla legge di allora per il fermo di polizia, molti fermati vengono rilasciati, alcuni spostati nel carcere di San Vittore. Pinelli invece viene trattenuto in questura aldilà del limite legale. Viene interrogato. Poi intorno alla mezzanotte tra il 15 e 16 dicembre, il suo corpo vola da una stanza dell’Ufficio politico al quarto piano e si sfracella a terra. Pinelli muore a Milano all’Ospedale Fatebenefratelli nella notte tra il 15 e 16 dicembre 1969. La vicenda politico giudiziaria del suo assassinio, intrecciata con l’intera storia della strage di piazza Fontana, in particolare con il caso Valpreda, diventerà negli anni un vero e proprio boomerang per il potere. I maldestri tentativi di mettere a tacere il tutto, culminati nella tesi del malore attivo proposta dal giudice Gerardo D’Ambrosio, non faranno che evidenziare quella verità che non hanno ancora trovato spazio nelle carte ufficiali.


mercoledì 11 dicembre 2019

Perché le bombe (12 dicembre 1969)

Il 12 dicembre 1969 le forze di sinistra scoprono che in Italia c’è la repressione.
È infatti in quella data che i cortei e le manifestazioni gridano lo slogan tardivo la repressione non passerà mentre purtroppo era già passata e le bombe ne erano l’apice.
La repressione era già iniziata in modo chiaro e inequivocabile. Gli anarchici, colpiti per primi dalle manovre reazionarie con gli arresti dei compagni incarcerati per gli attentati del 25 aprile 1969, avevano capito cosa stava accadendo. Già nel giugno 1969 sul numero uno del bollettino dell’organismo assistenziale per le vittime politiche “Crocenera anarchica” scrivevano che lo scopo delle bombe fasciste camuffate da anarchiche era di: suscitare la psicosi dell’attentato sovversivo per giustificare la repressione poliziesca e l’involuzione autoritaria; gettare discredito sugli anarchici e su tutta la sinistra. Essenziale per ottenere il secondo risultato e utile anche per il primo è di fare qualche ferito innocente o meglio ancora qualche morto. Nel numero di agosto approfondendo l’analisi, la Crocenera si domandava: “Dove vige un regime autoritario, alla vigilia della visita di qualche importante uomo di stato vengono effettuati dei controlli particolari, teste calde, sediziosi ed anarchici vengono trattenuti dalla polizia, chi per accertamenti, chi per pretesi crimini. Ci si domanda allora, in questo terribile 1969 chi diavolo sta arrivando in Italia?” La risposta era una sola: “Non ragioniamo certo come coloro che pensano ad un colpo militare alla greca, perché in Italia il colpo di stato è già stato attuato in maniera più italiana e consona allo stato delle cose”. Ma il discorso si spingeva più a fondo e coerentemente all’analisi sviluppata coglieva, purtroppo, nel segno indicando l’unica alternativa che restava alla classe dominante: creare la situazione di emergenza, la situazione intollerabile e lo stato di necessità in cui qualsiasi nefandezza è legale, creare la disperazione che faccia salutare come liberazione la perdita di libertà.
Queste parole si persero però nell’indifferenza e sempre sul bollettino della Crocenera anarchica, subito dopo le bombe, gli anarchici scrivevano: “La strage di Piazza Fontana non ci è giunta del tutto inattesa. Da molto tempo prevedevamo e temevamo un attentato sanguinario. Era nella logica dei fatti. Era nella logica dell’escalation provocatoria iniziata il 25 aprile. Per giustificare la repressione, per seminare la giusta dose di panico, per motivare la diffamazione giornalistica e scatenare l’esecrazione pubblica ci voleva del sangue. È il sangue c’è stato”.
Purtroppo come avevamo previsto, la repressione mascherata da democratica tutela dell’ordine contro gli opposti estremismi ha continuato la sua marcia.


(Tratto da A Rivista Anarchica, anno I numero 7, settembre-ottobre 1971)

martedì 10 dicembre 2019

Il termine COMPAGNA/O


Dal XIII secolo fino alla rivoluzione francese, il termine compagno, o compagna, di arte indicava l'artigiano operaio che, dopo aver terminato il suo apprendistato di parecchi anni al servizio di un maestro artigiano-operaio, aveva dimostrato le sue capacità realizzando un "capolavoro". La storia del compagnonnage, lunga e molto confusa, ha ben poca importanza per la conoscenza delle origini del socialismo e dell'anarchismo - salvo per quanto l'anarchismo individualista ha trovato un alimento in taluni concetti (specie economici) venuti direttamente dalla tradizione del lavoro artigianale e della sua organizzazione. L'apparizione delle manifatture, e poi delle fabbriche, facendo nascere prima gli operai proletari e poi una classe operaia, ha respinto il compagno-artigiano o verso la piccola borghesia commerciante, o verso le cooperative di produzione della piccola borghesia commerciante,o verso le cooperative di produzione della piccola industria d'arte e marginale, dato che questi due ambienti si sono dimostrati particolarmente favorevoli a un certo umanesimo individualista. L'operaio artigiano ha dei compagni d'arte, l'operaio proletario ha dei compagni, dei camerati. Questi dividono con lui la sua camera (dallo spagnolo camerada); gli altri dividevano il pane. Bisogna segnalare che la differenza tende a sparire. La compagna è la donna con cui si vive. L'uso di questa parola, praticamente abbandonata dai comunisti francesi dagli anni 30, permette: 1) di negare le categorie borghesi (moglie, amante); 2) di inserire nel linguaggio la nozione di uguaglianza dei componenti la coppia.

venerdì 6 dicembre 2019

Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell'uomo


Il movimento operaio tutte le volte che ha saputo fuggire alla demagogia ha fondato le rivendicazioni dei lavoratori sulla dignità del lavoro. Proudhon osava scrivere: "Il genio del più semplice artigiano è altrettanto superiore ai materiali che egli utilizza dello spirito di un Newton rispetto alle sfere inerti di cui calcola le distanze, le masse e le rivoluzioni"; Coloro, che pongono al centro della questione sociale la dignità del produttore in quanto tale, si ricollegano alla stessa corrente di pensiero. Nell'insieme, possiamo essere fieri di appartenere ad una civiltà che ha portato con sé il presentimento di un ideale nuovo. E' impossibile concepire qualcosa di più contrario a questo ideale della forma che ai giorni nostri ha assunto la civiltà moderna, al termine di una evoluzione durata parecchi secoli. Mai l'individuo è stato così completamente abbandonato ad una collettività cieca, e mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai loro pensieri, ma persino di pensare. I termini di oppressori e di oppressi, la nozione di classe, tutto ciò sta perdendo ogni significato, tanto sono evidenti l'impotenza e l'angoscia di tutti gli uomini dinanzi alla macchina sociale, Diventata una macchina per infrangere i cuori, per schiacciare gli spiriti, una macchina per fabbricare incoscienza, stupidità, corruzione, ignavia, e soprattutto vertigine. La causa di questo doloroso stato di cose è molto chiara. Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell'uomo; c'è una sproporzione mostruosa tra il corpo dell'uomo, lo spirito dell'uomo, e le cose che costituiscono attualmente gli elementi della vita umana; tutto è squilibrio.