..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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mercoledì 31 maggio 2017

Quella volta che Jacob si travestì da commissario

Il 1° aprile 1897, a Marsiglia, quattro individui piuttosto giovani ma dal portamento austero entrano nella sede del Monte di Pietà in rue Petit-Saint-Jean. Uno di essi porta la fascia tricolore sul petto e si presenta come commissario di polizia: esibisce un mandato di perquisizione sostenendo che, da informazioni sicure, nel banco dei pegni si trova la refurtiva di un colpo in cui e stato commesso un quadruplo omicidio. L’allibito direttore si inchina all’autorità, è imbarazzato e soprattutto preoccupato per i prestiti  ad alto interesse che concede privatamente sulle polizze, e certo non può escludere che tra i molti gioielli incamerati non vi sia della refurtiva. Il commissario ordina di sprangare le porte e comincia subito l'inventario. Per tre ore i quattro individui sequestrano tutti i pezzi di maggior valore infilandoli nelle valigette, dopo aver annotato le caratteristiche in una lista. Il direttore tenta ogni tanto di discolparsi per l’attività di usuraio, la moglie piange, il suo impiegato maledice il superiore tra i denti per avergli causato una simile vergogna...
Ultimata la requisizione, i tre complici si allontanano con le valigette colme di preziosi mentre il “commissario” infila le manette ai polsi del direttore e dell’impiegato: “Spiacente, ma dovrete chiarire la vostra posizione al magistrato inquirente”, e li fa salire su una carrozza, dando al vetturino l’indirizzo del Palazzo di giustizia.
L’accompagna quindi davanti alla porta del procuratore della Repubblica, intimando ai due di sedere sulla panca del corridoio mentre lui va a “prendere ordini”. L’individuo entra nell’ufficio, richiude la porta, vi resta qualche istante per chiedere un’informazione, torna fuori e toglie le manette al direttore, dicendogli: “La questione è molto, davvero molto grave... Il procuratore in persona vi interrogherà, aspettate qui, verrete chiamati entro breve tempo”. E si allontana tranquillamente, uscendo dal palazzo.
Qualche ora più tardi, il direttore-usuraio e io suo malcapitato impiegato guardano con crescente disperazione i dipendenti che se ne vanno, finche il Palazzo di giustizia resta completamente deserto. Ma non osano chiedere nulla, temono di suscitare le ire del procuratore disobbedendo agli ordini del “commissario”… L’usciere, andando a chiudere il portone, si accorge dei due e chiede cosa diamine stiano facendo lì. Al direttore cedono i nervi: si alza di scatto, piagnucola di non aver fatto nulla di grave, si protesta innocente per quanto riguarda la refurtiva e minimizza i guadagni come usuraio, implora, grida, si dispera. L'usciere, stupefatto, corre ad avvertire il giudice istruttore, l'ultimo rimasto nel palazzo. Questi, già in ritardo per una cena con ospiti a casa sua, va su tutte le furie e ordina di sbattere in cella i due sventurati: qualche reato devono pur averlo commesso se si trovano in quella situazione, tanto vale che meditino una notte dietro le sbarre, l’indomani si deciderà. Condotti in prigione singhiozzanti e prostrati, il direttore e l’impiegato saranno più tardi interrogati da un brigadiere della gendarmeria, che dal magma di assurdità e discorsi incoerenti proferiti, tra i quali emergono comunque stranezze da chiarire, intuisce qualcosa di bizzarro, che assomiglia a una colossale beffa. Avverte le autorità, e solo il giorno dopo il mistero è svelato: mai in città si era ordita un'impresa criminosa più sfrontata e audace, con indubbi risvolti esilaranti. Tutta Marsiglia ne riderà per mesi.
Un'azione degna di Arsenio Lupin. In realtà si chiama Alexandre-Marius Jacob, anarchico francese votato a gabbare l’autorità e i ricchi borghesi derubandoli con astuzia e spettacolarità, senza rinunciare ad un tocco di eleganza in ogni gesto. Quando lo scrittore Maurice Leblanc presenterà nel giugno del 1905 il personaggio di Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo, descrivendolo come “l'uomo dai mille travestimenti, di volta in volta autista, tenore, prelato, antiquario o ufficiale degli ussari, che colpisce castelli e salotti e che una notte, penetrato nella dimora del barone Schorman, ne uscì a mani vuote lasciando un biglietto: 'Tomerò quando mobili e gioielli saranno autentici’..", molti in Francia conoscevano il personaggio a cui si era ispirato, quell'Alexandre-Marius Jacob che tre mesi prima era comparso davanti al tribunale di Amiens, accusato di essere il capo dei Travaílleurs de la nuit, i "Lavoratori della notte”, la banda di anarchici che aveva ridicolizzato polizia e alta società per anni. Al processo, magistrati, avvocati e pubblico erano rimasti allibiti (o affascinati) dalla verve oratoria di Jacob, ironico e cortese, sferzante e sicuro di sé fino all’irriverenza. In un articolo su “L'Aurore" si legge: “Non è più la società, rappresentata da giudici e giurati, che giudica Jacob, il principe dei ladri: è Jacob che fa il processo alla società. È lui, in realtà, a condurre il dibattimento. È sempre lui di scena. È sempre lui a dire l’ultima parola. Formula domande e risposte, presiede, giudica! Ai suoi lati ci sono i gendarmi, ma la loro presenza perde importanza non appena Jacob prende la parola per interrogare il presidente. Va tutto a rovescio!

domenica 28 maggio 2017

Torino: manifestazione antimilitarista

Venerdì 2 giugno
manifestazione antimilitarista
ore 15,30 piazza Statuto - Torino

Contro il business delle armi
Contro la guerra ai poveri, il daspo urbano, i militari nel Mediterraneo e nelle nostre periferie
Contro tutti gli eserciti! Per un mondo senza frontiere, eserciti, sfruttamento, dominio

L'Italia è in guerra. A pochi passi dalle nostre case si producono e si testano le armi impiegate nelle guerre di ogni dove.
Le usano le truppe italiane nelle missioni di "pace" all'estero, le vendono le industrie italiane ai paesi in guerra. Queste armi hanno ucciso milioni di persone, distrutto città e villaggi, avvelenato irrimediabilmente interi territori.
All'Alenia di Caselle Torinese oltre ad un nuovo lotto di cacciabombardieri Eurofighter, da quest'anno produrranno anche droni da combattimento.
La spesa di guerra è 68 milioni di euro al giorno. Pensateci quando aspettate sei mesi una visita specialistica. Pensateci quando aspettate da decine di minuti l'autobus.
L'Italia è in guerra. Truppe italiane sono in Afganistan, in Iraq, in Val Susa, nel Mediterraneo e nelle strade delle nostre periferie, dove i nemici sono i poveri, gli immigrati, i senza casa, chi si oppone ad un ordine sociale feroce.
Il ministro dell'Interno Minniti ha promosso una legge sulla sicurezza urbana che prevede il daspo, il divieto ai senza casa, senza lavoro, senza documenti di vivere in certi quartieri. Un nuovo capitolo della guerra ai poveri, che saranno puniti perché dormono su una panchina o occupano una casa.
Ogni giorno qualcuno muore nel Mediterraneo. Nei prossimi mesi ne moriranno di più: il governo ha deciso di mettere sotto controllo le navi dei volontari che assistono i migranti sui barconi. Presto guardia costiera e militari imporranno la loro presenza sulle imbarcazioni. A chi non ci sta verrà vietato di approdare in Italia.
L'Italia è in guerra. Ma il silenzio è assordante.
La retorica sulla sicurezza alimenta l'identificazione del nemico con il povero, mira a spezzare la solidarietà tra gli oppressi, perché non si alleino contro chi li opprime.
La retorica della sicurezza alimenta l'immaginario della guerra di civiltà, della paura della jihad globale, mentre il governo italiano è alleato di paesi che finanziano chi semina il terrore.
Chi promuove guerre in nome dell'umanità paga il governo libico e quello turco, e presto anche quelli di Niger e Ciad, perché i profughi vengano respinti e deportati.
Il silenzio è assordante. Il pensiero sulla sicurezza - lo stesso a destra come a sinistra - sembra aver paralizzato l'opposizione alla guerra, al militarismo, alla solidarietà a chi fugge persecuzioni e bombe.
Nel silenzio dei più c'è chi decide di mettersi di traverso, di sabotare le antenne assassine di Niscemi, di battersi contro le fabbriche d'armi, di fermare le esercitazioni di guerra, di aprire ed abbattere le frontiere, di gridare forte il proprio disgusto per la patria e il nazionalismo.
Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d'armi, uomini armati per le strade.

sabato 27 maggio 2017

¡ Aquì no se rinde nadie, hijueputa!

Continuare a ribellarsi, continuare a lottare anche se tutto sembra vano.
Il battello chiamato Granma salpò la notte tra il 24 e il 25 novembre 1956 dalla foce del Rio Tuxpan nello stato messicano di Veracruz, con un carico di ottantadue uomini tra cui Fidel Castro ed Ernesto “Che” Guevara. All’alba del 2 dicembre approdarono sulla Playa de las Coloradas, a Cuba. L’esercito del dittatore Batista, già allertato, scoprì quasi subito la loro presenza, e si mobilitò in forze. Il 5 dicembre, i rivoltosi sfiniti ed affamati decisero di accamparsi in una piantagione di canna da zucchero ad Alegria de Pio. 
Al contrario del nome della località dove si stabilirono, l’umore dei “barbudos” era a terra; l’attraversata non fu facile a causa dell’eccessivo numero di persone a bordo, del continuo maltempo e delle pessime condizioni dell’imbarcazione, impiegarono sette giorni invece dei tre previsti, in pratica il loro sbarco fu un vero e proprio naufragio, perdendo l’intero equipaggiamento pesante e con otto uomini che risultavano dispersi.
E il posto in cui erano praticamente crollati aveva un nome macabramente beffardo: nessuna allegria, nessuna pia misericordia, ma una pioggia di piombo senza pietà. Centinaia di soldati si erano attestati a poche centinaia di metri, e di lì a poco gli aerei da ricognizione individuarono i ribelli.
Si scatenò una sparatoria generale, tre membri della spedizione caddero subito falciati dalle raffiche incrociate, ognuno cercava scampo tra le canne rispondendo al fuoco come poteva. Poi ci fu una pausa di silenzio irreale, rotto dalla voce dell’ufficiale della truppa che intimava la resa. Qualcuno, tra i ribelli, mormorò timidamente che, forse, era davvero tutto perduto…
Ad un tratto si sentì una voce:
¡Aquí no se rinde nadie, hijueputa!
Qui non si arrende nessuno, figlio di puttana!” Fu quell’incitamento, lanciato da Camilo Cienfuegos, un rivoluzionario di cui si sente parlare poco, fu quello spirito indomabile, quel desiderio di continuare a ribellarsi, a lottare, anche se tutto sembrava ormai perduto, che diede la spinta necessaria a rovesciare la situazione.
Il combattimento riprese con maggiore intensità di prima, i soldati non riuscirono nell’intento di circondarli; i sopravvissuti ripiegarono in piccoli gruppi, perdendo i contatti. Camillo “Centofuochi” rimase con due compagni, e soltanto quattro giorni più tardi riuscì a ricongiungersi con il Che e pochi altri. Ci furono abbracci e occhi lucidi, e la risata limpida di Camilo che riprese ad esortarli.
Niente di strano, per chi aveva deciso di dare l’assalto al cielo in ottantadue contro un esercito di trentacinquemila soldati con carri armati e aviazione, ritrovandosi poi in quindici, e decidendo di proseguire, senza il minimo dubbio, verso l’orizzonte della rivolta, anche se questo si va sempre allontanando, convinti del fatto che un giorno la rivoluzione avrebbe trionfato.

mercoledì 24 maggio 2017

Camminare verso l’orizzonte

I ribelli sono inguaribili utopisti, animati da un insopprimibile bisogno di ribellarsi.
I ribelli agiscono per istinto, perché hanno la ribellione nel sangue ancor prima che nella mente. E anche quando la sconfitta appare ormai inevitabile, quando la realtà consiglierebbe loro l’accettazione di un compromesso per salvare il salvabile, continuano a battersi per l’«evasione impossibile». Essere consci che in questo mondo non c’è possibilità di evadere non basta a convincerli ad arrendersi.
Ma allora, perché ribellarsi, e magari partecipare ad un’insurrezione popolare, se si è coscienti che, come diceva Germàn List Arzubide, «la cosa peggiore che possa accadere ad un rivoluzionario è vincere la rivoluzione»?
È inutile cercare una risposta razionale quando a rispondere possono essere soltanto il cuore e le viscere. Forse perché vale la pena continuare a camminare verso l’orizzonte pur sapendo che è irraggiungibile, come ci ricorda Eduardo Galeano, e questo non giustifica chi rimane seduto ad osservare il mondo, magari accontentandosi di credere che sia il migliore dei mondi possibili.
Questi terribili e indomabili utopisti sono quelli che danno più fastidio alla borghesia, ai padroni, alla classe dominante, ai governi, al potere. E per questo si tenta di eliminarli. Ma appunto perché sono indomabili, non si accontentano di eliminarli solo fisicamente: occorre distruggere il mito, infangare le loro azioni e la memoria, diffondere menzogne che incrinano l’immagine di idealisti, sognatori, esseri umani spinti dall’utopia a compiere imprese memorabili, uomini e donne dai mille piccoli e grandi difetti come chiunque altro, ma aggrappati (con gioia di vivere o con disperazione, comunque immuni dalle mire di potere) ad un’incrollabile dignità, ad una coerenza che non li rende però miopi e sordi di fronte agli errori compiuti.
La disinformazione, oggi più che mai, governa le menti e i cuori di molti, troppi abitanti dei paesi “civilizzati”, convincendoli che, comunque sia, le ribellioni o le rivoluzioni finiscono sempre col divorare i propri figli, quindi ribellarsi è vano: l’orizzonte resta irraggiungibile, meglio sedersi e aspettare la fine, immersi nello spavento senza fine delle nostre mille paure quotidiane, instillate a regola d’arte da coloro che temono di perdere oscuri privilegi per colpa di chi, da qualche parte di questo strano pianeta, potrebbe ancora preferire il rischio di una fine spaventosa piuttosto che rinunciare a camminare eretto.
Noi siamo ribelli, siamo quelli che non si rassegnano e non si arrendono; siamo quelli che perdono ma non si danno per vinti; siamo quelli che hanno l’insopprimibile bisogno di “andare contro”. Per noi “è meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine”.

lunedì 22 maggio 2017

Ventotene, 22 maggio 1901: Gaetano Bresci è morto

È morto, non v’è più dubbio. Ucciso o suicidato, non importa; è un’altra vittima che si aggiunge a quelle altre già innumerevoli cagionate dal regime capitalista-autoritario, che uccide per anemia e per pletora, per fatica e per ozio, per amore e per odio, per esser buono e per esser malvagio; che uccide nelle fabbriche, nelle miniere e nei cantieri, negli immondi tuguri e nel rigagnolo della via, nei quartieri e nelle carceri; sui campi di battaglia e nelle feste della pace; in alto mare e in terra ferma.
A milioni periscono tutti i giorni nel mondo, esseri che vivrebbero più lungamente se in un altro modo e con altri principi si reggessero gli uomini.
E Bresci è morto nel fondo di una segreta, senza poter vedere i suoi compagni, né le sue bambine, nessuna persona cara, per aver voluto salvare la vita a milioni di esseri che tutti i giorni muoiono inutilmente e oscuramente.
Se gli fosse stato possibile, di questo ne siamo certi, al mondo tutto avrebbe fatto sapere ch’egli uccise e si fece uccidere, non solo per aver salvato molte vite, ma anche per rendere felice la vita a tutti, perché a nessuno mancasse il pane, il pane per lo stomaco e l’intelletto. Questo egli voleva, questo desiderava, con una potenza tale che, tranquillo, soddisfatto, gaudente, diede in olocausto la sua esistenza, vale a dire quanto può dare un uomo.
Specchiamoci nella sua grande e limpida figura. Siamo con lui energici, tenaci, decisi; diamo, come lui, quando possiamo, anche la vita, per abbattere la Tirannia, lo Sfruttamento e la Menzogna.
Questa è certamente la vendetta che lui voleva. Vendichiamolo così!

Da “La Questione Sociale” di Peterson, 8 giugno 1901

giovedì 18 maggio 2017

Organizzazione come liberazione

Siamo anarchici che desiderano una libertà senza limiti. Lottiamo per la liberazione, per un rapporto decentrato e non mediato con il nostro ambiente e con coloro che amiamo e con cui abbiamo affinità. I modelli organizzativi ci offrono solo altra burocrazia, controllo e alienazione, uguali a quelli che riceviamo già dall’organizzazione attuale.
Occasionalmente può esistere una buona intenzione, ma il modello organizzativo deriva da una mentalità intrinsecamente paternalistica e diffidente, che sembra in contraddizione con l’anarchia. I veri rapporti di affinità nascono da una profonda comprensione reciproca nell’ambito di relazioni intime basate sui bisogni della vita quotidiana, non di relazioni basate su organizzazioni, ideologie, idee astratte. Tipicamente, il modello organizzativo reprime i bisogni e i desideri dell’individuo per “il bene della collettività”, nel tentativo di uniformare sia la resistenza che l’immaginazione. Dai partiti alle piattaforme e alle federazioni, sembra che con l’aumentare della scala dei progetti diminuiscano il significato e l’importanza che essi hanno per la vita di ciascuno.
Le organizzazioni sono mezzi per stabilizzare la creatività, controllare il dissenso e indebolire le tangenti controrivoluzionarie (principalmente determinate dalla leadership o dai quadri d’élite). In genere insistono sull’aspetto quantitativo, anziché su quello qualitativo, e offrono poco spazio al pensiero o all’azione indipendente. Le associazioni informali, basate sull’affinità, tendono a ridurre al minimo l’alienazione delle decisioni e della loro attuazione e la mediazione fra i nostri desideri e le nostre azioni. 

da Green Anarchy

lunedì 15 maggio 2017

14 maggio 1977: Milano, una sparatoria "tranquilla"

Milano, 12 maggio 1977; mentre a Roma le forze speciali infiltrate di Kossiga sparano ai manifestanti di Piazza Navona e uccidono Giorgiana Masi, il sostituto procuratore della Repubblica Luigi De Liguori ordina l'arresto di alcune persone, tra le quali due noti avvocati di Soccorso Rosso, Giovanni (Nanni) Cappelli e Sergio Spazzali. L'imputazione più grave nei loro confronti è quella di promozione di associazione sovversiva. I gruppi della sinistra extraparlamentare e i collettivi dell'area dell'autonomia indicono per il pomeriggio del 14 maggio una manifestazione contro la repressione.
La mattina del 14 maggio i quattro referenti dei servizi d'ordine delle diverse anime dell'Autonomia milanese si riuniscono alla Statale per valutare le azioni di piazza. Ci sono Pietro Mancini (Piero), Raffaele Ventura (Coz) e Maurizio Gibertini (Gibo) per il gruppo che si riuniva intorno alla rivista "Rosso", Oreste Scalzone per i gruppi vicini a Potere Operaio, Andrea Bellini per il "Casoretto" e infine una delegazione del partito marxista-leninista. Si decide per un corteo duro, che ad un certo punto si stacchi dai gruppi della sinistra extraparlamentare (Democrazia Proletaria in testa) per proseguire intorno al carcere di San Vittore e portare la solidarietà agli avvocati arrestati due giorni prima. Un corteo "duro", questo si, ma che non preordina in alcun modo uno scontro a fuoco con la polizia, né alcuna altra provocazione. Niente molotov, né spranghe, né fionde e neanche sassi, niente di niente. Ai primi disordini si abbandona il corteo, l'accordo è questo.
La sera prima però, anche la componente armata del collettivo Romana-Vittoria, composta da Marco Barbone, Enrico Pasini Gatti, Giuseppe Memeo, Marco Ferrandi, Luca Colombo e Giancarlo De Silvestri si riunisce per definire il piano per la manifestazione del giorno successivo. Bisogna provocare la polizia nei pressi di San Vittore, sciogliere il corteo per poi ricomporlo nella zona di Porta Genova, da presidiare militarmente il più a lungo possibile. Il Romana-Vittoria aprirà il corteo.
Il corteo parte alle 16,45 da piazza Santo Stefano, i partecipanti sono più di 10.000. All'incrocio via San Vittore-Via Olona lo spezzone dell'autonomia, composto da circa 1000 manifestanti, abbandona il troncone principale come previsto. Cominciano subito gli slogan: "Da San Vittore all'Ucciardone, un solo grido: evasione", "Carabiniere, sbirro maledetto, te l'accendiamo noi la fiamma sul berretto".
Ad un certo punto la colonna di polizia (fino a quel momento tenutasi molto distante dal corteo) del III reparto Celere si schiera in assetto di ordine pubblico (un cordone di scudi e un secondo con i lancia-lacrimogeni) all'angolo tra via Olona e via De Amicis. Dopo un breve consulto, la squadra armata di Romana-Vittoria decide per l'attacco, e forza facilmente i cordoni di contenimento capeggiati da Bellini e Scalzone, accortisi di quanto stava per accadere.
S'alza un grido secco: "Romana fuori!" seguito da un successivo: "Sparare!". Nel giro di un solo minuto Ferrandi, Memeo, Barbone, Pasini Gatti, De Silvestri e Colombo, accostati da alcuni studenti del Cattaneo armati di molotov, dal collettivo di Viale Puglie e dal collettivo Barona ingaggiano un violento scontro a fuoco con le forze dell'ordine, durante il quale rimane ferito a morte il vicebrigadiere Custra. Altri due agenti vengono lievemente feriti, mentre un passante, Marzio Golinelli, perde un occhio e un'altra passante, Patrizia Roveri, viene ferita in maniera non grave al capo.
Via De Amicis è oscurata dal fumo dei lacrimogeni, delle molotov e della carcassa del filobus 96 dato alle fiamme. Tutti coloro che si erano inoltrati nella strada raggiungono di corsa via Carducci dove alcuni manifestanti stanno improvvisando una barricata con del materiale edile di un cantiere.
La sera del 14 nell'abitazione di Colombo si riuniscono alcuni dirigenti di Rosso a confronto con Ferrandi, Barbone, Memeo, Pasini Gatti, Colombo e De Silvestri. La notizia che l'agente Custra è clinicamente morto è stata diffusa radiogiornali e dai telegiornali. I dirigenti di Rosso si rendono disponibili a fornire soldi e documenti falsi per il prudenziale allontanamento di Pasini Gatti, Ferrandi e di tre studenti del Cattaneo. Ne nasce poi un violento diverbio tra Mancini, molto critico rispetto all'azione della Romana-Vittoria, e Alunni, che invece ne prende la difesa. In seguito a questo e ad altri personali contrasti, nel mese di luglio Alunni, Marocco, Ricciardi, Barbone, Colombo, De Silvestri daranno vita, con altri e altre militanti, alle Formazioni Comuniste Combattenti. In seguito, Ferrandi aderirà a Prima Linea; Memeo ai Proletari armati per il comunismo; Pasini Gatti alla Brigata Antonio Lo Muscio.
Durante il processo per i fatti del 14 maggio, gli imputati Ferrandi, Barbone e Pasini Gatti si presenteranno col profilo, già assunto al momento dell'arresto, dei cosiddetti "pentiti".

sabato 13 maggio 2017

Alienazione come condizione di sopravvivenza

Bisogna comprendere la funzione dell’alienazione come condizione di sopravvivenza in questo contesto sociale. Il lavoro dei non-proprietari obbedisce alle stesse contraddizioni del diritto di appropriazione particolare. Esso li trasforma in posseduti, in fabbricanti di appropriazione e in autori della loro stessa esclusione, ma rappresenta la sola possibilità di sopravvivenza per gli schiavi, i servi, i lavoratori, cosicché l’attività che fa durare l’esistenza svuotandola di ogni contenuto finisce per prendere un senso positivo attraverso un rovesciamento di ottica comprensibile e sinistro. Non soltanto il lavoro è stato valorizzato (nella sua forma di sacrificio dall’ancien régime, nel suo aspetto abbruttente nell’ideologia borghese e nelle democrazie pretese popolari) ma, già molto presto, lavorare per il padrone, alienarsi con la buona coscienza della sottomissione, è diventato il prezzo onorevole e appena contestabile della sopravvivenza. La soddisfazione dei bisogni elementari resta la miglior salvaguardia dell’alienazione, quella che la dissimula meglio giustificandola sulla base di un’esigenza inattaccabile. L’alienazione moltiplica i bisogni perché non ne soddisfa nessuno; oggi, l’insoddisfazione si misura a numero di auto, frigo, TV, telefonini, iPod: gli oggetti alienanti non hanno più l’astuzia né il mistero di una trascendenza, ma ci stanno intorno nella loro povertà concreta. Il ricco è oggi colui che possiede il più gran numero di oggetti poveri.
Sopravvivere ci ha, fino ad ora, impedito di vivere. È per questo che bisogna aspettarsi molto dall’impossibilità di sopravvivenza che si annuncia ormai con un’evidenza tanto meno contestabile quanto più il confort e la sovrabbondanza nel quadro della sopravvivenza ci spingono al suicidio o alla rivoluzione. 

giovedì 11 maggio 2017

Un mondo nuovo

Abbiamo bisogno di un mondo nuovo da opporre al mondo dei bisogni creato dal capitale. Questo mondo si fonda sulla praticabilità dei nostri desideri. L’atto del produrre, in senso libero, non può essere disgiunto dall’avvenuta soppressione del lavoro in quanto tale, verso una riscoperta del gusto artistico soppresso dalla produzione del consumo massificato. Quindi, partiamo dalla reintegrazione in ciascun individuo di tutte le sue facoltà, manuali e intellettuali, trasformando l’attività umana in attività libera e creativa. Concepiamo lo sviluppo produttivo, come un fine in se di accrescimento di libertà materiale, per se stessi e nel contempo per gli altri individui liberatisi dal peso delle costrizioni e rivolti esclusivamente, con passionalità, a praticare la realizzazione di tutti i propri singolari desideri.
Una società anarchica è, e sarà definibile una volta che noi ci saremo liberati dal peso di tutte le gerarchie interne ed esterne e avremo abbattuto tutti gli ordinamenti statali-capitalisti. Sarà definita quando ognuno sarà posto nella condizione materiale di potere seguire liberamente, senza alcuna ingerenza autoritaria, le sue particolari e inimitabili inclinazioni, fuori da tutti i tabù e da ogni genere di catene e inibizioni sociali.
E’ logico che questo modo di vedere la questione del vivere individuale e sociale porti a dar corso a nuove e più attraenti forme di vita liberata. In sostanza, l’utopia anarchica è un invito rivolto agli uomini per vivere la propria vita da protagonisti e non da anonime comparse, dentro il corso vivo degli avvenimenti interni ad una umanità non più popolata da fantasmi, ma da individui in carne ed ossa, divenuti finalmente consapevoli della necessità che l’unico ordine sociale che si può riconoscere è quello in armonia con il proprio movimento di vita, con la propria incessante ricerca di libertà e di desideranti orizzonti.
La vita, nel suo movimento, non ha alcun fine preordinato, siamo noi a riempirla di senso nel momento stesso in cui cerchiamo di viverla compiutamente.

lunedì 8 maggio 2017

Tre passi da una vita felice

Il primo passo da fare per avvicinarsi ad una vita positiva è allontanarsi dalla sorgente primaria di angoscia e frustrazione, eliminando fisicamente quelle fonti che minano l’autostima. Per essere informati non c’è bisogno di possedere una televisione!
Riavvicinarsi alla natura è il secondo passo. Alla fine del 1800 ci fu l’esodo dalle campagne verso le fabbriche delle città. Adesso è arrivato il momento di invertire la rotta e di rioccupare le campagne. L’essere umano è fondamentalmente ottimista e se non viene influenzato dall’esterno è capace di creare pace e benessere attorno a se. È capace di vivere in simbiosi con gli altri esseri viventi di questo pianeta e di produrre cibo in abbondanza per il benessere di tutti. C’è bisogno di rompere quelle logiche e quegli schemi sociali che ci sono stati propinati per farci vivere in uno stato di frustrazione perenne. Il capitalismo e le sue logiche non funzionano e i suicidi in costante aumento nella società occidentale ne sono la prova! Questo modello di sviluppo non soddisfa le necessità ma solo crea desideri. La necessità è un qualcosa che si soddisfa mentre il desiderio si rinnova di continuo. Nella società del consumo a tutti i costi, vengono creati costantemente nuovi desideri e false necessità, che portano a vivere in una condizione di insoddisfazione perenne. Per molti la vita sembra essere diventata solo una lunga corsa verso l’accaparramento di quelle necessità che poi in realtà non sono altro che desideri indotti dai milioni di messaggi pubblicitari che assorbiamo inconsapevolmente tutti i giorni. Una corsa frivola, futile e demenziale, che ha come traguardo un pianeta invivibile ed una società lobotomizzata.
Il terzo passo è passare dalla competizione per il profitto personale, alla cooperazione per il benessere della comunità.
È impossibile contrastare quei poteri organizzati che hanno inventato la crisi economica, se prima non smettiamo di combatterci tra noi. L’unica cosa evidente è che le logiche capitaliste e il profitto economico sono contro l’umanità intera e che la globalizzazione, distrugge la vita, in tutte le sue forme, su tutto il pianeta. Abbiamo imboccato un cammino sbagliato, bisogna tornare al bivio precedente e prendere una nuova direzione. Perchè nonostante tutte le bugie che ti raccontano, solo tre passi ti separano dal benessere e da una vita felice. 

sabato 6 maggio 2017

La breve estate dell'anarchia

Ricordiamo le giornate del maggio 1937 a Barcellona,quando i miliziani anarchici, spalleggiati anche dal POUM combatterono per giorni contro i comunisti di osservanza moscovita del Governo Repubblicano.
Gli scontri si ingenerarono in seguito ai decreti governativi che imponevano lo scioglimento delle milizie non staliniste e alla “presa” della Telefónica (sede del servizio telefonico di Barcellona autogestito dai lavoratori stessi,in maggior parte anarchici) da parte delle forze governative.
Durante questi scontri, numerosi esponenti di spicco del movimento anarchico e del POUM vennero arrestati (tra questi George Orwell, che poi riuscì a sfuggire alla repressione) e uccisi (circa 500), tra cui Camillo Berneri e Francesco Barbieri, anarchici italiani, furono arrestati e assassinati da parte degli stalinisti del Partito Comunista di Spagna. Gli insorti furono alla fine persuasi al compromesso, sostenuto da Juan García Oliver, unico ministro anarchico, (da molti anarchici considerano un traditore) e consegnarono le armi. Segui una tremenda repressione contro gli anarchici.
Il 16 maggio si dimise il governatore Caballero, a cui successe Juan Negrin (un socialista molto vicino agli stalinisti), ma senza ottenere l’appoggio degli anarchici. Iniziò così la persecuzione di tutte le forze antistaliniste.
Il governo Negrín aumentò la propria carica repressiva costituendo il SIM (Servizio d'Investigazione Militare) che diventerà un prezioso strumento repressivo in mano agli staliniani e ai loro sicari. Il 10 agosto lo stesso governo emanò l'ordine di scioglimento del Consiglio d'Aragona, una sorta di governo autonomo regionale a prevalenza libertaria, aumentando considerevolmente la repressione sulle collettività rurali aragonesi attraverso le truppe guidate dal generale comunista Enrique Lister (moltissimi anarchici furono arrestati e molte proprietà espropriate furono restituite agli antichi proprietari).
La vera rivoluzione sociale e popolare ormai era stata quasi del tutto seppellita,ma gli scontri continuarono e in Catalogna si registrarono scontri armati (aprile 1938) tra anarchici e socialisti filostaliniani. Il 26 gennaio 1939 anche Barcellona dovette capitolare di fronte ai franchisti. Il governo Negrin fu ben attento a salvare se stesso, aumentando la repressione sui libertari che si ribellarono agli ennesimi soprusi stalinisti. Juan Negrin e vari dirigenti filostalinisti, che ormai avevano perso quel poco di “prestigio” che gli era rimasto, furono costretti a fuggire, ma ormai il destino della Repubblica era segnato.
Durante la rivoluzione spagnola la resistenza popolare antifranchista si autorganizzò militarmente in unità chiamate "Colonne". Tra quelle anarchiche si distinse per l'importanza la Colonna Durruti, formata da circa 3000 militanti coordinati dalla figura carismatica di Buenaventura Durruti, uno degli esponenti di spicco dell'anarchismp spagnolo. In detta Colonna,va ricordata una figura femminile di gran carisma e peso ovvero Simone Weil.
La Weil considera l'ideologia anarchica superiore a quella socialista per la sua ricerca della libertà del singolo, a livello individuale pertanto, non solo in un contesto sociale determinato. Diviene pertanto comprensibile la scelta della Weil di arruolarsi come miliziana nella Colonna Durruti. Non per niente il suo pensiero è di vigorosa critica verso tutte le espressioni di potere organizzato, che tendono inevitabilmente a non prendere in considerazione i bisogni del singolo.

giovedì 4 maggio 2017

Giovedì 5 maggio 1937. Ricordiamola questa data.

Camillo Berneri viene ucciso insieme al compagno di lotta Francesco Barbieri, il 5 maggio 1937, dagli agenti della ceka, un commando composto da comunisti italiani e spagnoli.
Verso le 6 del pomeriggio un gruppo di "mozos de escuadra" e di "bracciali rossi" del PSUC irrompe nel portone numero 3. Li comanda un poliziotto in borghese; in tutto, saranno una dozzina. Salgono gli scalini di marmo che portano al primo piano e bussano alla porta di Berneri. Ad aprire è Francisco Barbieri, 42 anni, anarchico di origine calabrese. Nell'appartamento, oltre Berneri, c'è la compagna di Barbieri e una miliziana. Il poliziotto in borghese intima ai due anarchici a seguirlo.
“E per quale motivo?”
”Vi arrestiamo come controrivoluzionari.”
Barbieri è paonazzo. ”In vent'anni di milizia anarchica” dice ”è la prima volta che mi viene rivolto questo insulto.”
“Appunto in quanto anarchici, siete controrivoluzionari.
“Il suo nome?“ fa Barbieri irritato “Gliene chiederò conto presto.
Il poliziotto rovescia il bavero della giacca e mostra una targhetta metallica con il numero 1109. I due anarchici vengono portati via, mentre la compagna di Barbieri chiede invano di poterli seguire. Ma il viaggio è breve, di quelli che non ammettono testimoni. Berneri è gettato a terra in ginocchio e con le braccia alzate, e da dietro gli sparano a bruciapelo alla spalla destra. Un altro colpo alla nuca, lo finisce. Barbieri segue la stessa sorte, ma il lavoro è meno pulito, gli assassini sprecano più colpi. Più tardi, verso sera, i cadaveri vengono abbandonati nel centro della città.
L'elenco dei nostri morti è lungo. Ma molto più terribile è morire soli, per mano di coloro che si chiamano socialisti o comunisti. Morì per le mani di "marxisti-leninisti-stalinisti", mentre i suoi più cari amici, la Montseny, Garcia Oliver, Peirô, Vasquez stavano consegnando il proletariato di Barcellona ai suoi esecutori.

Giovedì 5 maggio 1937. Ricordiamola questa data.

lunedì 1 maggio 2017

1° Maggio 2017 Torino: le cariche della polizia








Cariche, feriti e tre fermi (due minorenni) per proteggere il nulla della passerella istituzionale
In un Primo Maggio che stava passando alle cronache per la pioggia e la stitichezza di presenza delle forze politiche e sindacali – con presenze ai minimi storici – ci pensano le alte dirigenze cittadine delle forze di Polizia a dare significato politico alla presenza delle istituzioni.
Alcuni siti on-line - brilla su tutti la filo-governativa La Repubblica – scandiscono una cronaca già confezionata e di tranquillizzante conferma delle versioni ufficiali. Si blatera di “guerriglia” e provocazioni quando, se provocazione c'è stata, è quella di un cordone di celerini comandato dall'alto, frappostosi improvvisamente tra l'ultimo spezzone “di partito” e l'inizio dello spezzone sociale.
Era, non a caso, l'unica parte viva  di una sfilata altrimenti muta e ridotta all'osso, con gli scarni numeri di rappresentanza di una casta politica e sindacale unicamente interessata alla riproduzione del proprio - privilegiato - posto di lavoro (discorso questo, vero tanto per i vari bonzi sindacali quanto per i celerini lautamente stipendiati e difesi da tutti i partiti politici).
La componente più partecipata della giornata racchiudeva i soggetti protagonisti delle lotte che attraversano questa città e i suoi circondari: centri sociali, lotta per la casa, studenti, lavoratori della logistica, sindacati di base, migranti, movimento NoTav.
Numerosi interventi dal furgone hanno attaccato la vuotezza delle celebrazioni istituzionali, denunciando la sostanziale continuità nel governo della città, con una sindaca e un presidente della regione che aprivano, a braccetto, lo striminzito spezzone di testa. Questo è il risultato. Nonostante l'esperienza nel movimento NoTav, appena arrivano nei tavoli imbastiti delle istituzioni, si fanno abbindolare... speriamo in buana fede.. ma iniziamo ad avere dei dubbi... dai meccanismi ben oliati di concertazione da parte della questura tesi ad un'unica cosa.. accontentare partiti (pd) e sindacati. La sindaca Appendino aveva tra l'altro dichiarato ai media, a inizio giornata, che la polizia sarebbe stata invisibile e che la piazza sarebbe stata aperta e agibile a tutti.
Abbiamo visto qualcosa di molto diverso: a metà di via Roma, un folto schieramento di celere ha spezzato il corteo, pretendendo di bloccare l'entrate in piazza San Carlo della componente autorganizzata e conflittuale. È partita, immediata, una carica a freddo contro quella parte di corteo che aveva da dire cose poco concilianti. Evidentemente la striminzite rappresentanze della Cgil, oggi rappresentante unica  dell'“unità sindacale”, non gradivano l'irrompere in quella piazza dei soggetti non garantiti e non rappresentabili dai loro organismi.
Questa parte del corteo non ha comunque accettato di essere bloccata e zittita, continuando a più riprese a pretendere l'agibilità della piazza e a portare il proprio dissenso. Le cariche, indiscriminate e ingiustificate (lo riconosce oggi perfino La Stampa) si sono ripetute per ben 4 volte. Nel corso di una di queste, tra numerosi contusi, è stata fermata anche una compagna, catturata durante una carica in cui era caduta a terra, e successivamente condotta in Questura.

Emerge, sempre più chiaramente col passare degli anni, il ruolo sempre più politico e di sostituzione svolta dalla Questura in questa città. Al venir meno della presenza delle componenti politiche e sindacali istituzionali (e del senso di questa presenza), le forze di polizia emergono come soggetto politico. Effetti, tra gli altri, del decreto Minniti recentemente approvato: a sentire certi discorsi, i Prefetti si montano la testa e sentono di poter disporre come vogliono di uomini e gestione delle piazze.
La determinazione con cui il corteo ha sopportato le cariche e guadagnato la piazza, è però il segno chiaro di una indisponibilità sociale ad essere confinati negli spazi perimetrati da chi lavora solo per la pace sociale. Non tutti sono disposti ad accettare un Primo Maggio pacificato, per noi rimane un giorno di lotta!

1° Maggio: né patrie né padroni

Oggi non siamo in piazza per celebrare una festa istituzionalizzata e santificata ma per ribadire, riallacciando il filo rosso della memoria, il nostro impegno per una società senza dominio e sfruttamento.
In questa dittatura italiana, non più tanto mascherata, non c’è più spazio per le ragioni di chi ha sempre meno potere sulla propria esistenza, per le ragioni dei lavoratori licenziati, per i disoccupati, per i senzatetto, per i sottoccupati, per le centinaia di migliaia di lavoratori precarizzati, per gli immigrati. La progressiva erosione dei diritti dei lavoratori, conquistati a fatica nel corso di decenni di lotte, si riflettono nella galoppante distruzione di tutti i servizi pubblici, della sanità, della scuola, dei trasporti. Una angosciante incertezza del futuro accomuna chi lavora e chi dovrebbe entrare nel mondo del lavoro. E al fondo della piramide sociale vengono relegati gli immigrati, i nuovi schiavi della nuova economia, attaccati ferocemente da un governo autoritario e razzista che legifera istituendo norme da vero e proprio apartheid.
L’attacco spietato alle condizioni di vita e di lavoro del mondo salariato e sottosfruttato, con la scusa della crisi (scatenata dai potentati economici industriali e finanziari) sta costringendo milioni di lavoratori sulle difensive, di pari passo con una legislazione che procede come un rullo compressore a cancellare le più importanti conquiste strappate col sangue negli anni ’60 e ’70. Precarizzazione diffusa e lavoro nero legalizzato, leggi sulla sicurezza aggirate, articolo 18 della legge 300 (statuto dei lavoratori) annullato, danno la misura del forte attacco padronale.
Licenziamenti, delocalizzazioni, cassa integrazione, procedure di mobilità sono strumenti a cui si attinge a piene mani creando sacche di disagio sociale che, alimentando il precariato e la disoccupazione, impoveriscono il popolo per poi ricattarlo: questa è la strategia che stato e padroni portano avanti da anni.
Contestualmente alle varie forme di repressione economica, avanza sempre di più in Italia un clima politico contraddistinto da misure da stato di polizia e da persecuzioni razziali che sfumano la differenza tra fascismo movimento e fascistizzazione dello stato. Un crescente autoritarismo che si manifesta quotidianamente nel progressivo restringimento degli spazi politici del dissenso e dell’opposizione extraistituzionale, delle libertà civili e individuali, a partire dalla stessa libertà di espressione e di informazione. Dopo l’approvazione del pacchetto sicurezza, la gestione dell’ordine pubblico, affidata anche a sindaci e prefetti, è stata inasprita verso una generale criminalizzazione del dissenso e dell’opposizione sociale. In tutto il territorio italiano sono stati sgomberati o sono sotto sgombero la stragrande maggioranza degli spazi sociali liberati, così come aumentano progressivamente gli arresti e le denunce nei confronti di tutti coloro che si battono contro la macelleria sociale generata da stato e capitale. Repressione nei confronti dei militanti politici, azioni persecutorie discriminatorie nei confronti degli immigrati, dei poveri, delle minoranze – sui quali il governo scarica strumentalmente la responsabilità della grave crisi economica che attanaglia il paese, ma che in realtà è il prodotto dell’intrinseca natura predatoria e assassina del capitalismo. È politica di tutti i giorni l’esercizio sempre più sfacciato e diffuso della violenza di stato, della brutalità poliziesca, nelle piazze, nelle carceri, nei reparti psichiatrici e nei centri di identificazione degli immigrati; violenza che sfocia in veri omicidi di stato. La guerra tra poveri alimentata dal potere va contrastata con la promozione delle lotte di tutti i lavoratori, italiani e stranieri senza distinzioni, valorizzando l’autorganizzazione e l’autogestione delle lotte, la conflittualità permanente, l’azione diretta popolare, come metodo irrinunciabile per ottenere cambiamenti reali e duraturi.
Ribadendo che la lotta contro ogni sfruttamento e contro ogni oppressione debbano dispiegarsi dal basso, nell’azione autorganizzata ed autogestita contro lo stato ed il capitalismo e nell’esercizio della solidarietà internazionale, noi rinnoviamo l’impegno incessante e senza compromessi nella difesa della libertà e dell’uguaglianza, per la costruzione di una società libera e solidale, nella consapevolezza che non ci sono e non ci possono essere spazi di mediazione tra coerenza e consenso, tra radicalità e rappresentanza, tra libertà e potere.
Si sottolinea, ancora una volta, l’illusorietà dello spazio pre-politico della mediazione del conflitto sociale, col quale legare le tensioni sociali agli equilibri mutevoli e ballerini dei giochi infraistituzionali, smorzando la radicalità di quella che un tempo si chiamava la Questione Sociale.
Il 1° maggio è giorno di lotta internazionale contro i padroni e lo stato.

1 Maggio 1947: la Strage di Portella della Ginestra

La strage di Portella della Ginestra rappresenta uno snodo importante nella storia della Sicilia e dell’Italia del Dopoguerra,tanto che può considerarsi il primo episodio della strategia della tensione della Repubblica.
La mattina del 1º maggio 1947 a Portella della Ginestra furono falciate 11 persone. Sott’accusa finirono gli agrari, la mafia e la banda Giuliano, che, con la copertura dello Stato e della politica, non avevano esitato a sparare sulla folla inerme.
Quella mattina del 1° maggio 1947, il piano di Portella della Ginestra traboccava di contadini di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello. Erano lì, con le loro famiglie, per passare una giornata in allegria, per ricordare la festa del lavoro. Una festa "politica", a cui li aveva abituati il medico socialista di Piana degli Albanesi, Nicola Barbato, mitico capo dei fasci contadini di fine ’800. Era stato lui, circa 60 anni prima, ad "inventare" questo raduno popolare, per parlare delle conquiste del lavoro. Il ventennio fascista aveva interrotto quell’appuntamento annuale, ma, adesso, dopo la Liberazione e la nascita della Repubblica, i contadini erano di nuovo lì, attorno al "sasso" di Barbato, per riprendere il loro cammino e sognare "il riscatto del lavoro". Avevano le bandiere rosse e tanta voglia di battere la miseria e la povertà, in cui li costringevano a vivere gli agrari e i gabelloti mafiosi. Tra l’altro, quel giorno, avevano un motivo in più per festeggiare. Appena dieci giorni prima - il 20 aprile 1947 - la lista del Blocco del Popolo, composta da comunisti e socialisti, aveva ottenuto un successo storico nelle prime elezioni per l’Assemblea Regionale Siciliana, conquistando 567.392 (29,13%), contro i 399.860 (20,52%) della DC.
Erano quasi le dieci e gli altoparlanti annunciavano l’imminente arrivo dell’oratore che avrebbe parlato ai contadini e alle loro famiglie. C’era molta attesa per il comizio che si sarebbe svolto da lì a qualche minuto. Nell’attesa, Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato, salì sul "sasso" di Barbato, coperto di bandiere rosse, e iniziò a parlare. All’improvviso dei rumori sordi: Ta-pum... ta-pum... ta-pum. I contadini guardarono il cielo ridendo: "I giochi d’artificio... i giochi d’artificio... è cominciata la festa!". Ma non era la festa, erano colpi di armi da fuoco, sparati ad altezza d’uomo. Sicuramente di mitra, forse anche lo scoppio di qualche granata... il finimondo. Urla, pianti, gente che fugge, muli imbizzarriti. Infine, decine di corpi straziati per terra: undici morti e ventisette feriti. Fu una strage, passata poi alla storia come la strage di Portella della Ginestra. In poche ore, la tragedia di Portella fece il giro d’Italia. E l’Italia intera rimase sbigottita. In un angolo del cuore interno della Sicilia, a sangue freddo, erano stati assassinati uomini, donne e bambini. Un fatto inaudito, intollerabile. Tutti i leader della sinistra arrivarono a Piana, a San Giuseppe, a San Cipirello. Il 3 maggio fu proclamato lo sciopero generale nazionale, con una imponente manifestazione a Palermo, fioccarono le interrogazioni parlamentari.
Sott’accusa finirono gli agrari, la mafia e la banda Giuliano, che, con la copertura politica di "pezzi" dello Stato e della politica, non avevano esitato a sparare sulla folla inerme, pur di bloccare le lotte contadine e l’avanzata della sinistra. A minimizzare l’accaduto, nella seduta del 9 maggio 1947 dell’Assemblea Costituente, pensò il ministro degli interni, Mario Scelba: "Non c’é movente politico. Trattasi di un episodio fortunatamente circoscritto, maturato in una zona fortunatamente ristretta le cui condizioni sono assolutamente singolari". Scelba mentiva. Sapeva benissimo delle trame siciliane e, in qualche modo, era pure uno degli artefici. Tra l’altro, la violenza contro i contadini e la sinistra politica e sindacale non si fermò a Portella. Infatti, scrive Umberto Santino nella "Storia del movimento antimafia" (Editori Riuniti, Roma 2009): "L’8 maggio 1947 a Partinico venne ucciso il contadino Michelangelo Salvia. Il 22 giugno si ha una serie di attentati con bombe e colpi di arma da fuoco contro le sezioni comuniste di Partinico, Borgetto e Cinisi, alle sedi della Camera del lavoro di Carini e San Giuseppe Jato e alla sezione socialista di Monreale. A Partinico ci sono due morti: Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Jacono". Nel 1949, al processo di Viterbo, furono soltanto Salvatore Giuliano «il Re di Montelepre» e la sua banda ad essere condannati quali esecutori dell’orrenda strage di Portella della Ginestra. Troppo poco.
Durante un’udienza Gaspare Pisciotta aveva lanciato una terribile accusa: "Furono Marchesano, il principe Alliata, l’onorevole Mattarella a ordinare la strage di Portella della Ginestra… Prima del massacro incontrarono Giuliano…". Ma non si riuscì mai a provarlo.