..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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mercoledì 30 dicembre 2015

Contestare questo monopolio espropriante

Contestare le istituzioni significa, contestare questo monopolio espropriante che mantiene in uno stato di inferiorità e di dipendenza permanente anzi progressiva, gli individui che compongono la società e che invece di maturare attraverso e grazie ad essa sono costretti sempre più e in ogni campo ad obbedire a chi comanda con una giustificazione che riduce di molto la differenza tra metodi violenti e metodi democratici, quando questi si avvalgono di mezzi di persuasione che fanno del consenso una vera e propria abdicazione alla libertà di giudizio e cioè all’esercizio effettivo della coscienza. La società dei consumi interiorizza semplicemente la costrizione sociale, trasformando la paura della repressione in vergogna della emarginazione. Il paradosso è che la libertà circolante nella democrazia dei consumi “libera” tutte le forme di licenza corruttrice ed oltretutto miope e contraddittoria in funzione di un unico scopo, quello dell’interesse esclusivamente individuale che, per corrispondenza all’abrasione sociale dell’individualità, elimina semplicemente la relazionalità come condizione e partecipazione all’umanità.

lunedì 28 dicembre 2015

Ricordando un compagno: Luigi Assandri

Di famiglia contadina, originario dell'Acquese (basso Alessandrino) dove è nato nel 1915, era approdato all'anarchismo nel dopoguerra. Diceva di aver sentito per la prima volta nominare Bakunin, Kropotkin e il loro pensiero da un soldato russo che si era unito alla sua banda partigiana (a riprova che nemmeno sotto il tallone di Stalin le idee libertarie erano state estirpate).
A liberazione avvenuta si arruola in polizia per congedarsene dopo breve tempo. Sua era la frase: "Anche un poliziotto può diventare anarchico, ma un anarchico non può mai trasformarsi in poliziotto".
Trova lavoro alle Ferriere FIAT, la fabbrica dove vi era un consistente numero di anarchici durante il fascismo e la resistenza. Si avvicina al movimento libertario divenendone un attivissimo propagandista. In fabbrica si dedica alla lotta anarco-sindacalista diventandone un acceso sostenitore contribuendo alla rinascita dell'USI. Acerrimo avversario della CGIL, si scontra in fabbrica con l'egemonia staliniana (raccontava di essere scampato a una raffica di mitra sparatagli alle spalle all'interno di un reparto) e nel movimento con gli anarchici favorevoli all'entrismo nel sindacato ormai dominato dai comunisti, con cui entrerà in annose polemiche.
Il 68 apre una nuova stagione della vita di Luigi, numerosi giovani si avvicinano alle idee anarchiche e lui diventa un importante punto di riferimento torinese. A differenza di altri vecchi compagni, anche se con un glorioso passato ormai piegati dalle disillusioni e dall'isolamento politico in cui erano stati relegati, Luigi ama stare con i ragazzi (i masnà, come li chiamava in piemontese), partecipa alle loro iniziative, discute con loro giorno e notte, li riempie di giornali opuscoli libri, li porta a mangiare a casa sua dove la sua compagna, Adele, li colma di attenzioni e, quando sono senza quattrini, compra loro le sigarette. Non è un teorico né un intellettuale, solo un semplice operaio autodidatta dotato di una profonda conoscenza delle idee e della storia dell'anarchismo, ma riesce lo stesso ad insegnare nel senso più profondo del termine, trasmettendo dei valori e una grande determinazione nella loro difesa.
Partecipa alle attività del circolo anarchico di via Ravenna di Torino, ma la sua attività più nota è quella di propagandista portando al massimo lo spirito di pratica dell’autodidatta. Compra un ciclostile e comincia a stampare in proprio a casa sua, prima decine e poi centinaia fra opuscoli, libri, e manifesti, dedicando la questa attività e ore libere dal lavoro e quelle strappate al riposo. Comincia così a manifestare uno degli esempi di autoproduzione, coadiuvato soltanto dalla compagna Adele.
Sviluppa uno stile grafico personalissimo ed inconfondibile arrivando a collages che non hanno bisogno di didascalie. In molti abbiamo amato l’opera caotica molto nera, povera e naif di Luigi, così come abbiamo amato la grafica e l’impaginazione poverissima, severa ma felice di Franco Leggio e la sua Fiaccola espressione di una personalità più vasta di anarchico. Molti libertari ed anarchici, non solo torinesi, hanno potuto leggere l’introvabile Stirner, e non solo lui, grazie alle ristampe di Luigi degli anni ’70.
Gli opuscoli che stampa li diffonde personalmente per le strade di Torino. In tutti i cortei in città c’è Luigi, da solo, con una borsa piena zeppa, che distribuisce i suoi opuscoli anarchici.
Si lascia un po’ di tempo libero per andare a funghi, tornare alla montagna. Lo ricordo ancora la mattina presto. verso le sei e trenta, col suo zainetto sulle spalle alla stazione di Porta Nuova  che va a prendere il treno per recarsi in montagna, prendendomi in giro col suo invito ad andare con lui, sapendo che non potevo perché avevo appena iniziato il mio turno di lavoro.
In città tutti lo conoscevano e lo stimavano. Ogni occasione era buona per propagandare le idee anarchiche, non solo con la stampa ma soprattutto con la parola: se anche casualmente incontrava qualcuno disposto al dialogo, persino nemici o avversari (fascisti e comunisti) intavolava lunghe e vivaci discussioni sull'anarchia, sulle infamie del capitalismo, dei regimi dittatoriali di destra e di sinistra, della chiesa e del militarismo. Insieme ad Adele partecipava ad ogni iniziativa, manifestazione, meeting congresso o convegno in cui gli anarchici si ritrovavano, sempre carico dei suoi materiali di propaganda.
La morte di Adele, avvenuta nei primi anni Novanta, chiude la fase della sua esistenza militante, pur restando sempre anarchico sino alla fine. Cede la sua biblioteca all'Anarkiviu "Tommaso Serra", smette di diffondere i suoi opuscoletti, dedicandosi unicamente alla ritrovata passione giovanile per il ballo.
Abbiamo amato lo stile di Luigi che sapeva porgere l’anarchia con la mitezza del suo sguardo, con la parola, con lo scritto, con la grafica, ma soprattutto con la migliore e più comunicativa propaganda del fatto: la sua vita; facendo desiderare, al di là dell’opera, di vivere anche noi 10, 100, 1000 vite come la sua.
Il 22 novembre 2008 Luigi se ne è andato. Il suo corpo è stato cremato al cimitero monumentale di Torino. Ad accompagnarlo nell'ultimo viaggio diverse bandiere rossonere, portate da compagni di tutte le età.

mercoledì 23 dicembre 2015

La trasgressione come sperimentazione di libertà

Quello che si intende per sperimentazione concreta di libertà e di comunità è tutto dentro la dinamica dell'opposizione ostinata all'esistente societario. La libertà, infatti, può essere sperimentata solo attraverso le forme di negazione materiale dell'illibertà sociale o comunque introiettata individualmente; la comunità reale può essere pre-vissuta come comunità di intenti, di tensioni, di agire. Ciò non è permesso. Per questo la trasgressione assume valenza positiva, seppur degna di smitizzazione e soprattutto di non fissazione. La trasgressione in sé non porta valori comunque umani, ma ne nega altri codificati; se essa, però, si trasforma in riaffermazione differente di ciò che prima ha rifiutato non è altro che forma recuperata, produttiva di comportamento sociale controllabile. La trasgressione cui noi ci riferiamo è quella che contiene tanto la negazione del presente quanto l'allusione al futuro. Non ci interessano certo i ladri che si fanno banchieri né i banchieri che diventano ladri! La trasgressività è quanto, pur prodotto dalla società, tende ad affermare caratteri diversi, antagonici, di comunità. Quando si contrappone il concetto di comunità reale a quello di società - come che si sia storicamente manifestata - non è certo per riprodurre una sorta di guerra di tutti contro tutti, l'homo homini lupus di lontana memoria, né tanto meno per ricordare nostalgicamente le società-comunità primitive (poiché allora effettivamente i due termini si confondevano tra di loro). L'appartenenza reciproca, il riconoscimento delle differenze e la loro corretta valutazione, il superamento di appiattimenti egualitarizzanti, la riscoperta dell'originalità singola e collettiva contro il processo di identificazione: ecco i caratteri dell'essere-vivere comunità, ecco quanto è stato sottomesso e soggiogato dalla forma-società.

martedì 22 dicembre 2015

Sabotaggio, non terrorismo. Sconfitta la Procura di Torino

La corte d’assise d’appello della Procura di Torino ha emesso oggi, poco prima delle 16, la sentenza al processo contro Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò. Il collegio ha approvato il giudizio di primo grado, rigettando l’accusa di attentato con finalità di terrorismo. Ai quattro No Tav è stata confermata la condanna a tre anni e mezzo per il sabotaggio.
Il procuratore generale Marcello Maddalena aveva chiesto nove anni e mezzo.
Maddalena questa mattina ha sparato le ultime cartucce. A sostegno della sua tesi anche la lettera dei quattro No Tav, che si identificavano nei passaggi salienti della lotta: dalla battaglia del Seghino all’assedio del 3 luglio 2011, passando per Venaus e la Libera Repubblica della Maddalena.
Allora il movimento No Tav obbligò il governo a cancellare un progetto ormai entrato in fase esecutiva. Maddalena ha le idee chiare: chi ci è riuscito una volta potrebbe riuscirci ancora. La mera intenzione di fermare il Tav basterebbe a giustificare l’accusa di terrorismo.
In filigrana si legge la trama sottesa del tessuto argomentativo di Maddalena: tutti i No Tav sono terroristi. Chi devasta e militarizza il territorio difende la democrazia. Il sabotaggio di quella notte di maggio fu quindi un attacco alla democrazia.
Come non essere d’accordo?
La democrazia è una delle forme dello Stato, che avoca a se la legittimità dell’esercizio esclusivo della violenza, per reprimere chi non accetta le regole di un gioco feroce, liberticida, oppressivo.
Chi si mette di mezzo, chi non si rassegna al dissenso, chi pratica l’azione diretta finisce nel mirino.
La Corte s’assise ha rigettato le tesi del PM, perché è (ancora) troppo diffusa l’opinione che non si possa equiparare un sabotaggio alla diffusione del terrore.
L’operazione tentata dalla Procura di Torino questa volta è fallita, ma la carta del terrorismo potrebbe essere rigiocata, se il movimento No Tav riuscisse nuovamente a mettere in difficoltà il governo, se il territorio divenisse nuovamente ingovernabile.
Tutti i No Tav, compresi i sette del sabotaggio del maggio 2013, intendono davvero obbligare il governo a cancellare la nuova linea veloce da Torino a Lyon dalla propria agenda. Non c’è dubbio che ce la metteremo tutta.
Nonostante non sia stata riconosciuta la finalità di terrorismo, resta il fatto che quattro di noi sono stati sottratti per tre anni e mezzo alle loro vite, agli affetti, alla lotta.
Oggi ci conforta il fatto che la mossa più ardita della Procura torinese sia stata disinnescata. Maddalena, all’ultimo processo prima della pensione non è riuscito ad appendere in ufficio lo scalpo dei No Tav.

domenica 20 dicembre 2015

La società autogestita di Pierre-Joseph Proudhon

Il concetto di società autogestita porta Proudhon a formulare la dottrina del federalismo pluralista, considerata a suo parere l’unica realistica perché le contraddizioni, costituendo la linfa vitale della società, sono insopprimibili.
Il federalismo proudhoniano,ovvero un federalismo libertario, sa risolvere in una continua tensione di libertà i termini, dati prima come teoricamente insopprimibili, della libertà e dell’autorità.
Così il federalismo pluralista si definisce da una parte come critica di tutte le dottrine stataliste, uniciste, assolutistiche, in quanto utopistiche e reazionarie, e dall’altra come metodo regolativo, più che costitutivo, dei rapporti socio-economici. Esso infatti deve garantire, con la sua dimensione aperta, l’eguale possibilità di espressione di ogni individuo o gruppo, in armonia con le proprio esigenze geografiche e le proprie tradizioni storiche. Il sistema federativo deve essere insomma il risultato degli equilibri da ricercarsi nel rapporto fra gruppi e individui, fra unità e molteplicità, fra società globale e raggruppamenti particolari, fra coesione e libertà. Tuttavia ciò che costituisce l’essenza è il carattere del contratto federativo, è che in un tale sistema i contraenti si riservino più diritto, autorità e proprietà di quanto non ne abbandonino. Il federalismo libertario riassume per intero la rivoluzione politica ed economica perché il principio federativo è l’applicazione sulla più alta scala dei principi di mutualità, di divisione del lavoro, di solidarietà economica. Per sorreggere questo disegno fondamentalmente libertario ed egualitario, Proudhon ha concepito il mutualismo economico, il solo in grado di rendere operante tale impianto strutturale. Il mutualismo in senso economico è un socialismo pluralista decentralizzato, fondato sull’autogestione dei produttori della proprietà federalizzata degli strumenti di produzione.

giovedì 17 dicembre 2015

La libertà dell’individuo

Non si può aspettare che la rivoluzione avvenga come un qualcosa di metafisico che precipita di colpo sulla terra. Occorre unirci con tutte le nostre forze al movimento reale e chiarire quali sono a tutti i livelli ed in tutti i paesi le realtà dello sfruttamento, le realtà dello spossessamento. Lo spossessamento moderno non è più, non si conclude più nello sfruttamento puro e semplice della forza lavoro. È uno sfruttamento che si è allargato a tutto il campo della vita quotidiana. Siamo tutti sfruttati non soltanto perché lavoriamo otto o più ore in un dato posto, ed in quel posto ci sottraggono plus valore e così via, siamo sfruttati perché siamo interamente soggetti ad un processo di spossessamento che investe tutta intera la nostra vita. Questa è una realtà che sta emergendo con una notevole energia e la cui coscienza sta affiorando nel movimento reale.
Ecco perché il discorso anarchico può da qualche tempo in qua uscire dai moduli storici che ben conosciamo e rinnovarsi interamente in una verifica reale come evocazione reale del movimento.
Gli anarchici sono storicamente quelli che si sono incaricati di condurre avanti, di portare avanti nella storia la rivendicazione della libertà della persona; in questo senso sono stati coerenti lungo tutto lo sviluppo della loro storia. Credo sia corretto anche dire che sono stati gli unici a fare questo discorso, che è stato il discorso della libertà dell’individuo, è stato per decenni un discorso minoritario per forza di cose.
Non esiste una infinità di progetti rivoluzionari, non ci sono diecimila modi che la storia brucia in rivoluzioni che falliscono; ad un certo punto è il movimento reale stesso che scopre che la vocazione libertaria è la vocazione rivoluzionaria reale. Il compito di tutti i ribelli è quello di aiutare questa crescita obiettiva della spinta libertaria, smascherando a tutti i livelli tutte le situazioni, le mistificazioni che il capitalismo avanzato mette in opera con l’industria pesante dell’ideologia.

mercoledì 16 dicembre 2015

L'anarchia è il grande sogno della libertà

L'anarchia altro non è che una società organizzata sulla base della libertà.
È la consapevolezza che gli esseri umani possono vivere in libertà attraverso la definizione di un sistema di relazioni sociali anti-autoritarie, in cui lo svolgimento delle attività umane, dalle più semplici alle più complesse, avviene in modo che ognuno, all'interno di libere assemblee, abbia la possibilità di perseguire la propria felicità, senza subire le prevaricazioni altrui.
È l'estensione della possibilità a tutti, la massima decentralizzazione, la fine dei privilegi.
I suoi detrattori parlano di caos perché ritengono impossibile vivere senza le regole dettate da un'organizzazione sociale gerarchica, mentre l'anarchia altro non è che la libertà organizzata, una ricerca permanente dell'armonia tra responsabilità e libertà, tra individuo e società.
Tutto questo può sembrare un'utopia, e certamente lo è; ma, come diceva Eduardo Galeano, "l'utopia è come l'orizzonte: mi avvicino di due passi e lui si allontana di due passi, cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta di dieci passi più in là; per quanto io cammini, non lo raggiungerò mai. A cosa serve allora l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare". E l'anarchia serve proprio a promuovere le idee, a risvegliare le coscienze, a stimolare l'azione.
Sicuramente non vedremo mai realizzato il sogno di una società anarchica, ma ciò non toglie il fatto di provarci, di costruirele basi per la sua nascita. In fondo tutta la storia dell'umanità non è altro che il tentativo di realizzare l'utopia.
L'anarchia non è un'illusione, si tratta piuttosto di un sogno non ancora realizzato, ma non irrealizzabile; solo chi non rinuncia sognare ha la certezza di andare avanti in qualche modo.
"Quando a sognare è uno solo non è altro che un sogno; quando a sognare sono in tanti è l'inizio della realtà".

venerdì 11 dicembre 2015

Si nasce anarchici

I bambini, quando hanno ancora pochi anni, non essendo ancora formati culturalmente, o formati ancora solo in modo parziale, sono liberi da condizionamenti autoritari. Non conoscono convenzioni, paure, remore, omertà; il loro comportamento è estremamente libero e rifugge da ogni intruppamento; non conoscono differenze di razze, di sesso. Provate a mettere insieme un gruppo di bambini e bambine in una stanza; non staranno lì a guardare il colore della pelle; non si divideranno in gruppi, maschietti da una parte e femminucce dall'altra, ma tutti insieme parteciperanno ai giochi che la loro mente piena di fantasia inventa sul momento. Si certo, ogni tanto c'è qualche lite, qualcuno piange, ma dopo qualche minuto si riprende a stare insieme senza rancore (sostantivo a loro sconosciuto).
Anche se con gli anni la loro natura viene forgiata da tecniche educative autoritarie e repressive imposte dalla scuola, dalla religione, dalla famiglia, negli individui adulti che diverranno rimane molto di quell'animale libero che erano alla nascita. E per tutta la vita arderà questo barlume, questa insofferenza alle costrizioni, alla disciplina e all'autorità, spesso temuto da loro stessi nel momento in cui saranno coscienti che dare libero sfogo a questi istinti li esporrebbe a rischi. Ecco perché nel corso della nostra vita siamo tutti una specie di campo di battaglia tra la libertà che cerca di emergere e l'istinto a reprimerla che ci viene inculcato sin dalle più tenera età.
Spesso questa fiamma soccombe, soffocato da istinti indotti come la ricerca del successo, l'arrivismo, la scalata sociale o la paura di perdere quello che si è acquisito, e anche da atteggiamenti più profondi e irrazionali, tipici della natura umana. Ma quando riusciamo ad essere spontanei, quando ci muoviamo nell'ambito di una sfera serena e libera, siamo l'esempio vivente di come una società non gerarchica sia possibile, anche se lo facciamo in maniera inconsapevole.
Si nasce anarchici, bisogna solo avere la capacità di rimanerci.

giovedì 10 dicembre 2015

L’umorismo come arma rivoluzionaria

L’umorismo è una profanazione perpetua, una costante provocazione del profano al sacro. Laddove l’uomo/donna sa ridere, sparisce l’ombra degli dei.
Ridere del dominio non basta, ma è già l’inizio di una resistenza. Introducendo il dubbio nella sottomissione, l’ironia e il sarcasmo armano i rivoluzionari, aggrediscono il dispotismo e l’ingiustizia, indeboliscono la servitù volontaria. Le risate scavano in anticipo il fosso dove finiscono sepolti i tiranni che l’intelligenza sensibile stana e che gli uomini liberi combattono.
La laicità ideologica della borghesia rivoluzionaria ha avuto il torto di prendersi talmente sul serio dal fare della ragione una dea.
La morte si instaura nello spirito ogni volta che l’intelligenza sensibile dimentica la sua capacità di ridere della tragedia; la quale del resto si trasforma sovente in farsa dopo che il riso degli uomini ha accolto la sua prima apparizione seria.
La farsa è una tragedia diventata ridicola. Si presenta spesso come un déjà-vu banalizzato di cui gli uomini non riescono a disfarsi. Quando il montare del totalitarismo non è neppure più accompagnato dal divieto formale di ridere del potere, gli uomini della democrazia spettacolare diventano ancora più ridicoli delle loro caricature.
I re, i preti, i guerrieri, diventati i decisionisti, burocrati e boia nello stesso tempo, restano sempre dei ridicoli “Pères Ubu” ai quali nemmeno il sangue versato dalle loro mani restituisce il senso della vita. Si prendono molto sul serio, perché sono i guardiani dell’assenza di felicità. Sono nudi nella loro terribile armatura ed è per questo che è formalmente consigliato di non parlare troppo del loro culo.
Durante le tristi e ricorrenti epoche di uniformizzazione dello spirito, con la regressione dell’essere in avere, e poi in apparire, la resistenza volontaria della vita contro i suoi nemici si esprime già nella derisione di un mondo intollerabile.
In un contesto pesante, dove tutto diventa stupidamente tragico, banale, ineluttabile, lo spettacolo integrato è oggi una farsa totalitaria organizzata.
L’umorismo contribuisce a preservare fino all’ultimo soffio di vita la possibilità della leggerezza. Mostrare col dito, con la penna o con la matita il ridicolo del potere; ecco qualcosa che favorisce già la vita e apre un cammino al rovesciamento di prospettiva.
Il potere che si esercita sugli uomini sottomessi si indebolisce quando questi alzano la testa con un sorriso sulle labbra. La loro muscolatura si rilassa, le loro smorfie da credenti, da cantanti di inni patriottici e da seguaci di liturgie idiote si disfano. La loro umanità dimenticata ritrova i sensi perduti della felicità, sola luce che continua a guidare donne e uomini in questa effimera e meravigliosa avventura che è la vita.

martedì 8 dicembre 2015

Un lampo bluastro attraversa la Camera dei Deputati

Il 9 dicembre 1893, a Parigi, alla Camera dei deputati, è in corso la convalida di alcuni parlamentari, il deputato della prima circoscrizione di Reims, Louis Mirman, sta difendendo la propria causa. Siccome la sua voce è debole, per poterlo sentire la maggior parte dei suoi colleghi è discesa nell’emiciclo ed il visconte di Montfort, suo avversario, si prepara all’assalto, brandendo fogli pieni di appunti.
Sono le quattro e cinque. Con un ampio gesto circolare della mano, Louis Mirman termina il proprio discorso: “Io rimarrò qualunque cosa decidiate, un avversario leale e risoluto!”
Nella tribuna chiamata petite tribune des billetes, una certa signora Laport, moglie d’un commerciante all’ingrosso di vini, vede un braccio, che passa al di sopra della sua spalla, gettare un oggetto che emette una specie di sibilo regolare. Subito un lampo azzurrognolo solca la sala all’altezza delle tribune, segue una formidabile esplosione, poi una grandine di proiettili schizza a ventaglio, abbattendosi sugli spettatori e sui parlamentari. Si levano urla di dolore e quando il fumo si dirada, molte persone sono stese a terra, mentre altre si precipitano verso l’uscita, gettando grida di dolore e di spavento.
La sala ha l’aspetto di un campo di battaglia.
Alcuni deputati si tolgono i proiettili di dosso, proiettili consistenti in chiodi di tre centimetri, che si sono conficcati nei loro corpi o sul viso; il generale Billot, membro del consiglio superiore di guerra, si rialza attonito, mentre l’abate Lemire resta disteso sanguinante. Il suo viso è coperto di rivoli di sangue, mentre dei pezzi di ferro bianco gli formano sulla fronte una specie di corona.
All’ispettore di polizia Agron, nella infermeria speciale del carcere, Vaillant dichiara: “Sono un anarchico e ce l’ho con l’organizzazione della società. Bisogna che tutto cambi, ed io ho voluto colpire al vertice, colpire il governo. Sfortunatamente, una donna m’ha intralciato mentre gettavo la bomba, sicchè la traiettoria è stata deviata ed è scoppiata in aria. Altrimenti stendevo cento deputati".
Sempre su richiesta dell’Ispettore, Vaillant scrive un biglietto per il giudice istruttore Henri-Balthazar Mayer:
“Signor giudice, per capriccio ho voluto lasciarla cercare. Suppongo però che si stiano perseguitando degli innocenti per trovare il vero colpevole. Non cerchi più, sono io. D’altronde non ho voluto uccidere (ed è per questo che nella mia bomba avevo messo dei chiodi al posto delle palle), ma solo dare un avvertimento. Preferivo ferire duecento deputati, che ucciderne uno o due”.

domenica 6 dicembre 2015

Inaugurazione della Scala di Milano 1968

7 dicembre, sera. Verso le 19.30 ci presentiamo in piazza della Scala. Saremo in 3/400. Una miseria rispetto alla nostra normale capacità di mobilitazione. Ecco la prova che lo spontaneismo è «una minchia piena d'acqua», bofonchia Salvatore Toscano. Fa un freddo cane e l'umidità prende alle ossa. La nebbia è così spessa che di quando in quando sembra trasformarsi in una pioggerellina fitta fitta. Come se non bastasse, piazza della Scala è stata trasformata in una piazza d'armi. Polizia e carabinieri dappertutto. Di fronte al teatro, dirimpetto al palazzo del comune, all'imbocco delle vie adiacenti, in galleria Vittorio Emanuele, in piazza Duomo.
Arrivano i primi «scaligeri», agghindatissimi. Gli uomini sono lustri come manichini. Le signore impellicciate e ingiolellate per centinaia di milioni. Uno schiaffo per milioni di poveri cristi. Per qualche minuto non succede nulla. Si infittisce l'arrivo. Auto sontuose e lucide, con autisti in livrea, depongono con grazia tirati melomani all'ingresso del tempio. Uno studente solleva, alto sopra la testa, un cartello che dice: «I braccianti di Avola vi augurano buon divertimento». Parte un coro: «Borghesi, ancora pochi mesi» (ecco che le esigenze della rima costringono a svisare i tempi storici).
Una coppia, impeccabilmente addobbata, fende sinuosamente i cordoni di polizia, a tre metri dagli studenti. Parte un uovo. Centro perfetto sulla spalla dell'uomo. Schizzi giallastri massacrano di rimbalzo lo stupendo abito della sua compagna. Per brevi minuti è tutto un via vai, in aria, di uova e cachi. (A proposito: la mitologia giornalistica ha fatto prevalere l'idea che si trattasse di uova marce. Sciocchezze faziose. Come sanno tutti i cuochi, è rarissimo trovare uova marce). I tiri sono per lo più esatti. I bersagli colpiti, numerosi. Elevata la percentuale di smoking, toupé e pellicce messi fuori uso. La polizia mostra segni di nervosismo rapidamente crescenti. È chiaro che dopo l'indignazione popolare per l'eccidio di Avola ha ricevuto ordini di non intervenire fino al limite del tollerabile. Si avverte che la corda sta per spezzarsi. Ci vuole qualcosa che rompa la tensione, almeno la diluisca. Un ragionamento, ecco quel che ci vuole. Che renda esplicitamente chiaro il messaggio magmatico della protesta. Sì, un ragionamento può essere la chiave di volta. Afferro il megafono, mi porto sotto il naso del più vicino cordone di poliziotti e attacco.
Non ce l'abbiamo con voi - questo il succo del pistolotto - perché voi, come noi, siete figli di lavoratori e di poveri. Riflettete: il 74 per cento di voi viene dal Sud e dalle isole. Avete dovuto abbandonare le vostre case e vestire la divisa per il pane. Sappiamo quanto la vostra vita è difficile. 
Quattro giorni fa vi hanno fatto sparare su una folla di braccianti, dove magari c'era tuo padre o tuo fratello (e segnavo a dito, pronunciando quelle parole). Adesso vi fanno star qui per ore, al freddo, e per un salario misero, a proteggere i ricchi, quelli che vi hanno costretto ad abbandonare il paese e affamano le vostre famiglie. Bisogna finirla con questa situazione. Lottiamo insieme, e insieme con i lavoratori, per avere giustizia. Noi siamo qui per questo. Il primo esperimento funziona a meraviglia. Tutti i dimostranti si raggruppano intorno al megafono. I lanci cessano. I poliziotti sono sorpresi. La tensione comincia a calare. Bene. Abbiamo trovato il filone giusto. Lo utilizziamo a fondo. Ci spostiamo vicino al cordone misto di poliziotti e carabinieri. Solita musica. Si vede dalle facce che le parole entrano dentro. Mentre do fiato al megafono, saranno le 20.15, gli Operatori della Rai-Tv, che trasmettono in diretta il fasto scaligero, hanno l'idea, provvidenziale per noi, di far sentire per un attimo le voci della piazza. Molti studenti a casa, che non sapevano nulla della manifestazione, restano con il cucchiaio della minestra a mezz'aria sentendo dal televisore la voce metallica del megafono. Schizzano via come saette verso piazza della Scala. Un'ora dopo siamo quadruplicati. Continuano i comizi volanti. Ci spostiamo nell'ottagono della Galleria, tra la Scala e piazza Duomo, dov'è schierato il maggior numero di agenti. Quando ridico dei braccianti di Avola, che lì magari c'era tuo padre o tuo fratello, vedo un agente, rigido sull'attenti nella fila, giovane, avrà 22 anni, alto e magro come uno stecco, con le lacrime che gli scendono. Termino con il consueto invito alla lotta e all'unità. Sono a due metri da quel giovane che piange. Lo abbraccio forte. Mentre lo stringo, lo sento mormorare: «Sono di Lentini». Lentini è un grande centro agricolo, a un tiro di schioppo da Avola. Chiedo scusa, ma, quando ripenso a quel fatto, mi commuovo ancora oggi. E se qualcuno pensa che questa è ricostruzione romanzata dopo vent'anni, sappia che ci sono decine di testimoni oculari di quell'episodio.
Questa è stata la contestazione alla Scala che, con mio grande cruccio, ha finito col simboleggiare il '68 italiano. Va da sé che non avevamo nulla contro il Don Carlos di Giuseppe Verdi messo in scena quella sera. L'indomani il «Corriere» scriverà: «Gazzarra davanti alla Scala» e «Tentativi sediziosi dei dimostranti», ovvero la realtà diminuita e stravolta a tavolino.

Tratto dal libro di Mario Capanna
"Formidabili quegli anni", pag. 38

martedì 1 dicembre 2015

Il regno delle cose

La signoria inequivocabile che toglieva tutto a tutti consumava senza residui la sua ricchezza: la miseria era astante, inginocchiata. La ricchezza era la celebrazione, concentrata nell’essenza dei signori, del sacrificio di tutti. L’estrazione di ricchezza dalla miseria trapassava nella pura trascendenza della signoria, specchio chiaro in cui la miseria riconosceva il proprio sacrificio e la sua irreversibilità. Non altro poteva essere distribuito che questa immagine sacra.
Ma quando la miseria astante si riconosce come classe, lo specchio è spezzato: sotto la liturgia della consumazione rimbomba la minaccia del ferro e del fuoco. Perché la minaccia non si materializzi, non diventi il ferro e il fuoco, occorre che il sacrificio perda la sua trascendenza, occorre un’eucarestia che distribuisca in particole l’agnello, che socializzi l’espiazione: occorre che il sacrificio si spieghi.
La democrazia borghese, così come tutti i centralismi democratici, non sono altro che questo: eucarestia del dominio, introiezione in ciascuno della figura parcellizzata del dominio, “spiegazione” (cioè razionalizzazione) del sacrificio (cioè dell’alienazione); liturgia del sacrificio necessario nella “grazia” (cioè nella responsabilità d’esser schiavi) del ruolo; catechismo della coscienza del ruolo contro la tentazione demoniaca del rifiuto radicale del sacrificio (cioè contro la coscienza di classe e la volontà di negazione totale dell’esistente). Perché l’operazione possa aver luogo occorre che il potere stesso perda la sua visibilità “pura”, occorre cioè che si mostri come immagine e somiglianza di ciò che vuole riprodurre identico a sé: mera funzione anonima, macchina, potere senza volto, ragione totalitaria degli insiemi separati: beati i poveri di spirito perché di essi sarà il regno delle cose.
Moltiplicando la violenza attraverso la mediazione del mercato, l’economia borghese ha moltiplicato anche i propri beni e le proprie forze al punto che non c’è più bisogno per amministrarle, non solo del re, ma neppure dei borghesi: semplicemente di tutti. Essi apprendono, dal potere delle cose, a fare infine a meno del potere.