..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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domenica 30 aprile 2023

Primo Maggio: giornata di lotta internazionalista

 

La storia del primo maggio, della giornata di lotta internazionale dei lavoratori, è per lo più sconosciuta alla maggior parte della gente. Deformazioni e strumentalizzazioni varie hanno trasformato il primo maggio, una giornata di lotta, in una festa istituzionalizzata e santificata, considerata come l’occasione per andare a vedere un concerto rock o per organizzarsi un fine settimana turistico.

Cosa ha originato realmente questa giornata di lotta e il suo significato classista si è diluito progressivamente nel tempo, fino a far perdere la cognizione della sua importanza.

La storia ci dice che all’origine del primo maggio vi fu il grande movimento di lotta che negli anni ‘80 del XIX secolo mobilitò milioni di lavoratori in America ed in Europa per la conquista delle otto ore lavorative, e non solo. Nell’ottobre del 1884 il quarto congresso delle Unioni Federate degli Stati Uniti decise di promuovere una grande campagna di mobilitazione per le otto ore lavorative.

Il primo maggio del 1886 sarebbe stato il suo momento culminante. Per tutto il 1885 numerose furono le iniziative di lotta, che si estesero fino alla primavera dell’anno successivo. Il primo maggio 1886, a Chicago, città da cui era partita la campagna, oltre 50.000 lavoratori incrociarono le braccia per imporre al padronato le otto ore lavorative.

Cortei, comizi ed iniziative varie caratterizzarono la giornata e quella successiva in un clima di tensione dove le provocazioni e la repressione poliziesca andavano aumentando. Il 3 maggio, davanti alle fabbriche Mc Cormik, in Haymarket square si svolse un importante presidio di lavoratori per impedire azioni di crumiraggio.

Fu organizzata un’assemblea in cui presero la parola gli esponenti più importanti del movimento, militanti anarchici che consideravano la campagna per le otto ore come una prima tappa non solo per ottenere maggiori diritti, ma per mettere in discussione l’organizzazione statalista e capitalista stessa della società.

Alla fine dell’iniziativa, agenti della polizia e dell’agenzia investigativa Pinkerton caricarono i manifestanti a freddo, iniziando a sparare all’impazzata. L’esito fu di quattro morti e di centinaia di feriti. La reazione operaia non si fece attendere, ed il giorno dopo, il quattro maggio, ventimila lavoratori e lavoratrici erano presenti in Haymarket square, il luogo della strage. Spies, Parsons e Fielden, i leader anarchici, parlarono alla folla, in un clima carico di tensione, ma sostanzialmente pacifico tanto che il sindaco stesso di Chicago, che aveva autorizzato la manifestazione, poco prima del termine se ne andò convinto che tutto si sarebbe concluso pacificamente.

Al contrario, poco dopo si scatenò la reazione della polizia che presidiava la piazza, la quale, ricalcando lo stesso copione del giorno prima, iniziò a caricare i presenti. Nel trambusto che si originò, una bomba, la cui paternità è storicamente ancora incerta, scoppiò in mezzo ad un plotone di poliziotti e da ciò ne conseguì l’inizio degli spari sulla folla e il via libera, nei giorni successivi, ad una campagna di violenza e di terrore nei confronti degli operai.

Le prime vittime di questa caccia al rivoluzionario furono proprio gli esponenti di maggiore spicco del movimento dei lavoratori, gli anarchici che avevano dato forza e coscienza al movimento di lotta: Adolphe Fischer, August Spies, George Engel, Albert Parsons e Louis Lingg, condannati a morte, dopo un processo farsa, ed impiccati nel novembre del 1887. Louis Lingg sfuggì alla forca morendo suicida in carcere. Oscar Neebe, Samuel Fielden e Michael Schwab, altri tre anarchici coimputati scontarono invece “solo” sette anni di galera. Questi compagni passarono alla storia come i martiri di Chicago che il movimento internazionale dei lavoratori propose di ricordare, nel 1889 a Parigi, in una giornata di sciopero generale fissata appunto per il primo maggio di ogni anno.

Questa avrebbe rappresentato puntualmente una scadenza di lotta per la conquista delle otto ore lavorative, per ricordare le vittime delle lotte operaie e punto fermo per ogni speranza e rivendicazione di emancipazione del proletariato mondiale.

E questo, il primo maggio, rappresentò per molti decenni successivi: una scadenza annuale comune a tutto il movimento dei lavoratori, in ogni parte del mondo.

Una giornata di lotta e di memoria storica. E molto spesso, fu proprio da questa giornata che la mobilitazione di massa dei lavoratori segnò momenti storici particolari, durante le due guerre mondiali, durante la Resistenza e l’antifascismo.

Oggi parlarne ha un senso non solo per conservarne la memoria storica, ma per il contenuto, il significato che essa rappresenta in termini di coscienza di classe e di lotta degli sfruttati dove, in tema di orario di lavoro, diritti, salari, emancipazione, cambiamento della società liberista imperante, c’è molto da fare, non solo per riconquistare diritti e dignità rubati, ma per gettare sullo scenario dello scontro di classe in atto, attualmente gestito dal padronato, la forza e l’utopia delle masse lavoratrici.

giovedì 27 aprile 2023

Privilegio

 

Quindi, come possiamo veramente cambiare le cose in modo che il privilegio sparisca e che le persone siano tanto libere quanto vogliono essere? Per cominciare dobbiamo uscire dalle nostre zone di sicurezza e ascoltare quello che i meno privilegiati di noi hanno da dire su come il nostro privilegio li tocca. Se non attiriamo alcuni tipi di persone nei nostri gruppi e comunità dobbiamo scoprire perché e fare qualcosa al riguardo. A volte la soluzione è semplicemente ascoltare quello che i membri di un gruppo escluso stanno dicendo sulla tua comunità, anziché presupporre di sapere di cosa si tratta. Questo non significa riempirsi di un senso di colpa paralizzante; significa identificare quali sono i problemi e fare qualcosa per risolverli. Dobbiamo essere aperti sulle nostre idee e sul perché ci opponiamo ai sistemi gerarchici che favoriscono alcune persone e alcune culture sulle altre, e sul perché devono essere cambiati. Anziché allontanare le persone dal coinvolgersi dicendo loro quanto sono cattive per il fatto di essere privilegiate, abbiamo bisogno di coinvolgerle di più nel movimento contro il privilegio. Il senso di colpa non cambia le persone — le scagiona. La colpa fornisce ai privilegiati una piccola punizione attraverso la quale si sentono assolti per avere uno status privilegiato. Se vogliamo cambiare il mondo per il meglio abbiamo bisogno di sentirci bene su quello che stiamo facendo, senza dover affermare una posizione speciale sugli altri o crogiolarci inutilmente nell'angoscia. È il privilegio che deve essere attaccato, non la persona.

lunedì 24 aprile 2023

Gli anarchici e il potere

La rivoluzione spagnola trascende i suoi confini spazio-temporali perché si pone come quell’esperienza che ha riassunto e concretizzato tutti i maggiori problemi, teorici e ideologici, tattici e strategici, maturati dal movimento operaio e socialista fin dalla Prima Internazionale: il rapporto tra avanguardia rivoluzionaria e masse popolari, fra movimento specifico e organizzazione sindacale, le alleanze militari e politiche fra forze autoritarie e libertarie, le implicazioni e la verifica della reale portata dell’internazionalismo, la dimensione creativa e pluralistica dell’autogestione sono tutte questioni infatti che si trovano per intero nel particolare avvenimento iberico e che come tali gli conferiscono una valenza interpretativa generale. Essa rende evidente questa valenza «transitoria» che rappresenta, in una dimensione tragica e titanica, l’universalità dei problemi rivoluzionari di ogni ordine e grado. In modo particolare è possibile rilevare il problematico intreccio fra gli elementi ideologici propri all’anarchismo e quelli specifici della sua versione spagnola perché questa, esprimendosi a livello di massa, mette in luce una situazione del tutto nuova e complessa. Contemporaneamente allo sviluppo quantitativo dell’anarchismo (diffusione ed estensione della CNT-FAI, aumento vertiginoso dei suoi aderenti), assistiamo paradossalmente ad un immiserimento qualitativo dei suoi caratteri peculiari, delle sue tendenze e delle sue aspirazioni ideologiche. In altri termini, mano a mano che le organizzazioni anarchiche crescono e si estendono durante il periodo rivoluzionario, si restringono –quasi proporzionalmente – i valori etici e scientifici del patrimonio ideologico libertario. Questo progressivo abbandono degli insegnamenti teorici pone in risalto la specificità storica dell’esperienza spagnola, che si evidenzia, appunto, in questa contraddittorietà: da un lato la diffusione e l’estensione quantitativa delle organizzazioni storiche, dall’altro la riduzione qualitativa del sapere e dei valori rivoluzionari.

La partecipazione al governo o la resa di fronte alle manovre controrivoluzionarie dei comunisti nelle giornate di maggio del ’37 a Barcellona non rappresentano che gli esempi più clamorosi, perché più noti, di tale incongruenza che di fatto si risolve nella generale condotta suicida delle organizzazioni CNT-FAI rispetto alle possibilità operative aperte dalla forza storica del movimento anarchico iberico. Questo venir meno dei presupposti ideologici è dovuto all’accettazione della falsa dicotomia strategica fra guerra e rivoluzione, fra fronte popolare e autonomia libertaria, fra antifascismo e antiautoritarismo. L’aver praticato progressivamente tutti i primi termini di questo dilemma (guerra, fronte popolare, antifascismo) a scapito dei secondi (rivoluzione, autonomia libertaria, antiautoritarismo), l’aver accettato l’immediata realtà storica e non aver invece esplorato la realtà possibile del progetto anarchico ha portato l’anarchismo spagnolo alla contraddizione di se stesso. Va detto però che contemporaneamente a tale incongruenza l’anarchismo esprime anche una diversa realtà. A riaffermare infatti i suoi principi rimangono le migliaia di anonimi militanti che, al fronte come nelle collettività, tentano di creare, fra enormi difficoltà tecniche e materiali, fra il sistematico sabotaggio dei controrivoluzionari comunisti, l’attacco nazi-fascista e il tradimento della sinistra legalitaria – tutte forze obiettivamente confluenti – la più grande realizzazione politica e sociale del riscatto umano. In tutti i casi, la contrapposizione all’interno del movimento anarchico spagnolo dei due momenti, quello dell’accettazione dei tempi storici e quello opposto di praticare fino in fondo quelli rivoluzionari, l’obiettiva frattura fra «dirigenze anarchiche » e masse popolari o, in termini più precisi, fra gli ambiti e le strutture organizzative della CNT-FAI e l’autonomia e la creatività libertarie, rende evidente la generale contraddizione che caratterizza l’esperienza del 1936-39, investendo l’analisi anarchica del rapporto fra politica e potere. Si sa infatti che per l’anarchismo queste due dimensioni sono equivalenti perché vengono identificate in uno stesso agire, precisamente nei moventi e negli esiti del principio di autorità. Esse si risolvono nel medesimo modo, quando tale principio è posto sul piano dell’effettività storica. Detto in altra maniera: la politica è la fenomenologia del potere, di cui lo Stato rappresenta l’espressione storicamente più compiuta perché ne esprime al tempo stesso la forma simbolica e la valenza reale. Le esperienze rivoluzionarie sembravano confermare, fino alla soglia della rivoluzione spagnola, questo assunto della sostanziale identificazione tra politica e potere, questo schematismo logico di spiegazione della azione sociale diretta a fini coercitivi. Si può insomma dire che, se non vi è stata una convincente aderenza alla tesi del modello euristico, non vi è stata neppure una decisiva smentita alle sue prerogative ideologiche: ogni qual volta il moto rivoluzionario aveva imboccato –non importa sotto quali spoglie – la via della ricomposizione del principio di autorità, la sua dimensione emancipatoria si era affossata entro i canali del tutto prevedibili della logica istituzionale e razionalizzatrice dell’esistente.

Ebbene, il caso spagnolo ha posto in discussione tale teorema anarchico, evidenziandone la sua mera radice ideologica. Lo svolgimento storico che va dal 19 luglio 1936 al 7 maggio 1937 segna in Catalogna, cioè nella regione in cui gli anarchici furono la forza maggioritaria del moto emancipatore, una svolta epocale. Esso chiude il ciclo del protagonismo operaio e socialista di segno rivoluzionario, mettendo fine in Europa all’età delle rivoluzioni popolari, anzi, per meglio dire, alla prima e ultima rivoluzione proletaria dell’Occidente europeo. Contemporaneamente, apre un’altra fase storica la quale si trova segnata da una latente ambivalenza. In essa permangono due tendenze eterogenee: da un lato risulta esaurita la spinta sovversiva del movimento operaio, dall’altra, invece, insiste l’esigenza di una trasformazione radicale della società, anche se non vi è più un esplicito soggetto ad impersonificare l’azione. L’anarchismo in Spagna rende evidente la sostanziale impossibilità di un passaggio non traumatico dalla società del dominio alla società della libertà, ma per far questo deve anche vanificare la credenza, del tutto mitica, di un’univoca modalità trasformatrice che sarebbe data dal protagonismo insostituibile e determinante della forza proletaria. Proprio perché è stato il movimento anarchico ad essere il solo movimento che ha reso rivoluzionario il proletariato, è da allora possibile constatarne l’esauribilità sociale, nello stesso tempo in cui si manifesta, palese, la persistenza «transtorica» dell’istanza universale aperta dai princìpi del 1789. Cioè, le condizioni storiche della rivoluzione socialista vengono meno, ma la domanda di una trasformazione radicale dell’esistente continua a sussistere.


venerdì 21 aprile 2023

Il capitale umano

Hanno ancora bisogno di farci credere che la sopravvivenza promossa a vita sia il controvalore sostanziale del lavoro come sacrificio necessario, occultando il più a lungo possibile la patente verità della vita come lavoro. Tanto meno orribile sarà la vita, tanto più ogni suo co-produttore vi si investirà per valorizzarsi, tanto più dunque il capitale dal volto umano realizzerà in ciascuno il suo valore.

Sfondando il muro di una soggettività già carcerata dalla storia, l’economia politica trabocca all’interno di ogni essere; rapidamente livella ogni vuoto, semplicemente occultandolo. Nel momento in cui l’identico si riproduce omogeneamente al di là come al di qua della soggettività trapassata, essa perde i tratti del carcere che è sempre stata, e assume i tratti dell’azienda produttrice. Ogni azienda produttrice è una zecca, da quando il denaro si è transustanziato in credito, e il capitale fittizio valorizza sul buon nome dell’impresa. Ogni azienda stampa il suo denaro inesistente, se leggi in trasparenza, al di là della facciata, le somme rosse del suo castelletto di sconto. Così in ciascuno il capitale realizza un imprenditore di sé: fondando ogni personalità come azienda, immettendola nella circolazione apoplettica del credito, dove a circolare è la generalità del non-avere. Il capitale che si fa uomo, fa di ogni uomo il capitale, di ogni vita l’impresa del valore, di ogni persona un’azienda in debito permanente del suo senso, creditrice permanente del non-senso generalizzato.

martedì 18 aprile 2023

Proudhon e Bakunin

 

Proudhon è stato, in “Che cos’è la proprietà?”, il primo a definirsi esplicitamente come un anarchico, ed il primo a conferire al concetto di “anarchia” una connotazione positiva. Precedentemente, infatti, anarchico ed anarchia erano termini utilizzati esclusivamente in accezione negativa, identificando l’assenza di un principio di governo e di gerarchia (dal greco “anarchos”) con il caos: Proudhon, invece, come abbiamo visto nelle scorse pagine, cerca di dimostrare che la libertà può essere “madre dell’ordine”. Prima di lui c’erano già stati altri pensatori che avevano esposto idee e valori che oggi inquadriamo all’interno dell’anarchismo, in primis Godwin e Stirner: questi, però, non avevano mai definito se stessi come anarchici. E’ stato Proudhon, quindi, colui che ha dato inizio all’anarchismo consapevole di se stesso, gettando, con le sue teorie riguardanti l’autogestione ed il rifiuto dello stato, le basi della filosofia e del movimento libertario. Questo ruolo di pioniere gli è stato pienamente riconosciuto da due dei personaggi di maggior spicco della storia dell’anarchia: Bakunin e Kropotkin. Il primo ha infatti affermato che “Proudhon è il maestro di tutti noi”.Sia Bakunin che Kropotkin, quindi, sono stati profondamente influenzati dalle teorie del pensatore francese, ma entrambi se ne discostano per alcuni, significativi, aspetti. Sono due, i principali punti su cui le idee bakuniane divergono da quelle proudhoniane: il modo in cui attuare il cambiamento, ed il tipo di organizzazione economica da dare alla futura società anarchica. Per quanto riguarda il primo punto, Bakunin si trova perfettamente d’accordo con Proudhon quando afferma che “la rivoluzione deve necessariamente precedere la rivoluzione esterna, anche perché questo mutamento radicale dell’uomo è il necessario presupposto del successo di quella”: questa idea, ponendo come fondamentale il mutamento interno ad ogni singolo individuo, contrasta fortemente con la teoria marxista di una rivoluzione realizzata da una ristretta avanguardia a capo di una massa proletaria informe, ed abbraccia quindi perfettamente quella concezione individualistica del mondo già espressa da Proudhon. Bakunin, tuttavia, rifiuta, considerandola sostanzialmente utopica, la teoria di Proudhon secondo la quale il passaggio dal capitalismo all’anarchia debba avvenire in modo graduale e pacifico. Pur rendendosi perfettamente conto dei mali connessi ad una rivoluzione violenta, giudica quest’ultima come l’unico mezzo possibile per l’abbattimento dello stato: quest’ultimo, infatti, non farà mai harakiri spontaneamente. “La distruzione è un passo necessario per ottenere quell’effetto rigenerativo della società e dei singoli che la compongono che solo la rivoluzione può produrre”. Il secondo punto di rottura, riguarda l’organizzazione da instaurare con l’anarchia. Bakunin, pur conservando alcuni aspetti del mutualismo proudhoniano, teorizza il collettivismo. “Bakunin e i collettivisti della fine del decennio 1860-70, cercando di adattare le dottrine anarchiche a una società sempre più industrializzata, sostituirono all’idea proudhoniana del possesso individuale l’idea del possesso da parte di istituzioni volontarie, pur tenendo fermo il diritto del singolo lavoratore di godere il frutto delle sue fatiche o l’equivalente di esso”. Con Bakunin, il gruppo di lavoratori, la collettività, prende il posto del lavoratore singolo come unità di base dell’organizzazione sociale: questa soluzione era ritenuta necessaria se, dall’economia prevalentemente agricola ed artigiana che caratterizza il pensiero di Proudhon, si passano ad affrontare i problemi di una società industriale. Bakunin, tuttavia, resta vicino alle idee proudhoniane quando si oppone alla formula anarco-comunista “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, affermando che si deve invece organizzare la produzione secondo quest’altro principio: “da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo quanto ha fatto”. Solo in questo modo, infatti, secondo lui si può evitare che l’ozioso sfrutti il volenteroso fermo restando la necessaria solidarietà da attuare nei confronti di coloro che non hanno possibilità di lavorare.

sabato 15 aprile 2023

Autodifesa, parte dell’istinto umano

La maggior parte della popolazione mondiale vive in condizioni deplorevoli, non perché non è diventata civilizzata o modernizzata, ma perché è obbligata ad essere la manodopera del cosiddetto potere del primo mondo. Alcuni di noi vivono nel primo mondo soffrendone, con estrema alienazione, deterioramento fisico, distorsione psicologica, e vuoto spirituale, non ci sono dubbi che siamo tutti diretti in un percorso unidirezionale verso la sorte avversa. Quindi nell'essere anarchici si è automaticamente rivoluzionari, o comunque atti a promuovere l'insurrezione a scopo di liberazione. Questo può avvenire in diverse forme, ma la riforma dei sistemi di dominazione non sono punti di vista anarchici. Mentre molte azioni anarchiche possono essere considerate non violente, non esiste limite da porre alla nostra resistenza. Come anarchisti, dobbiamo rifiutare i limiti ideologici e filosofici mentre scegliamo come resistere. L'interazione fisica con l’autorità necessita di andare oltre la passività e i simboli. Infatti, molti anarchici adottano la violenza rivoluzionaria come reazione naturale e necessaria all'oppressione. Se noi guardiamo ovunque nel mondo naturale, osserviamo che l'auto-difesa fa parte dell’istinto umano. È importante mettere in discussione le limitazioni ideologiche che provengono da luoghi di estremo privilegio. Molte persone della Terra non hanno la possibilità di decidere quale sia la risposta più giusta alla dominazione, e spesso devono scegliere fra la vita e la morte. Non è questione di riflessione personale o di perfezionismo ideologico; è agire o morire. Questo non significa che tutto deve essere collegato alla resistenza violenta, ma piuttosto, sapendo che esiste, ammettere che è giustificata (in molte situazioni), e che non deve essere condannata. La violenza rivoluzionaria, nelle sue varie forme, è una risposta necessaria alla violenza istituzionale del sistema, ed è necessaria per la continuazione di tutte le forme di vita.

martedì 11 aprile 2023

Proudhon e Marx

 

L’incontro fra Marx e Proudhon riveste un’importanza storica, in quanto si manifestarono in esso i primi segni di quel conflitto inconciliabile fra socialismo autoritario e anarchia che avrebbe toccato il suo punto di massima violenza venticinque anni dopo, in seno alla I Internazionale. Questo rapporto, però, era iniziato nel migliore dei modi subito dopo la pubblicazione di «Che cos’è la proprietà?», che colpì molto positivamente Marx, dandogli anche molti spunti di riflessione. È, infatti, molto probabilmente sotto l’influsso dell’opera proudhoniana che il futuro autore de «Il Capitale», in un articolo pubblicato sulla «Gazzetta Renana» nel 1842, scrisse: “Se qualunque offesa alla proprietà, senza distinzione, senza specificazioni, è furto, non sarebbe da dirsi furto ogni proprietà privata? Colla mia privata proprietà non escludo io tutti gli altri da questa proprietà? non ledo in tal modo il loro diritto di proprietà?”. Secondo Gurvitch e Bancal, inoltre, è dal seguente passo di «Che cos’è la proprietà» che Marx avrebbe tratto spunto per la sua teoria del plus-valore o plus-lavoro. Nonostante alcune critiche, Marx cercava di instaurare uno stretto rapporto con Proudhon, pensando di poterlo “convertire” alla sua nascente dottrina comunista: la rottura tra i due, però, si consumò già nella seconda metà degli anni ‘40 del XIX secolo. Una rottura che verteva essenzialmente su due grossi punti: il rifiuto, da parte di Proudhon, del comunismo e del dogmatismo marxiano, e un’opposta concezione del metodo con cui attuare il cambiamento della società. Due punti messi perfettamente in luce da Proudhon nel replicare ad una lettera in cui Marx, nel ’46, gli proponeva di istituire una costante cooperazione, utile ai fini della discussione e dell’azione. Il pensatore francese rispose così: “Faccio professione in pubblico di un quasi assoluto antidogmatismo economico. Non facciamo di noi stessi, perché siamo alla testa di un movimento, i campioni di una nuova intolleranza, non posiamo ad apostoli di una nuova religione, sia pure la religione della logica e della ragione. Raccogliamo e incoraggiamo tutte le proteste, rifiutiamo ogni esclusivismo, ogni misticismo; non consideriamo mai esaurita nessuna questione. A questi patti aderirò volentieri alla vostra associazione; altrimenti, no!”.

Risulta quindi evidente, innanzitutto, come Proudhon rifiuti qualsiasi pretesa di venire a capo di verità assolute, e ritenga invece fondamentali i principi della tolleranza e della libera e costante critica di ogni teoria. L’antidogmatismo, del resto, è una caratteristica che sarà tipica di tutto il movimento anarchico successivo: se, infatti, si pone la libertà come valore fondamentale, non c’è spazio per verità assolute ed intoccabili. “L’idea stessa di utopia riesce inaccettabile alla maggior parte degli anarchici, in quanto si tratta di una rigida costruzione intellettuale che, imposta con successo, sarebbe tanto micidiale al libero sviluppo dell’individuo quanto qualsiasi stato esistente. Inoltre, ogni società utopistica è concepita come perfetta, e tutto ciò che è perfetto cessa automaticamente di evolversi”. Niente di più lontano, quindi, dall’arroganza e dalle presunzioni marxiste. È d’obbligo, inoltre, aggiungere che Proudhon, proprio perché anarchico e quindi fautore di una società senza stato né gerarchie di alcun tipo, rigetta il socialismo/comunismo di stampo marxista in quanto autoritario: egli aveva quindi già individuato, con largo anticipo rispetto alla maggior parte degli uomini di sinistra, la vena dittatoriale presente nelle teorie dell’autore del Capitale. 

sabato 8 aprile 2023

La banda del Matese

Si era all’8 aprile del 1878 e tra quei bei ragazzi figurava il fior fiore del futuro movimento anarchico italiano: Florido Matteucci, che nelle carceri di Benevento studia lingue: inglese, spagnolo, tedesco; Errico Malatesta che prepara la relazione sulla spedizione da inviare alla commissione di corrispondenza della Federazione italiana; il russo Sergej Kravanskij, futuro attentatore del generale Mezencov, capo della gendarmeria dello zar (Pietroburgo, 4 agosto 1878), che studia Marx, Comte, Ferrari e in nove mesi di carcere impara perfettamente l'italiano, mentre Carlo Cafiero traduce di slancio e compendia il primo libro del Capitale di Marx basandosi  su un'edizione francese, lavoro che sarà apprezzato dall'autore per l'efficacia divulgativa. Ora lasciamo la parola al corrispondente de "Il Corriere del Mattino" (28 agosto 1878): “Sono ventisei gli imputati, molti giovanissimi, parecchi operai: tutti con precedenti di vita onesta, qualcuno interessantissimo per varietà di casi, per costanza della sua fede, per virtù grande di abnegazione e di coraggio. Carlo Cafiero ha appena trent'anni. E alto e ben disposto della persona, bello del volto, con modo elegante ed attraente; parla benissimo anche l'inglese, il francese e il russo. Errico Malatesta è un giovane di 24 anni, piccino, bruno, con due occhi nerissimi, pieni di fuoco: tutto energia, tutto intelligenza, è anch'esso, come il Cafiero, un carattere”.

Che  avevano mai fatto gli imputati? Figli ideali del Pisacane, espressione della migliore tradizione  meridionale che si oppone al fatalismo e all'ignavia, essi hanno organizzato una spedizione che ha  portato tra il Lazio e il Molise la parola dell'anarchia e del comunismo. I contadini hanno accolto entusiasti gli “internazionalisti” venuti ad abolire le tasse, il macinato, il servizio militare. E senza spargimento di sangue. Ecco la dichiarazione rilasciata a un segretario comunale: “Noi qui sottoscritti dichiariamo aver occupato il municipio di Letino armata mano in nome della rivoluzione Sociale, oggi 8 aprile 1877. Carlo Cafiero, Errico Malatesta, Pietro Cesare Ceccarelli".

Cafiero sale sul basamento di una croce che sovrasta la piazza e sotto una grande bandiera rossa e nera spiega alla folla i principi dell'anarchia. Viene decretata la fine della monarchia, incendiato l'archivio comunale per distruggere i titoli di proprietà, i registri delle tasse, ipoteche, enfiteusi, ogni foglio di carta bollata che reca l'aborrito simbolo dello Stato, e guastati i contatori apposti ai mulini per registrare i giri delle macine, cioè le macchine che facevano da esattori dell'odiata tassa sul macinato. Lo Stato scatena contro di loro un imponente rastrellamento. L'intero massiccio del Matese è assediato da dodicimila bersaglieri e fanti. Gli internazionalisti, stremati dal freddo e dalla fame, saranno catturati quasi al completo il 12 aprile. Si scatena, sulla stampa e nei salotti, al parlamento e al governo, l'isterismo antianarchico. Il primo ministro Nicotera vuole un linciaggio legalizzato e insiste per una procedura sommaria da parte di un tribunale di guerra. In gioventù questo tipico esponente del trasformismo italiano aveva fatto parte della spedizione di Sapri con Pisacane, di cui aveva adottata la figlia Silvia. L'avvocato napoletano Carlo Gambuzzi, seguace di Bakunin, intervenne presso Silvia Pisacane, la quale strappò al Nicotera la promessa  di un processo regolare. Nel 1878, alla corte d'Assise di Benevento la Banda del Matese fu assolta e scarcerata. (La morte dell'unica vittima, un carabiniere, fu attribuita a causa sopravvenuta).

martedì 4 aprile 2023

Idea generale della rivoluzione – Proudhon

Alla vostra teoria accentratrice di governo, che non ha altra causa che la vostra ignoranza, per principio solo un sofisma, per mezzo solo la forza, per risultato solo lo sfruttamento dell'umanità, il progresso del lavoro, e delle idee, io vi contrappongo, da parte mia, questa teoria liberale: trovare una forma di compromesso che, conducendo all'unità la divergenza degli interessi, identificando il bene particolare col bene comune, cancellando la discriminazione di natura con quella dell'educazione, risolve tutte le contraddizioni politiche ed economiche; dove ciascun individuo sia ugualmente e nella stessa misura produttore e consumatore, cittadino e principe, amministratore e amministrato, dove la sua libertà aumenti sempre senza ch'egli abbia bisogno di privarsene mai; dove il suo benessere s'accresca indefinitamente, senza ch'egli possa subire, di fatto, dalla società o dai suoi concittadini, alcun danno né nella sua proprietà, né nel suo lavoro, né nel suo guadagno, né nei suoi rapporti d'interesse, d'opinione o d'affetto con i suoi simili. Che cosa! queste condizioni vi sembrano impossibili da realizzarsi? Il contratto sociale, quando voi considerate la spaventosa quantità dei rapporti ch'esso deve regolare, vi sembra ciò che si può immaginare di più inestricabile, qualche cosa come la quadratura del cerchio e il moto perpetuo. È per questo motivo che, stanchi di guerra, voi vi buttate di nuovo nell'assolutismo, nella forza. Considerate tuttavia che se il contratto sociale può essere stipulato fra due produttori e - chi dubita che, ridotto a questi semplici termini, esso non possa avere una soluzione? - Esso può essere stipulato ugualmente fra milioni di produttori, poiché si tratta sempre dello stesso impegno e che rendendolo il numero delle firme sempre più efficace, non vi aggiunge nemmeno un articolo. La vostra motivazione d'impossibilità d'agire non sussiste dunque: essa è ridicola e vi rende inscusabili. In ogni caso, uomini del potere, ecco quello che vi dice il produttore, il proletario, lo schiavo, colui che voi aspirate a far lavorare per voi: io non chiedo né i beni, né le braccia di nessuno e non sono disposto a sopportare che il frutto della mia fatica divenga bottino di un altro. Io voglio anche l'ordine, altrettanto e maggiormente di coloro che lo sconvolgono grazie al loro preteso governo; ma io lo voglio come un effetto della mia volontà, una condizione del mio lavoro e una convinzione della mia ragione. Io non lo sopporterò mai proveniente da una volontà estranea e che mi impone come condizioni preliminari la servitù e il sacrificio.

sabato 1 aprile 2023

Proudhon autodidatta

Autodidatta spinto da una pungente curiosità scientifica e svagato costantemente da un carattere fra bizzarro e superficiale, Proudhon si rivela assai più tagliato per la memorialistica e per la polemica pubblicistica che non per la ricerca scientifica sistematica. Lo confessa egli stesso, d'altronde: «La scienza pura è troppo arida - scrive ad Ackermann, il 6 maggio 1841 -; i giornali troppo frammentari; i lunghi trattati troppo pedanti: i miei maestri sono Beaumarchais e Pascal». Da questo punto di vista Proudhon - contrariamente all'opinione riferita da Mehring - è tutt'altro che «una testa tedesca»; è invece calato interamente nella tradizione della cultura politica francese, nella scia dei philosophes e dei pamphle-taires, imbevuto di quella pozione filosofico-letteraria che aveva le sue sorgenti profonde nell'esprit politique nato nella ricca atmosfera del Settecento francese, confinante a un lato col moralismo filosofico e all'altro con la retorica umanitaria. E moralista infatti lo hanno giudicato i suoi ammiratori e i suoi discepoli, mentre un caustico genio come Marx, che non dimenticava certo la ruggine che c'era stata con Proudhon, lo giudicava, molti anni dopo, puramente e semplicemente un retore. Persino Sorel, così devoto a Proudhon, riconosce che «tutta la dottrina di Proudhon era subordinata all'entusiasmo rivoluzionario». Tre anni prima della morte, d'altronde, e prima del duro giudizio di Marx, Proudhon così si confessava a Bergmann in una lettera dei 14 maggio 1862: «Ho lavorato molto, ho commesso molte sciocchezze, molti errori; ho imparato qualcosa e ho ignorato moltissime cose; credo d'avere un qualche talento, ma un talento incompleto, sconnesso, ineguale, pieno di soluzioni di continuità, di negligenze, di intemperanze... Sarei riuscito meglio, credo, se avessi avuto meno da fare in ordine alla mia educazione mentale; se avessi trovato le mie idee bell'e fatte, i problemi risolti; se non avessi dovuto fare altro che il tribuno e il volgarizzatore... 

Ma sono stato, credo, un uomo onesto; da questo punto di vista mi pongo senz'altro al livello di tutti i maestri». Ma poiché è noto che non basta essere un uomo onesto per passare alla storia bisogna pur riconoscere che Proudhon, oltre al temperamento farouche che egli stesso si riconobbe, oltre allo «stile assai muscoloso» che gli riconobbe anche Marx, ebbe i suoi specifici meriti: dette voce al dissesto della Francia, alla irrequietudine sociale del suo tempo di fronte alla prima crescita del nuovo mondo borghese formulando, con teorie spesso più brillanti che profonde, rivendicazioni pratiche e prospettive avveniristiche che suscitarono e alimentarono la critica e la rivolta. Questo «homme compliqué», questo «blousier pamphletaire», come l'ha chiamato Leroy, fu a lungo lo scandalo di Parigi e della Francia, fu - come volle definirsi egli stesso - «l'excommunié de l'époque», ma concorse non poco, di fatto, a scomunicare a nome delle plebi e del proletariato le verità ufficiali. O sarà proprio un caso che non pochi comunardi del 1871 si richiameranno a lui? Egli incarnò l'inquietudine e le indecisioni di un'epoca, se non riuscì a superarle e quietarle teoricamente: ma anche così - bisogna convenire con Lucien Febvre - Proudhon «ha contribuito, e per una larga parte, al nutrimento intellettuale e morale degli uomini, dei militanti che hanno lottato.., per mettere in piedi i sindacati, le camere del lavoro, le loro unioni e le loro confederazioni», le strutture generali del movimento operaio.