..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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martedì 26 febbraio 2019

Quale autonomia operaia?


Gli incidenti di sabato con lo scontro a fuoco con la polizia ripropongono con urgenza la necessità di aprire un dibattito all’interno dell’area dell’autonomia.
La nostra posizione è, e lo è stata anche in passato, notevolmente critica sul modo di operare di una serie di forze organizzate all’interno dell’area, non certo sull’obbiettivo di tali proposte, cioè passare dall’area a un movimento organizzato dell’autonomia, ma sul metodo seguito. Si sta riproponendo infatti lo stile tipico del gruppo dalla critica del quale numerosi collettivi autonomi avevano preso origine: le assemblee formali convocate in statale in cui tutto era già da prima deciso, il corteo in occasione dello sciopero generale, quello del 1 maggio, sono esempi di come più che a un reale confronto con le varie situazioni, le scadenze vengono usate a fini esclusivamente di organizzazione. Il porsi appunto come gruppo dirigente, arrogandosi il diritto di definirsi “autonomia operaia” è secondo noi politicamente perdente in quanto fonte di atrofizzazione per la crescita del movimento per il quale il leaderismo e l’espropriazione della elaborazione politica sono ferri vecchi.
Oltre tutto diventa politicamente suicida quando la stessa logica di prevaricazione abbinata a una concezione insurrezionale dello scontro di classe nella fase attuale viene applicata nelle scadenze di piazza in cui tutto il movimento è coinvolto.
Lo Stato ha scelto, con la piena collaborazione dei revisionisti, il terreno dell’ordine pubblico, della criminalizzazione, per isolare l’opposizione che nelle fabbriche e nel territorio si sta organizzando contro il tentativo di ricostruzione dei margini di profitto e produttività del sistema. Lo Stato ha scelto: il terreno, la piazza, il momento, la grossa confusione esistente all’interno del movimento, gli strumenti, la polizia e i C.C. che sparano.
Accettare questo terreno di scontro che coinvolge l’intero movimento quando ancora chiarezza non esiste sull’uso degli strumenti e più in generale sul problema dell’autodifesa e secondo noi puro avventurismo in quanto porta all’isolamento, in primo luogo del progetto dell’autonomia, e favorisce lo stato nel processo di normalizzazione.
Nostro compito è la rottura del ghetto, attraverso l’intervento politico nelle situazioni con una pratica della forza legata alla situazione stessa che abbia ben presente i livelli di avanguardia e di massa per rompere la falsa immagine di quelli della P38 che l’autonomia rischia di assumere.
A nessuno è più concesso decidere per il movimento né praticare la politica del tanto peggio tanto meglio soprattutto quando questo porta a bruciare e a travisare un patrimonio storico di esperienze, analisi, organizzazione, di situazioni politiche che nessuno può negare alle forze dell’area dell’autonomia, neanche chi, ormai ischeletrito dalla incomprensione dei nuovi fenomeni sociali emergenti in questa fase storica, pensa di esorcizzare o risolvere tutte le contraddizioni a colpi di chiave inglese e di denunce delatorie.
Isoliamo chiunque seguendo una logica di prevaricazione attraverso scelte avventuriste, oggettivamente si inserisce nel progetto di normalizzazione portato avanti dal governo con la piena collaborazione dei revisionisti.

Collettivi Comunisti Autonomi
C.S. Argelati
C.S. Panettone
Centro di Lotta Contro il Lavoro Nero “Carlo Sponta”
Compagni autonomi del Romano-Vigentina
(Volantino, Milano, maggio 1976)

lunedì 25 febbraio 2019

L'individualista contro l'autorità di Èmile Armand

La lotta contro l'alienazione è la lotta contro l'autorità in qualunque modo questa abbia origine o si manifesti. L'autorità consiste nell'oppressione che grava sopra un individuo o sopra una collettività per forzarli o indurli ad acquisire delle abitudini mentali, a compiere gesti, a conformarsi ai termini di contratti che mai sono stati sottoposti al loro esame; quindi nella coercizione che li obbliga e li induce, senza possibilità di discussione o di opposizione, a compiere degli atti che se fossero lasciati alla loro volontà, certo non compirebbero. Come si vede, Armand fa propria la più classica concezione anarchica, secondo cui il rapporto di dominazione non ha particolari caratteristiche sociali, economiche o politiche perché è un rapportoneutro, universale: si applica indifferentemente ad ogni situazione storica, ad ogni contesto collettivo o individuale. Vi è dominazione laddove alcuni individui obbligano altri, non importa come, a far qualcosa contro la loro volontà. In questo senso non vi è solo un potere politico, economico, civile e militare. Il criterio individualista denuncia altresì una dominazione religiosa, morale, intellettuale, l'autorità dei pregiudizi, dei costumi, delle abitudini, delle convenzioni, delle tradizioni famigliari; l'autorità delle formule, dei dogmi, delle professioni di fede, dei programmi, la dominazione delle scuole, delle chiese, dei partiti, delle sette, dei gruppi. Insomma, denuncia la trasversalità del principio di autorità quale trama riproduttiva e neutra dell'intero universo storico-sociale.
Al rivolgimento politico-sociale va sostituita un'azione che, prima di attaccare le strutture oggettive del potere, deve minarne i fondamenti etico-culturali. Si tratta di creare una orientazione nuova della mentalità, molto più efficace della costituzione fittizia di un nuovo assetto sociale.
È da individuo a individuo che deve anzitutto propagarsi questa nozione: che è un crimine forzare qualcuno ad agire diversamente da come egli crede utile, o vantaggioso, o gradevole per la propria conservazione, per il proprio sviluppo e per la propria felicità. È ciò anche perché ogni forzatura è sempre inutile e porta risultati opposti a quelli perseguiti. In conclusione, la trasformazione rivoluzionaria rimane priva di reale effettività, senza una preliminare educazione e iniziazione dell'ambiente ove essa dovrà svolgersi.

venerdì 22 febbraio 2019

La quarta guerra mondiale


Il terrorismo, come i virus, è dappertutto. C’è una perfusione mondiale del terrorismo, che è come l’ombra portata di ogni sistema di dominio, pronto dappertutto a uscire dal sonno, come un agente doppio. Non si ha più linea di demarcazione che permetta di circoscriverlo, il terrorismo è nel cuore stesso della cultura che lo combatte, e la frattura visibile (e l’odio) che oppone sul piano mondiale gli sfruttati i sottosviluppati al mondo occidentale si congiunge segretamente alla frattura interna al sistema dominante.
Non si tratta quindi di uno scontro di civiltà né di religioni, è qualcosa che va molto al di là dell’Islam e dell’America, su cui si tenta di focalizzare il conflitto per darsi l’illusione di un confronto visibile e di una soluzione di forza. È un antagonismo fondamentale, ma un antagonismo che designa, attraverso lo spettro dell’ America (che è forse l’epicentro, ma non certo l’incarnazione della mondializzazione) e attraverso lo spettro dell’islam ( che non è certo, per parte sua, l’unica incarnazione del terrorismo), la mondializzazione trionfante alle prese con se stessa. In questo senso, possiamo si parlare di guerra mondiale, ma non della terza, bensì della quarta, l’unica veramente mondiale, poiché a essere in gioco è la mondializzazione stessa. Le prime due guerre mondiali corrispondevano all’immagine classica della guerra. La prima ha posto fine alla supremazia dell’Europa dell’era coloniale. La seconda al nazismo. La terza, che ha già avuto luogo, sotto forma di guerra fredda e di dissuasione nucleare, ha posto fine al comunismo. Dall’una all’altra, si è andati ogni volta più avanti, verso un ordine mondiale unico. Oggi, quell’ordine, virtualmente giunto al termine, si trova alle prese con forze antagonistiche diffuse ovunque nel cuore stesso del mondiale, in tutte le convulsioni attuali. Guerra frattale di tutte le cellule, di tutte le singolarità che si ribellano sottoforma di anticorpi. Scontro talmente inafferrabile che diviene necessario di tanto in tanto salvare l’idea della guerra con messe in scena spettacolari, come la guerra del Golfo o quella dell’Afghanistan. Ma la quarta guerra mondiale è altrove. È ciò che incombe su ogni ordine mondiale, su ogni dominio egemonico – se a dominare il mondo fosse l’islam, il terrorismo prenderebbe l’islam a bersaglio. Perché è il mondo stesso che resiste alla mondializzazione.

martedì 19 febbraio 2019

L'essenza stessa della democrazia diretta


Il ricatto tecnologico che pesa sul presente accomuna nella perplessità di tutti gli uomini che vogliono godere della vita al meglio delle loro possibilità.
Il governo di una società umana non può più permettersi di non avere al centro delle proprie preoccupazioni l'uomo stesso.
Una volta rimessa al centro la soggettività degli esseri umani, diventa urgente che la parola democrazia ritrovi il senso, ma anche la poesia, della sua etimologia storica. Ii governo del popolo non può essere che quello di individui liberi. La democrazia deve avere la pretesa di difendere tutti i diritti tra di loro e gli uni contro gli altri.
La pubblicità della merce che si vanta di sponsorizzare la democrazia, in realtà l'avvelena per vendere poi il suo cadavere imbalsamato. In un mondo in cui le tecniche di manipolazione sono raffinatissime e capillari, la creazione di un gregge maggioritario è un caso tanto frequente che la difesa strenua della scelte minoritarie diventa un elemento fondamentale di una società fondata su una resistenza strutturale all'addomesticamento. Poiché ogni forma burocratizzata di rappresentatività si trasforma in dittatura spettacolare della maggioranza, si deve rifiutare la delega prolungata del potere decisionale pur accettando una dose di rappresentatività resa inevitabile dal numero di individui coinvolti.
In una società della gratuità, l'intensità dei controlli che oggi l'economia dedica ossessivamente all'obbiettivo di far pagare fin all'ultimo centesimo il prezzo degli esseri e delle cose sarà invece dedicata amorevolmente alla vigilanza della libertà di ciascuno, unica garanzia della felicità di tutti.
Riprendendo una sensibilità che certe tribù guerriere del Nord America avevano già spontaneamente sviluppato, nessuna autorità decisionale deve potersi stabilire al di là di una funzione puntuale. Nessun capo deve risultare tale nella vita quotidiana del gruppo: la sola autorità, riconoscibile più che riconosciuta, è quella naturale che secerne l'umanità di ciascuno, la sua esperienza la sua qualità avverata. Una autorità, che non concede privilegi, che non ha valore gerarchico, che non si può capitalizzare ma di cui si può godere fraternamente. In questo consiste l'essenza stessa della democrazia diretta.

giovedì 14 febbraio 2019

Gli individualisti di Èmile Armand

Gli individualisti sanno che gli accumulatori di capitali e gli intermediari non si preoccupano affatto dei bisogni reali del consumo. Essi hanno come unico motore la speculazione, ossia il desiderio di far rendere il più possibile l’interesse sui fondi che impegnano nelle aziende che dirigono o di cui si occupano. Gli accumulatori di capitali e gli intermediari attivano o riducono la produzione non secondo l’aumento o la diminuzione del movimento del consumo, bensì solo se vi intravvedono un’occasione di acquisire profitti più o meno considerevoli. La qualità della produzione dipende interamente dal potere di acquisto dei consumatori e non dai loro bisogni: a consumatore agiato, prodotti di qualità superiore; a consumatore povero, prodotti di qualità inferiore.
Gli individualisti non ignorano che il lavoro attuale si compie senza metodo, caoticamente e sono al corrente della lotta accanita cui si abbandonano, gli uni contro gli altri, i grandi detentori dei mezzi di produzione, così mentre una massa di diseredati manca degli oggetti di consumo più necessari, i magazzini rigurgitano di prodotti manifatturieri!
Gli individualisti non ignorano nemmeno che la maggior parte degli operai, dei lavoratori delle fabbriche, delle officine, dei campi, degli impiegati di commercio, d’ufficio, dell’amministrazione, accettano il loro stato e non fanno nessuno sforzo reale per liberarsi, soddisfatti dei pregiudizi correnti sulla fortuna, sul rispetto che merita ogni arrivista, imbevuti di concetti retrogradi sull’accaparramento, il padronato, i monopoli, ecc. Sono schiavi di pregiudizi morali e intellettuali che mirano al mantenimento di cose stabilite e che costituiscono la base dell’insegnamento di Stato. Impauriti dalla minaccia di un licenziamento o della disoccupazione, gli infelici producono, non avendo altro scopo nella vita che passare inavvertiti, fortunati quando lo stress o il disgusto non li portano all’alcolismo o a un’altra forma di «degradazione».
L’individualista è dunque, di principio, l’avversario di ogni sistema societario in cui il lavoro sarà obbligatorio, imposto, costretto, in cui, rispetto all’ambiente sociale, il lavoratore si troverà in una dipendenza grande quanto quella in cui si trova attualmente nei confronti del capitalismo.
Perché il lavoro diventi piacere, deve perdere tutto ciò che lo fa assomigliare a una pena, a una condanna, a una espiazione, a una legge, a un’oppressione, a una soggezione, persino una sublimazione o una esaltazione mistica della fatica. Aspettando che si affermi la mentalità generale indispensabile per fare del lavoro una gioia positiva e liberatrice, all’individualista come noi lo intendiamo – solo o associato – non resta che darsi da fare per risolvere la «sua» questione economica. Al di sopra dell’interesse economico, l’individualista metterà la soddisfazione etica, il
perseguimento della serenità interiore, il godimento del piacere dei sensi. Nessuna soddisfazione varrà per lui quanto quella di sentirsi il più possibile liberato dall’assoggettamento produzione-consumo. La questione non è di sapere se l’impiego di un macchinismo sempre più perfezionato, il lavoro intruppato, la pratica del comunismo imposto o del solidarismo obbligatorio gli procureranno più vantaggi materiali – ma piuttosto cosa diventerà in quanto unità individuale, cosciente, insubordinata, pensante tramite e per se stessa.
L’individualista vuole vivere, certo, ma «liberamente».
Il lavoro, d’accordo, ma come generatore di libertà individuale, non come fattore di schiacciamento dell’uno sotto il laminatoio societario.

lunedì 11 febbraio 2019

L'uomo nella sua sofferenza è solo merce

In ogni società la classificazione della malattia (nosologia) rispecchia l'organizzazione sociale. Il male che la società produce viene battezzato dal dottore con nomi che sono molto cari ai burocrati. La incapacità di apprendimento, la ipercinesia o la disfunzione cerebrale minima spiega ai genitori perché i loro bambini non imparano, servendo da alibi all'intolleranza o all'incompetenza della scuola; la pressione alta serve da alibi per lo stress che aumenta, la malattia degenerativa per l'organizzazione sociale che produce degenerazione. Più la diagnosi è persuasiva, più appare preziosa la terapia, più è facile convincere le persone che esse hanno bisogno una dell'altra, e meno è probabile che esse si rivoltino contro la crescita industriale. Prima che la malattia fosse considerata essenzialmente una anomalia organica o del comportamento, chi si ammalava poteva ancora trovare negli occhi del medico un riflesso della propria angoscia e un qualche riconoscimento dell'unicità della sua sofferenza. Oggi, ciò che vi trova è lo sguardo fisso di un contabile di biologia assorto in un calcolo costi/ricavi. Il suo malessere gli viene sottratto per diventare materia prima di un'impresa istituzionale. La sua condizione è interpretata secondo una serie di regole astratte in una lingua che lui non può comprendere. Gli si insegna che esistono certe entità ostili che la medicina combatte, ma dicendogli solo quel tanto che il dottore ritiene necessario per ottenere la collaborazione del paziente. Il linguaggio diventa proprietà esclusiva del medico; il malato rimane privo di parole significative con cui esprimere la sua angoscia che viene così ulteriormente aggravata dalla mistificazione linguistica. Non appena l'efficacia della medicina venga valutata in linguaggio corrente, si vede subito che la maggior parte delle diagnosi e delle cure efficaci, non va oltre il livello di comprensione raggiungibile da qualunque profano. Infatti gli interventi diagnostici e terapeutici che statisticamente risultano più utili che dannosi presentano nella stragrande maggioranza, due caratteristiche: richiedono mezzi materiali estremamente economici, e possono essere dosati e predisposti per l'uso personale diretto o per l'impiego nell'ambito della famiglia.
Insomma, un uso più austero della tecnologia metterebbe in grado tutti di curarsi nella maggior parte dei casi da soli. Ma non è l'efficacia dell'intervento ciò che interessa la medicina della società massificata, la sua regola è invece andare più possibile incontro alle esigenze di un consumatore per il quale domina la mitologia dell'efficienza medica.
L'uomo nella sua sofferenza e angoscia è ancora una volta solo merce!

domenica 10 febbraio 2019

Torino, 9 febbraio: un corteo giovane, numeroso e determinato

La giornata di ieri era attesa e il suo esito nell’aria. Già la risposta di venerdì dopo l’irruzione all’Asilo di giovedì aveva mostrato che lo sgombero di uno spazio occupato non poteva compiersi in tutta tranquillità, senza pagare un prezzo alto e subire una risposta determinata. Le centinaia di persone che l’altra sera hanno provato a raggiungere l’Asilo sotto sgombero, questo sabato sono diventati migliaia: se il questore si ostina a definire “anacronistiche” alcune esperienze politiche e sociali che si muovono in questa città, ieri abbiamo visto in piazza una presenza giovanile ampia e generosa, decisa a difendere l’anomalia Torino.
Il corteo si è dato appuntamento nella centralissima piazza Castello, per muoversi lungo via Po e risalire poi da corso San Maurizio in direzione Porta Palazzo. Attraversato il mercato, il corteo si è mosso lungo la Dora per poi tentare l’ingresso nel quartiere Aurora – al centro degli appetiti speculativi che hanno portato allo sgombero di un posto occupato e vissuto da 25 anni – sul ponte corso regio parco la polizia ha cominciato un fitto lancio di lacrimogeni arrivati anche sui balconi dei palazzi adiacenti. Il corteo è poi tornato verso porta palazzo, ha lambito il centro subendo diverse cariche e seminando barricate, per poi concludersi in Vanchiglia. Si contano quattro feriti tra i manifestanti tra cui uno, pare, in codice rosso [si tratta in realtà di un codice giallo NdR] mentre dodici persone sarebbero in stato di fermo.
I giornali di regime già piangono i danni, mentre la politica cittadina si affanna a condannare ciò che è successo, enfatizzando questo e quell’episodio che non cambia il dato politico che esce dalla giornata. Il tentativo di chiudere i conti con l’esperienza degli spazi occupati torinesi sarà ben più difficile di quanto i tweet di sindaca e ministro dell’interno lascino intendere. Solidarietà agli arrestati e ai feriti!


venerdì 8 febbraio 2019

Solidarietà ai compagni dell’Asilo!

Siamo solidali con i compagni e le compagne dell’Asilo Occupato sgomberato. In città è calato un pesante clima di repressione: alle prime luci dell’alba di ieri la polizia ha fatto irruzione in via Alessandria e nella Casa occupata di corso Giulio Cesare, per eseguire diversi arresti e per sgomberare l’Asilo.
Celerini giunti da ogni parte d’Italia, un intero quartiere militarizzato e chiuso dalla poliziasono gli ingredienti di un attacco frontale a una storica esperienza di autogestione in città, un’alternativa reale all’abbandono e alla speculazione capitalista, alle logiche della competizione e della sopraffazione. L’operazione poliziesca, condotta dalla questura di Torino con particolare violenza, è il frutto maturo del “decreto sicurezza” e delle misure liberticide del governo 5Stelle-Lega. Nel nome della legalità, della sicurezza e del “decoro” si intende consolidare l’ordine autoritario colpendo a fondo le condizioni di vita degli oppressi e degli sfruttati.
L’accusa di associazione sovversiva è scattata contro decine di compagni, per sei dei quali la ben nota PM Pedrotta ha chiesto ed ottenuto la detenzione in carcere. L’applicazionedell’articolo 270 del codice è un attacco alle lotte contro i CPR e contro l’intera macchina delle espulsioni: ben chiara è la volontà di colpire chi non accetta l’ordine politico e sociale in cui siamo forzati a vivere.
Di fronte a queste accuse siamo tutti sovversivi. Tutti impegnati contro le prigioni per migranti e le deportazioni dei senza carte.
Il Ministro dell’interno e la sindaca Appendino non hanno perso l’occasione per dare aria alla bocca, congratulandosi con la polizia per l’operazione repressiva nel cuore di Aurora. I media mainstream sfoderano le loro armi migliori contribuendo al processo di criminalizzazione di ogni forma di dissenso sociale.
Ora più che mai è fondamentale non chinare la testa, continuare a battersi per la difesa e la riappropriazione degli spazi sociali autogestiti e ribadire che i veri terroristi sono lo Stato e i suoi cani da guardia.
Solidali con chi occupa, solidali con chi lotta.
Liber* Tutt*!

giovedì 7 febbraio 2019

Asilo sotto sgombero, occupanti sul tetto, corteo serale


È prima dell’alba che decine di camionette in assetto anti-sommossa sono sbarcate all’Asilo di via alessandria, occupato dal 1995. Mentre alcuni occupanti riuscivano a raggiungere il tetto, è iniziato un vero e proprio assedio intorno alla palazzina. Tutt’intorno scene surreali, con una polizia in stile rambo che ha bloccato contro il muro una decina di solidali per ore, mentre altri venivano caricati fin dentro il centro cittadino per il solo fatto di essersi voluti avvicinare alle persone sul tetto. Uno sgombero condotta nel grottesco stile, in cui l’ingente spiegamento di forze non serve tanto a gestire l’ordine pubblico quanto ad attestare la pericolosità degli sgomberati. Non si tratta solo di isolare e prevenire l’espressione di qualsiasi solidarietà, la paura che rimanda l’invasione di un quartiere da parte centinaia di robocop armati di tutto punto diventa incarnazione e testimonianza della paura che devono suscitare gli occupanti. Un quartiere, quello di Aurora, su cui planavano da tempo gli avvoltoi di interessi speculativi legati al rilancio di una zona molto appetitosa, a ridosso del centro, destinata a diventare un polo di Torino capitale del food e in cui la presenza dell’asilo risultava nota stonata.
Come spesso accade, questura e procura si sono mosse a braccetto, accompagnando allo sgombero un’indagine volta a far rientrare le lotte portate contro i centri di espulsione per migranti (già CIE ora CPR) nelle casella delle attività definite con finalità "terroristiche".
Dopo comunicati trionfanti della questura (che non aveva fatto i conti con la tenacità degli occupanti che sono tutt’ora sul tetto) e la diretta facebook di politici che si sono svegliati di buon’ora per nascondersi dietro la polizia e gongolare davanti all’asilo augurandosi anche lo sgombero dell’askatasuna, è arrivata anche la comunicazione della sindaca che ci ha tenuto a prendere parola. Scelta piuttosto inusuale davanti a un’operazione “di pubblica sicurezza” che la dice già lunga sull’assoluta contiguità in cui si trovano politica e polizia ormai l’una il prolungamento dell’altra. Al di là dell’opportunità, il contenuto della presa di parola della sindaca è carica di significati politici e fanno accapponare la pelle. L’operazione di sgombero è sguaiatamente definita “momento atteso” attestando una volta di più che la funzione avuta dal movimento 5 stelle a livello cittadino è stato precursore degli sviluppi nazionali. Consentire le peggiori politiche di estrema destra investendole di un’aura che non avrebbero mai avuto senza il contributo pentastellato: quella del cambiamento.
Alla sera è arrivata la risposta cittadina. Mentre intorno all’Asilo la polizia si sforzava di mantenere un’atmosfera spettrale, con il traffico bloccato per un perimetro di cento metri e decine di agenti a ogni angolo di accesso, un corteo di diverse centinaia di persone si è mosso dopo un’assemblea a radio-blackout tentando di raggiungere gli occupanti ancora asserragliati sul tetto. Sono seguiti scontri e cariche, col corteo che si è poi diretto verso il centro seminando barricate dopo il suo passaggio.
Mentre il questore ostenta nonchalance convincendosi che gli occupanti scenderanno da soli, la resistenza continua…

domenica 3 febbraio 2019

Gilet gialli 12° sabato; contro le violenze della polizia


Ancora un sabato di mobilitazioni in Francia questa volta sotto il segno della denuncia delle violenze della polizia.
Il movimento iniziato il 17 novembre per chiedere la caduta di Macron non demorde e rilancia. La giornata del 2 febbraio, dodicesimo atto, è un omaggio ai gilet morti durante il movimento (quattordici vittime, di cui 11 in Francia e 3 in Belgio) e una forte denuncia delle violenze della polizia. Una brutalità che ha fatto in qualche settimana più di duemila feriti. Tra loro un centinaio sono gravi, quattro persone hanno avuto la mano strappata e quattordici  hanno perso un occhio. Al centro delle polemica c’è in particolare l’uso dell’LBD, un lancia granate a frammentazione di cui la polizia francese sta abusando da anni, mirando alla testa e facendo morti e feriti. Della questione si è finalmente parlato anche nei media dopo il ferimento in diretta di Jerome Rodrigues, una delle figure più in vista del movimento, che sabato scorso stava facendo una diretta fb quando è stato colpito da una granata perdendo un occhio.
A Parigi per il 12° sabato presenza quasi raddoppiata con una lunga marcia aperta proprio dai gilet feriti. La manifestazione ha sfilato fino a Place de la République dove già sabato scorso aveva avuto luogo una sorta di Nuit Debout dei gilet, riprendendo la pratica del movimento di occupazione delle piazze del 2016. Una risonanza insopportabile per le forze dell’ordine che hanno sgomberato immediatamente la piazza sia sabato scorso che questo sabato con l’uso di granate e cariche. Da segnalare nella capitale l’azione dei gilet gialli antifascisti che hanno cacciato dal corteo alcuni gruppi neo-fascisti e monarchici che se la sono dovuta dare a gambe levate. Migliaia di gilet in cammino anche a Marsiglia con la manifestazione aperta da uno striscione coperto di vernice rossa come il sangue dei gilet feriti. È qui che ha sudato freddo Renaud Muslier, un politico di centrodestra che aveva lanciato nelle scorse settimana una raccolta fondi in sostegno della polizia e che ha incrociato il corteo marsigliese.  Sputi e insulti sono volati contro l’ex-deputato che è riuscito ad andare via solo diversi minuti dopo. Una delle mobilitazioni più importanti si è svolta a Valence, con diecimila persone in piazza bersagliate dai lacrimogeni della polizia. In migliaia in strada anche a Tours.
A Lione bloccata l’autostrada A7, poi ritorno in centro città dove ci sono stati scontri con la polizia. A Strasburgo una manciata di gilet è riuscita a raggiungere il parlamento europeo prima di essere bloccati. Barricate a Rouen e tensioni a Bordeux. Blocco della circolazione a Montpellier oltre che in centinaia di altri piccoli centri.
La chiarezza nell’individuare le violenze della polizia come perno del 12° sabato segna un ulteriore salto politico del movimento. Dietro la denuncia degli “abusi”, è la legittimità stessa del monopolio della violenza affidata allo Stato che viene rimessa in dubbio. Come a dire, il movimento avanza e arriva al cuore delle prerogative sovrane delle istituzioni repubblicane. D’altronde che il campo del contendere fosse esattamente questo lo ha reso chiaro proprio il governo. Non soltanto autorizzando la brutalità delle forze dell’ordine ma anche facendo dell’uso della forza da parte dei gilet il centro di una campagna di delegittimazione della protesta.
È questa forza che ora bisogna spezzare a ogni costo anche con leggi speciali come il cosiddetto progetto di legge “anti-casseurs” in discussione in questi giorni all’Assemblée nationale che prevede un divieto amministrativo di manifestare (il DASPO di piazza che tanto piace ai politici italiani) e l’introduzione della possibilità di arresto per il solo fatto di coprirsi il viso durante un corteo. Misure controverse anche all’interno della stessa maggioranza, con una parte che punta il dito contro una forte limitazione delle libertà civili.
Nel frattempo è stato annunciato finalmente, per il 5 febbraio, lo sciopero generale da parte del principale sindacato, la CGT. Tutti aspettano quindi martedi quando potrebbe finalmente concretizzarsi la convergenza tra il movimento dei gilet e un mondo sindacale per ora molto timido, frenato da una dirigenza che ha preferito glissare sulle richieste di sciopero che venivano dalla stessa base dei sindacati. L’economia, allora, potrebbe fermarsi davvero.