..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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domenica 28 aprile 2013

1° Maggio: non una festa dei lavoratori ma una giornata di sciopero generale

Da dove nasce la festa internazionale dei lavoratori? Un po’ di storia e qualche informazione.
Il 1° Maggio è diventata la data simbolo per i lavoratori di tutto il mondo. La sua origine affonda le radici nelle lotte operaie del 19° Secolo e nasce per celebrare la manifestazione organizzata nel 1886 dagli operai di Chicago, negli Stati Uniti, per ottenere la riduzione dell'orario di lavoro ad otto ore. Nei giorni successivi al corteo ci furono diverse manifestazioni, con più di venti lavoratori uccisi dalla polizia. Per ricordare i «martiri di Chicago», il congresso della Seconda Internazionale, riunito a Parigi il 1889, sotto la spinta di alcune organizzazioni sindacali affiliate all'Internazionale dei lavoratori, vicine ai movimenti socialisti ed anarchici che suggerirono come data il primo maggio, stabilì che a partire dall'anno successivo il primo maggio sarebbe diventata la giornata internazionale dei lavoratori. In Italia come negli altri Paesi il grande successo del 1 Maggio, concepita come manifestazione straordinaria e unica, indusse le organizzazioni operaie e socialiste a rinnovare l'evento anche per 1891, ottenendo un successo di partecipazione. Nella capitale la manifestazione era stata convocata in pazza Santa Croce in Gerusalemme, nel pressi di S. Giovanni. La tensione era alta, ci furono tumulti che provocarono diversi morti e feriti e centinaia di arresti tra i manifestanti. Nel resto d'Italia e del mondo la replica del 1 Maggio ebbe uno svolgimento più tranquillo. Lo spirito di quella giornata si stava radicando nelle coscienze dei lavoratori.
Negli Stati Uniti, o per relativo paradosso in altri paesi a regime dittatoriale, dal 1894 non si celebra il 1° Maggio. E’ stato sostituito dal Labor Day che si celebra invece il primo lunedì di settembre ed è stato completamente ripulito da ogni valenza di rivendicazione sindacale e dei diritti sociali.
Dal 1891, quindi, la ricorrenza fu resa permanente e in Italia fu soppressa durante il ventennio fascista, quando fu sostituita dal Natale di Roma, il 21 aprile, per poi essere ristabilita nel 1945. Il 1947 fu segnato dalla pagina più sanguinosa con la strage di Portella della Ginestra, in provincia di Palermo, nel corso della manifestazione organizzata da duemila lavoratori agricoli della zona di Piana degli Albanesi: qui, per mano del bandito Salvatore Giuliano morirono undici manifestanti e ventisette restarono feriti.
Da quasi vent'anni a questa parte, il primo maggio nella capitale ha perso ogni connotato di giornata di lotta e viene celebrato dai sindacati Cgil, Cisl e Uil, anche con il tradizionale concertone che si tiene a piazza San Giovanni.
Tra le manifestazioni alternative al 1° maggio “ufficiale” di Roma, ci sono storicamente la “Festa del non lavoro” che si tiene dal 1983 al centro sociale Forte Prenestino di Roma e la May Day a Milano che ci svolge dalla fine degli anni Novanta ponendo al centro le questioni della precarietà e del reddito. Nelle città diverse da Roma, si tengono invece manifestazioni per il 1 Maggio organizzate dai sindacati di base.
Per ricordare i lavoratori uccisi nel 1886, per ricordare i braccianti uccisi per mano di Salvatore Giuliano (ma come mandanti Stato e mafia), per ricordare tutti i morti sul lavoro, il 1° Maggio non deve essere la festa dei lavoratori, ma deve ritornare ad essere una giornata di lotta. Una giornata di sciopero generale, dichiarato per la parità dei diritti di tutti i lavoratori comunitari ed extracomunitari, uomini donne gay e lesbiche, per il salario garantito, per la riduzione dell’orario, per il lavoro assicurato a tutti, contro il lavoro nero e lo sfruttamento dei soliti pochi su i sempre più numerosi molti.




sabato 27 aprile 2013

Torino: migranti in lotta


“In Libia non c’era la libertà ma avevamo un lavoro, qui c’è la libertà ma niente lavoro”.
Queste le parole di un giovane profugo, durante il corteo di ieri dei profughi dell’ex villaggio olimpico. Di lì ad un paio d’ore avrebbe appreso quanto agre fosse il sapore della libertà nel nostro paese. Quel ragazzo è uno dei tanti rimasti in strada dopo la fine dell’emergenza nord africa, sancita con decreto ministeriale lo scorso 28 febbraio. Sono alcune migliaia gli uomini, donne, bambini arrivati in Italia durante la guerra per la Libia. Nessuno di loro è libico. La Libia è un paese ricco, un paese nel quale approdano i sub sahariani per trovare lavoro. La guerra e le persecuzioni del nuovo regime che li considerava complici di Gheddafi li hanno obbligati alla fuga.
Spesso sono stati gli stessi soldati di Gheddafi e obbligarli a salire sui barconi. L’ultima zampata del tiranno di Tripoli all’Italia, che, dopo aver stretto trattati di amicizia con la Libia, ha rotto ogni accordo usando i propri bombardieri contro l’ex alleato.
Grazie agli accordi tra Roma e Tripoli, la Libia era diventata il gendarme che garantiva le frontiere italiane contro migranti e profughi dalle guerre africane. Nelle tante prigioni/lager i prigionieri subivano violenze, torture, stupri, ricatti. Molti, abbandonati nel deserto, vi morivano di fame e di sete. Un lavoro sporco, che l’Italia democratica aveva appaltato al tiranno di Tripoli.
La guerra ha fatto nuovi profughi e riaperto le frontiere.
Il governo italiano, costretto a fare buon viso a cattivo gioco, ha approntato un piano di accoglienza che è servito ad arricchire le tante associazioni del terzo settore, che hanno ampiamente lucrato sulle vite dei rifugiati non garantendo nulla di quanto previsto per loro sulla carta.
Un miliardo e 300 milioni di euro dissipati nelle tasche degli avvoltoi, che oggi piangono lacrime di coccodrillo perché hanno perso la gallina dalle uova d’oro.
La speranza del governo era una rapida diaspora dei profughi. Peccato che il permesso di un anno per ragioni umanitarie non valga nel resto dell’Europa. I profughi sono rimasti intrappolati in Italia, senza casa, senza prospettive reali di lavoro, senza possibilità di cercare fortuna altrove.
Una gabbia. Perché tutto fosse legale hanno dovuto firmare un pezzo di carta nel quale “liberavano” lo Stato italiano da ogni obbligo verso di loro in cambio di 500 euro.
A Torino il 30 marzo circa duecento uomini e donne hanno deciso di fare da se, occupando due palazzine dell’ex villaggio olimpico. Domenica scorsa, dopo la casa blu e quella gialla, è stata occupata anche la casa grigia, così altre 130 persone hanno trovato casa.
Il 10 febbraio i profughi hanno deciso di andare in centro città. Al teatro Regio la nuova presidente della camera, nonché ex rappresentante dell’alto commissariato dell’ONU per i rifugiati, Laura Boldrini, inaugurava la Biennale della democrazia.
Partiti in corteo da Porta Nuova, raggiunta in treno dalla stazione Lingotto, profughi e solidali hanno percorso via Roma per giungere in piazza Castello.
La piazza era interamente blindata dalla polizia, che ha imposto al corteo di passare tra due ali di poliziotti, ingabbiando tutti i partecipanti tra transenne sorvegliate da carabinieri in assetto antisommossa e file di blindati che chiudevano il passaggio alle auto.
Le porte del Regio, nel giorno dell’inaugurazione della biennale della democrazia, erano chiuse e sorvegliate da uomini in armi. Finita la kermesse Laura Boldrini ha accettato di incontrare un gruppetto di profughi e una manciata di solidali. Ha riconosciuto le loro ragioni e fatto tante promesse. Pare che ne parlerà con il ministro dell’Interno. Persino il sindaco Fassino ha pronunciato parole di comprensione a favore delle telecamere. I profughi sono usciti con in mano un pugno di mosche, che sono subito volate via. In compenso hanno avuto una lectio magistralis di democrazia reale. Di questo potranno essere grati a Laura Boldrini, che ha offerto loro la possibilità di capire che dignità e la libertà si prendono e non si mendicano.
Vale la pena, al di là della cronaca, interrogarsi sulle apparenti anomalie che hanno segnato la gestione della fine “emergenza” nella nostra città. Parte degli enti gestori dei vari luoghi di accoglienza: dalla Croce Rossa a Connecting People all’Arci si sono resi conto che la patata era bollente e rischiavano di scottarsi. Chi si specializza nell’umanitario teme i danni di immagine di una gestione maldestra. Sebbene per loro questo sia un business come un altro, resta il fatto che farsi un buon nome o mantenerlo può essere una posta importante per chi aspira a gestire i tanti luoghi in cui si articola il controllo nel nostro paese. Hanno quindi deciso di chiudere lentamente le varie strutture, evitando di riversare in strada, tutti insieme, centinaia di profughi.
Nonostante tutto la questione continuava a scottare. I dormitori di Torino scoppiano da mesi, perché i senza casa aumentano di giorno in giorno. I profughi dormivano nelle stazioni o in alcune strutture abbandonate dai gestori ma ancora non chiuse. In strada sono finite anche persone che per motivi di salute avevano ancora diritto alla protezione.
L’occupazione delle palazzine dell’ex Moi ha tolto le castagne dal fuoco sia alle associazioni, sia ai loro referenti politici, sia al governo della città, che non era disponibile a tirare fuori dei soldi, ma non voleva fare cattiva figura.
È scattata la fiera del buonismo. Ampi articoli su Stampa e Repubblica che, lungi dal fare la solita propaganda terrorista contro le occupazioni illegali, hanno dato spazio alle ragioni degli occupanti, il prefetto di Pace ha dichiarato che la questione è umanitaria e non di ordine pubblico, il questore Cufalo ha fatto dichiarazioni tranquillizzanti, Boldrini ha incontrato, sia pure al volo, qualche profugo. Se a questo si aggiunge la relativa tolleranza verso le ben più radicali occupazioni abitative promosse da sportelli e assemblee antisfratto ne emerge un quadro nuovo rispetto a pochi anni fa, quando la crisi non mordeva tanto a fondo nel corpo vivo di Torino.
Il governo della città con il proprio sottobosco di cooperative ed associazioni amiche non riesce ad affrontare le emergenze che le loro stesse scelte politiche hanno contribuito a creare.
Decidere di affidare la gestione delle questioni sociali al manganello rischierebbe di innescare una rivolta sociale dagli esiti imprevedibili. Di qui la tolleranza per le occupazioni, le dichiarazioni rassicuranti, l’apertura al “dialogo”. Improbabile che duri, perché disoccupazione, pensioni da fame, mutui e fitti capestro, bollette da pagare, trasporti che aumentano e linee tagliate, ospedali e presidi sanitari che chiudono sono gli indicatori di una situazione sociale che non potrà che peggiorare.
La scommessa, al di là delle scelte delle istituzioni, è costruire insieme ai rifugiati un percorso di autonomia reale.

giovedì 25 aprile 2013

Torino: i rifugiati occupano

Torino, la mattina del 2 aprile più di 200 profughi insieme al Comitato di Solidarietà con Rifugiati e Migranti hanno occupato una palazzina del villaggio olimpico “Ex Moi” in via Giordano Bruno 201. La gestione affaristica dell’”emergenza nordafrica” messa in piedi dalla prefettura torinese ha lasciato queste persone senza un tetto e senza prospettive future. Parcheggiati per due anni in strutture di “accoglienza” situate nella periferia torinese sono state buttate fuori dopo due anni di mala gestione e nessun percorso di integrazione che permettesse loro una vera autonomia. Lasciati al loro destino, gli uomini e le donne, arrivati da molti paesi africani fra cui molti dalla Libia, si sono autorganizzati decidendo che una vita dignitosa non può avere mediazioni di nessun tipo.
Con questa nuova occupazione salgano a 4 gli edifici occupati da rifugiati e migranti che decidono di non fidarsi delle istituzione, costruendo percorsi di riappropiazione e trovando in modo autorganizzato soluzioni reali.
Lo Stato italiano ha fagocitato per l’Emergenza Nord Africa un miliardo e 300 milioni di euro, “parcheggiando” nei campi di accoglienza i migranti e assicurando loro esclusivamente servizi primari, senza favorire, come previsto dalla legge, autonomia e integrazione. Il progetto, avviato dallo stato italiano nel gennaio 2011, aveva lo scopo di accogliere i migranti fuggiti dagli orrori della guerra in Libia e provenienti da diversi paesi africani. La politica dell’emergenza ha cristallizato un meccanismo di assistenzialismo, dipendenza e ghettizzazione. Dopo quasi due anni le Prefetture hanno gestito la chiusura dei centri di accoglienza riversando nella strade migliaia di persone.
La casa è il primo pilastro del diritto alla vita e alla dignità.
Oggi i rifugiati autorganizzati di Torino trovano un tetto e sottraggono allo spreco una palazzina del villaggio olimpico “Ex Moi” mai utilizzata, costruita per le olimpiadi del 2006. Il Comitato di solidarietà ai rifugiati e migranti riconosce l’azione dei rifugiati autorganizzati promuovendo una solidarietà partecipata e dal basso. Invita i cittadini e le associazioni ad aiutare i nuovi abitanti, offrendo competenze e beni di prima necessità, e a sostenere il percorso di emancipazione condividendo nel tempo l’esperienza della reciproca conoscenza.

“Abitate una casa ed essa non crollerà.” (Tarkovskj)





martedì 23 aprile 2013

25 Aprile: troppo presto per festeggiare

25 Aprile, festa della Liberazione d'Italia? Semmai "festa della resistenza", visto e considerato che una vera liberazione non é mai avvenuta! Ma come, c'é qualcuno che pensa che il fascismo sia morto il 25 Aprile 1945? Spiegatemi allora da dove vengono la strage di Portella delle Ginestre, il massacro degli operai a Reggio Emilia nel 1960, gli studenti ed i lavoratori massacrati dai celerini ancora nei decenni successivi, investiti dalle camionette, uccisi da pallottole e lacrimogeni sparati ad altezza d'uomo; di chi é la responsabilità della strategia della tensione e delle stragi di Stato, da Piazza Fontana in poi, chi ha messo in galera o ammazzato persone innocenti, chi ha dichiarato guerre "perché é un nostro dovere nei confronti dei nostri alleati internazionali, é una missione di pace/umanitaria", chi ha fatto (in alcuni di questi casi fa tuttora) strage di civili in Somalia, Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia?
Chi sono i pochi che decidono per tutti, che pur di seguire il corso della Storia impoveriscono e gettano nella precarietà milioni di persone? Io non vedo nessuna liberazione, così come non la videro quei/lle partigiani/e che rimasero in montagna anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, che non accettarono il compromesso di una Costituzione tanto conciliante da non mettere in discussione i fondamenti dell'ingiustizia, dello sfruttamento e dell'autorità. Chi si arroga il diritto di mettere nello stesso calderone chiunque abbia partecipato alla resistenza o é un mistificatore oppure non conosce i fatti storici, ma nemmeno un po'. I "miei" partigiani non sono morti perché io potessi avere il diritto (dovere, secondo qualche zelante difensore del totalitarismo di mercato in salsa parlamentarista) di scegliere tra due o tre sfruttatori di partiti diversi andando a votare ogni cinque anni, non hanno combattuto contro l'invasione nazista per barattarla con l'invasione atlantista, non volevano cambiare il colore ad una dittatura nel nome di un ossimorico Stato socialista.
I/le partigiani/e di cui parlo non si schierarono contro il fascismo quando ormai il vento aveva cambiato direzione, ma combatterono in Italia ed in esilio, braccati in Francia o schiacciati fra due fronti fascisti (franchisti da una parte, stalinisti dall'altra) durante la guerra civile spagnola, erano le stesse persone che avevano resistito al fascismo prima che questo salisse al potere, erano gli stessi che anche in galera o al confino o nei campi di concentramento continuavano a mantener salda la loro integritá, gli stessi che spesso venivano colpiti alle spalle dai falsi amici, nel Nord Italia come a Barcellona, nelle cittá occupate dagli invasori nazisti e dai repubblichini così come era già accaduto a Kronstadt o in Ucraina. La liberazione non é mai avvenuta, la resistenza non é mai finita: cambiano i tempi, le forme di lotta, il nome e il volto dei tiranni, ma non cambiano la necessità e la volontà di lottare. Questo é il miglior modo nel presente e nel futuro per ricordare chi combatté in passato, non per governare sugli altri, non per essere declamato nei discorsi retorici di qualche potente, non per venire strumentalizzato dai partiti, non per diventare cenere, ma per essere la fiamma della rivolta che é nostro dovere tenere accesa.

sabato 20 aprile 2013

25 aprile per non dimenticare

Eravamo alle nostre case, ai nostri lavori, alla vita ordinaria. Siamo stati richiamati dalla piazza e dal rumore dei conflitti. Abbiamo udito, per troppo tempo individui disgustosi e immeritevoli fare sfregio della nostra Terra e monopolio del nome luminoso della Libertà. È giunto per noi il momento di serrare nuovamente tutte le fila, forti del nostro pensiero ideale e sicuri del nostro braccio di guerrieri e lavoratori. Il 18 dicembre 1922 a Torino le squadre di Pietro Brandimarte per vendicare la morte di due camerati, danno il via ad una feroce rappresaglia ancor oggi ricordata come “la strage di Torino”. Molti operai vengono aggrediti nelle loro case, bastonati di fronte ai loro familiari, altri vengono caricati sui camion e crivellati di colpi in riva al Po, nei prati della Barriera di Nizza, sulle strade della collina.
Fra gli undici “sovversivi” trucidati dalle camicie nere ricordiamo l’anarchico Pietro Ferrero, che era stato due anni prima uno dei promotori e degli organizzatori dell’occupazione delle fabbriche di Torino nella sua qualità di segretario della F.I.O.M. torinese. Pietro Ferrero viene catturato e dopo essere stato colpito selvaggiamente, viene legato per i piedi ad un camion e trascinato a lungo per i viali di Torino; il suo corpo ormai irriconoscibile viene abbandonato ai piedi della statua di Vittorio Emanuele II ed è identificato grazie ad una tessera della Croce Verde. Miglior fortuna ebbe l’anarchico Probo Mari, attivista dell’U.S.I. torinese, portato in riva al Po dai fascisti che gli legarono le mani dietro alla schiena e lo gettarono nel fiume. Mari riuscì però a raggiungere la riva e a farsi ricoverare in ospedale.
Gli Arditi del Popolo, forti della loro autonomia e della loro determinazione, non facendo mistero dell’intenzione di contrastare e rispondere colpo su colpo al terrore fascista, capovolsero invece la mentalità perdente, legalitaria e pacifista ad oltranza che, pervadendo il movimento socialista, esponeva l’intera classe lavoratrice all’urto dell’aggressione fascista coi suoi inauditi livelli offensivi, esercitata da soggetti addestrati e psicologicamente abituati all’esercizio della violenza nonché pagati ed equipaggiati con le armi cospicuamente offerte dai depositi militari....Il fascismo non fu sempre irresistibile; ma s’impose grazie a connivenze, errori, sottovalutazioni che sarebbero stati pagati a duro prezzo per oltre vent’anni; prima che vecchi e nuovi arditi del popolo trovassero altre armi per un’altra liberazione, in quanto come osservato dallo storico inglese Deakin: “I partigiani del 1945 rappresentavano in un certo senso i vinti del 1922”.

martedì 16 aprile 2013

La fabbrica è ovunque

La fabbrica è ovunque. È il risveglio, il treno, l’automobile, il paesaggio distrutto, la macchina, i capi, la casa, i giornali, la famiglia, il sindacato, la strada, le spese, le immagini, la paga, la televisione, il linguaggio, le ferie, la scuola, il solito tran tran, la noia, la prigione, l’ospedale, la notte. Essa è il tempo e lo spazio della sopravvivenza quotidiana, è l’assuefazione ai gesti ripetuti, alle passioni rimosse e vissute per procura e per immagini interposte.
Tutte le attività ridotte a mera sopravvivenza sono lavoro coatto; esso trasforma il prodotto e il produttore in semplici oggetti di sopravvivenza, in merci.
Il rifiuto della fabbrica universale è dappertutto perché il sabotaggio e le pratiche di riappropriazione si diffondono a macchia d’olio tra gli umani, permettendo loro di trovare ancora dal piacere a non fare nulla, a far l’amore, a incontrarsi, a parlarsi, a bere, a mangiare, a sognare, preparare la rivoluzione della vita quotidiana non dimenticando nessuna delle gioie che sono ancora alla portata di chi non è completamente alienato.
Bisogna quindi lottare coscientemente o no, per una società in cui le passioni saranno tutto, la noia e il lavoro nulla. Sopravvivere ci ha finora impedito di vivere, si tratta ora di rovesciare questo mondo alla rovescia, di far leva sui momenti autentici, condannati, nel sistema spettacolare-mercantile, alla clandestinità e alla falsificazione: i momenti di felicità reale, di piacere senza riserve, di passione.

lunedì 15 aprile 2013

Senza spargere una goccia di sangue

Abbiamo detto che il nuovo metodo di azione rivoluzionaria iniziato dagli operai metallurgici di prendere possesso delle fabbriche, se seguito da tutte le altre categorie di lavoratori, cioè della presa di possesso di tutte le fabbriche, della terra, delle mine, dei bastimenti, della rete ferroviaria, dei depositi di mercanzie di tutte le specie, dei mulini, dei pastifici, dei magazzini, delle case, ecc., menerebbe alla rivoluzione, sarebbe anzi aver fatto la rivoluzione senza spargere una goccia di sangue.
E questo, che fino a ieri pareva un sogno, oggi, dato lo stato d’animo del proletariato e la rapidità con cui le iniziative rivoluzionarie si propagano e si intensificano, incomincia a sembrare una cosa possibile.
Ma questa nostra speranza non significa punto che noi crediamo nella resipiscenza delle classi privilegiate e nella passività del governo. Noi non crediamo nei placidi tramonti. Noi sappiamo tutto il livore e tutta la ferocia della borghesia e del suo governo; noi sappiamo che oggi, come sempre, i privilegiati non rinunziano se non costretti dalla forza o dalla paura della forza, e se per un istante potessimo dimenticarlo, s’incarica di ricordarcelo la condotta quotidiana ed i propositi quotidianamente espressi dagli industriali e dal governo con le loro guardie regie, coi loro carabinieri, coi loro sgherri prezzolati in divisa o senza. Ce lo ricorderebbe il sangue dei proletari, il sangue dei nostri compagni assassinati.
Ma noi sappiamo pure che il più violento dei prepotenti diventa buono se ha la sensazione che le botte sarebbero tutte sue.
Ed è per ciò che noi raccomandiamo ai lavoratori di prepararsi alla lotta materiale, di armarsi, di mostrarsi decisi a difendere e ad attaccare.
Il problema è e resta, un problema di forza.
Il senza una goccia di sangue, se preso alla lettera, resterà, purtroppo!, un modo di dire; ma è certo che più i lavoratori saranno armati, più saranno decisi a non arrestarsi a nessuna estremità, e meno sanguinosa sarà la rivoluzione.
Questa nobile aspirazione di non spargere sangue o di spargerne il meno possibile, deve servire di sprone a prepararsi, ad armarsi sempre di più. Poiché più saremo forti e meno sangue correrà.

(Tratto da: Umanità Nova n° 170 del 13 settembre 1920)

venerdì 12 aprile 2013

Dal congresso di Saint Imier

La distruzione d'ogni potere politico il primo dovere del proletariato.
L'organizzazione d'un potere politico provvisorio sedicente rivoluzionario e capace d'accelerare la distruzione dello Stato, non può essere che un inganno di più e sarebbe tanto pericolosa come i governi oggi esistenti.
Respingendo ogni compromesso al fine di attuare la rivoluzione sociale, i proletari d'ogni paese devono stabilire, al di fuori di ogni politica borghese, la solidarietà dell'azione rivoluzionaria.
La libertà e il lavoro sono la base della morale, della forza, della vita e della ricchezza dell'avvenire. Ma il lavoro se non è liberamente organizzato si trasforma in oppressione e per evitare ciò l'organizzazione libera del lavoro è una condizione indispensabile della vera e completa emancipazione del proletariato. Il libero esercizio del lavoro necessita il possesso della materie prime e del capitale sociale. E' impossibile organizzare il lavoro se l'operaio, emancipandosi della tirannia politica ed economica, non conquista il diritto di svilupparsi completamente in tutte le sue facoltà. Ogni stato, ogni governo ed ogni amministrazione delle masse popolari, sono necessariamente fondate sulla burocrazia, sull'esercito, sullo spionaggio, sulla chiesa, ed è per questa ragione che non potranno mai realizzare una società basata sul lavoro e sulla giustizia. L'operaio non potrà mai emanciparsi dall'oppressione secolare, se allo stato assorbente e demoralizzante non sostituirà la libera federazione dei gruppi produttori fondati sull'eguaglianza e la solidarietà. L'organizzazione anarchica è un fattore di forza tale che anche nelle condizioni attuali non si può rinunciarvi. In essa il proletariato fraternizza nella comunità d'interessi, si esercita alla vita collettiva, si prepara alla lotta suprema.
All'organismo privilegiato e autoritario dello Stato si dovrà sostituire l'organizzazione libera e spontanea del lavoro, che sarà una garanzia permanente del mantenimento dell'organismo economico contro quello politico. Lasciando alla pratica della rivoluzione sociale i dettagli dell'organizzazione positiva.
Lo sciopero sarà per noi un mezzo prezioso di lotta. Noi l'accettiamo come un prodotto dell'antagonismo fra lavoro e capitale. In questo antagonismo gli operai diventeranno sempre più coscienti dell'abisso che esiste fra la borghesia e il proletariato. Attraverso le piccole lotte economiche il proletariato si prepara alla grande lotta rivoluzionaria che distruggerà tutti i privilegi e le classi e darà all'operaio il diritto di godere del prodotto integrale del suo lavoro e con questo gli procurerà i mezzi di sviluppare tutta la sua forza materiale e intellettuale e morale.


lunedì 8 aprile 2013

Difesa del territorio

Tra gli uomini d’affari, politici compresi e la difesa del territorio non c’è spazio sufficiente per il dialogo, dato che i rispettivi interessi sono diametralmente opposti: se ci sono affari è a scapito del territorio; se c’è un beneficio per il territorio è a scapito di perdite da parte capitalista. È il conflitto sorge soltanto da un’opposizione radicalmente inconciliabile. Perciò i difensori del territorio devono riconoscerlo: non devono dialogare ma combattere. Non devono scegliere tra la parola e l’azione, ma tra la difesa e l’attacco. Le conseguenze dell’espansione capitalistica metropolitana sono le mostruose conurbazioni e la scomparsa del mondo rurale; l’agricoltura transgenica industriale il mezzo adeguato per alimentare simili orrori. Possiamo dire altrettanto delle dighe, delle centrali, delle autostrade, dei megaporti, aeroporti e TAV: sono le strutture che meglio corrispondono all’aprovvigionamento di acqua ed energia o alla mobilità delle persone e alla circolazione delle merci proprie delle aree metropolitane.
Siamo di fronte a uno scontro tra la metropoli e il territorio che ha la pretesa di colonizzare e per ironia della storia la causa della libertà, la ragione e il desiderio hanno abbandonato le città, per rifugiarsi in campagna, e da lì lanciare il contrattacco alle forze antistoriche domiciliate nelle conurbazioni. Lontano dei centri del commercio, quindi lontano dalla mercificazione del vivere e dalla statalizzazione dell’esistenza, lo spazio e il tempo riacquistano un qualche significato e permettono agli individui di recuperare la memoria e cooperare contro l’ingiustizia capitalista costruendo, se si oltrepassa l’orizzonte delle piattaforme, una nuova identità di sfruttati ancorata al territorio, quindi alla loro condizione concreta di abitanti, non alla condizione astratta di cittadini. Tale identità non deve aspirare a fornire una cornice più regolata al mercato degli alloggi e dei terreni, ma ad abolire qualsiasi relazione mercantile; nemmeno pretenderà di integrare il regime tecnocratico, che ama chiamarsi “democrazia” quando altro non è che totalitarismo dissimulato, ma sostituirlo con una vera democrazia di base, orizzontale, diretta, comunitaria, auto gestionale.

domenica 7 aprile 2013

Vuoto di potere e spinta dal basso

L’unico dato certo delle elezioni del 24 e 25 febbraio è il forte incremento dell’astensionismo, che ha toccato il numero di 12 milioni (25%), cifra più alta da quando esiste la Repubblica italiana, con un più 6% rispetto alle precedenti consultazioni politiche. Il fenomeno Movimento 5 Stelle altro non è, alla luce di questo dato, che una ricomposizione del blocco votaiolo all’interno del quadro dato, con uno spostamento di voti dal PD, dal PDL e dalle schegge di quella che fu la sinistra verso la lista di Grillo. Definirlo voto di protesta è inappropriato; il voto dei delusi da Berlusconi e dei disillusi del centro sinistra è semmai voto di conservazione, che convive con altre manifestazioni di dissenso, di alternativismo, od anche semplicemente qualunquiste; in ultima analisi votare Grillo è come attaccarsi all’ultimo carro di un treno che possa garantire la legalità e la rifondazione dello Stato su basi di onestà ed equità. Grillo non recupera sul malcontento dilagante, si limita a raccogliere i delusi dalle passate esperienze, e infatti non riesce ad arginare la crescente disaffezione verso la pantomima parlamentare e democratica, ormai in continua ascesa, che nelle regioni del Sud ha già superato il 40%.
Quello che esce dai risultati elettorali è certamente un parlamento paralizzato, con i partiti costretti ad operazioni di alta aritmetica politica per far quadrare i numeri di una qualsiasi combinazione governativa; operazione che difficilmente riuscirà ad evitare una prossima tornata elettorale, che conterrà molti più paradossi dell’ultima, a cominciare dal fatto che il porcellum, arma letale inventata da Berlusconi e Calderoli, ma avallata dal PD, possa ritorcersi contro i suoi sostenitori e favorire i grillini, concedendogli un’ampia maggioranza, cioè regalandogli il governo del Paese.
Ma questi sono problemi di natura squisitamente politica, che non ci interessano più di tanto. Abbiamo sempre sostenuto, parafrasando Louise Michel, che con il maggioritario o con il proporzionale, e con le successive porcate, il potere è sempre maledetto, e quindi le elezioni restano sempre una truffa. Però la fase che stiamo attraversando è assai delicata. Nel Paese più corrotto al Mondo, dove ancora comandano la chiesa e la mafia, e dove tutto questo rientra nella normalità, non possiamo escludere a priori che altri esempi di arretratezza sociale possano fare capolino. Il vuoto di potere che si sta aprendo, e che potrebbe durare a lungo, potrebbe suscitare appetiti e fughe in avanti da parte di forze repressive e golpiste; già certi assaggi apparentemente “normali” li abbiamo avuti con il governo tecnico che si avvia a tramontare; nulla esclude che l’impasse politica possa richiedere l’intervento di nuovi salvatori della patria, magari appoggiati dall’UE e istruiti dalla CIA. Il potere reale, quello delle banche, della chiesa, delle lobby d’ogni genere, è sempre molto forte, ma abbisogna di un apparato efficiente per poter continuare a fare i propri interessi; senza un governo stabile, la macchina del consenso e la facciata legislativa e normativa che permettono il quotidiano ladrocinio e il funzionamento dell’apparato gerarchico, rischiano di compromettersi. Se le elezioni non sono in grado di assicurare tutto questo, il potere reale del Paese (con tutti i suoi addentellati e le sue dipendenze estere) provvederà. Questo significa una gestione della società, e sopratutto del conflitto sociale, senza scrupoli e remore, senza regole, con l’alibi morale della necessità di salvare la patria.
Sono questi motivi sufficienti perché si accentuino, dentro l’impasse presente e (forse) futura, gli impatti di tutte quelle lotte e tutte quelle esperienze che producono riappropriazione di spazi di libertà non solo materiali, ma anche politici e culturali, gran parte delle quali si riconoscono nella pratica astensionista, cioè non riconoscono a nessun governo il diritto di imporre gli interessi dei più forti e degli oppressori sulla maggior parte della popolazione. Solo costruendo un ampio fronte dei movimenti, la società reale potrà realizzare quell’autogoverno, quella spinta da basso, che cambia lo stato di cose presente e difende ogni conquista con la determinazione della lotta popolare.

Pippo Gurrieri

mercoledì 3 aprile 2013

Noi sopravviveremo


Noi indiani non avremo mai un’imponente organizzazione che manifesti in piazza per i nostri diritti. Non saremo mai politicamente una potenza e nessun sostenitore influente sarà mai dietro a noi. Ma avremo sempre quel senso di collettività e unità che ci ha permesso di superare quattrocento anni di persecuzione. Siamo un Popolo unito dalla nostra natura umana. Ci opporremo all’uomo bianco con la nostra grande forza interiore e alla fine saremo più forti di lui. Noi sopravviveremo.

Vine Deloria jr. (scrittore Sioux)

lunedì 1 aprile 2013

Da “Perché siamo anarchici?” (1892) di Francesco Saverio Merlino

Nota
Questa è la parte finale di un breve opuscolo redatto da Francesco Saverio Merlino durante la sua permanenza a New York. La società futura che egli si augurava e per cui lottava non appare nulla di utopistico. Alcune conquiste, riguardanti soprattutto l'organizzazione del lavoro nelle imprese più avanzate, sono pratica corrente. Per quanto riguarda invece il ruolo parassitario e opprimente dello stato, moltissimo resta ancora da fare anche nei paesi che si ritengono più moderni e avanzati.

Come sarà organizzata la Società Futura
La società futura sarà organizzata come una vasta federazione di società operaie, ciascuna libera e indipendente dall'altra, ma tutte unite insieme da liberi patti.
La terra sarà coltivata da associazioni di contadini. Le miniere, da cui si estraggono le materie prime per le industrie, e i mezzi di trasporto saranno proprietà comune di tutte le associazioni, e nessun gruppo potrà servirsene in modo da speculare sui bisogni degli altri. Vi saranno associazioni per tutti i lavori e per tutti gli scopi: e queste associazioni saranno aperte a tutti quelli che vorranno lavorare. Un individuo farà parte al tempo stesso di più associazioni; l'operaio della fabbrica potrà lavorare anche al campo. Il contadino potrà occuparsi anche di chimica e di altri studi. Ogni distinzione fra operai del braccio e operai della mente deve cessare.
L'uomo, alternando i lavori produce più e sviluppa meglio le sue facoltà. Il lavoro sarà eseguito liberamente; non vi saranno più regolamenti vessatori come quelli che oggi il padrone impone agli operai. Ogni associazione stabilirà da sé le condizioni del proprio lavoro, lasciando ai suoi membri la più grande libertà compatibile con l'interesse generale. I membri delle associazioni saranno uguali fra loro e non ci sarà disuguaglianza di trattamento. L'ingegnere e il manovale saranno ugualmente considerati, perché l'opera di entrambi è necessaria alla società. Anzi, più il lavoro sarà faticoso, più breve sarà, e più sarà meritorio. Mentre oggi tanta gente pretende « sacrificarsi » al bene pubblico facendo i politicanti, i deputati, ecc., nell'avvenire quelli che si sentiranno portati a rendersi più utili alla società e a guadagnarsi la pubblica stima si sobbarcheranno ai lavori più penosi. Ma più o meno, o d'un modo o dell'altro, tutti gli uomini lavoreranno, perché l'ozio e insopportabile, e mentre oggi molti sono educati fin da fanciulli a non fare nulla e a poltrire nei vizi, l'educazione, l'esempio e l'opinione pubblica della società futura indurranno tutti a lavorare. Per far parte di un'associazione bisognerà lavorare: nessuno uomo è tanto insensato da voler vivere al bando della società. E se anche ce ne fosse qualcuno, sarebbe poco male, mentre ora le classi intere vivono oziando o peggio, occupando la loro giornata a far male agli altri.
Ché, se quelli che volessero oziare fossero molti, si accorgerebbero subito dell'errore, perché non lavorando non si produce; e quando non si produce non si mangia. D'altronde il lavoro non sarà faticoso, lungo e mal ricompensato come oggi. Poche ore di lavoro manuale e il resto del tempo consacrato a lavori ed a studi piacevoli - è tutto quel che ci vuole. E tutte le condizioni del lavoro saranno trasformate.
La fabbrica dell'avvenire non sarà quella d'oggi. Ci sarà tanto spazio e aria e luce per l'operaio nella fabbrica, quanto ce n'è oggi nelle case dei signori. L'operaio non sarà condannato a morir di caldo, di fame e di sete mentre lavora; a stare sempre in piedi, a continuare il suo lavoro quand'è stanco. Tutti gli agi, di cui godono oggi quelli che non fanno niente, saranno goduti dagli operai. Perché nella fabbrica, accanto alla sala da lavoro, non ci dovrebbero essere la sala di ricreazione, di lettura, ecc.? Perché non si cercherebbe di rendere il lavoro meno penoso e gradito, con tutti i mezzi che mette a nostra disposizione la cresciuta civiltà? Noi non sappiamo quali cambiamenti apporteranno al modo di produzione i progressi della meccanica e delle scienze tecniche. Cosa certa è pero che anche allo stato attuale delle conoscenze, la vita dell'operaio può essere circondata di tutti gli agi che oggi sono riservati ai signori.
Nei paesi dove l'agricoltura è decaduta si può farla rifiorire. Si possono moltiplicare a volontà i prodotti delle industrie; dare lavoro a tutti, vestire tutti i laceri, e satollare tutti gli affamati. Coi mezzi di comunicazione che esistono, non è più necessario che gli operai vivano agglomerati nelle catapecchie della città; si possono costruire case lungo le linee ferroviarie in aperta campagna, senza far mancare in nessun posto i mezzi di ricreazione e d'istruzione che oggi attraggono operai nelle città.
Si può insomma trasformare la faccia del mondo se gli uomini si decideranno una buona volta ad amarsi e ad aiutarsi reciprocamente, invece di vivere gli uni alle spalle degli altri.
Occorreranno più commercianti, banchieri, speculatori?
No, perché le associazioni si scambieranno direttamente i prodotti, senza neanche bisogno di moneta. Tutte le relazioni che oggi si stabiliscono tra vari paesi per mezzo dei capitalisti, si stabiliranno tra associazioni ed associazioni. Un'associazione prometterà all'altra, salvo casi di forza maggiore, una data quantità di prodotti e riceverà eguale promessa di altri generi. Ma questi scambi non saranno fatti con avarizia e con ingordigia; nessuna associazione vorrà guadagnare come oggi fa il capitalista, sul lavoro altrui; nessuno vorrà arricchirsi e accumulare, perché tanto l'accumulazione non servirebbe a nulla dal momento che non si troverebbero operai che volessero vendere le loro braccia per far fruttificare la ricchezza accumulata.
Le associazioni si aiuterebbero fra loro nel bisogno. Se in un luogo il raccolto è scarso, le associazioni di contadini altri paesi supplirebbero al difetto col loro superfluo. Se paese è colto da un infortunio, gli altri lo soccorrerebbero. Questo si fa anche oggi. Anche oggi in caso d'inondazioni, di carestia ecc. si organizzano soccorsi.
Sventuratamente essi passano per le mani dei Governi e dei capitalisti - e poco ne giunge a quelli che veramente ne avrebbero bisogno.
E qui tocchiamo un'ultima questione.
Ci vorrebbe un Governo, un Parlamento, Un Ministero, una Polizia, una Magistratura? Nel nostro sistema, non ci vorrebbe niente di tutto questo, perché le associazioni amministrerebbero ciascuna i propri interessi, e le relazioni che passerebbero fra esse sarebbero diverse secondo la natura speciale dei vari interessi, e volontarie. Perché esista un Governo bisogna che tutti gl'interessi d'un popolo sieno concentrati nelle mani di pochi, e che un piccolo numero di persone faccia oggi per tutta la nazione, che in luogo di lasciare libertà all'individuo di pensare lo si obblighi a sottomettersi alla volontà di quelli che pensano per tutto un popolo - e che a costoro si dia il potere di tassare i prodotti del lavoro della moltitudine e di usare la forza per mettere ad effetto la loro volontà.
Ora tutto questo è incompatibile con la società libera e egualitaria di cui parliamo. Il Governo è la negazione della libera associazione, e i funzionari del Governo sono i parassiti del lavoro nazionale.
Per risolvere le dispute, per impedire qualche rarissimo delitto, non c'è bisogno di un Governo, di una polizia e d'una magistratura - che sono causa di delitti e di lotte senza fine nella società. Le associazioni bastano: esse possono fare arbitraggi; possono prendere misure di difesa. Ogni membro della futura società accorrerà a difesa dell'oppresso e del debole; mentre oggi il Governo, la legge e la polizia non fanno che proteggere il ricco contro il povero, il padrone contro l'operaio.
L'operaio, si dice, è ignorante e spesse volte anche egoista. È colpa sua, se il padrone lo sfrutta e dissangua? Pur troppo è impossibile che si faccia meno di padroni, finché non cessano l'ignoranza e l'egoismo, cioè finché l'uomo non cambia la sua natura.
Rispondiamo che l'ignoranza è effetto della società attuale e durerà finché questa dura. Anzi, più tempo passa e più cresce insieme con la miseria l'ignoranza di una parte degli operai; più cresce l'abbrutimento degli operai condannati al lavoro delle fabbriche, l'avvilimento dei disoccupati, più crescono l'ubbriachezza, la prostituzione, i suicidi, e tutti i mali della miseria.
L'egoismo esso pure è effetto della miseria, come effetto della miseria sono la discordia che regna fra operai ed operai, e la concorrenza che essi si fanno reciprocamente.
Oggigiorno un individuo, per vivere, è costretto di far male ad altri, per farsi strada, deve passare sul corpo dei compagni; e per non essere sfruttato, deve cercare i mezzi di sfruttare gli altri diventando padrone.
L'ignoranza e l'egoismo non si possono combattere; dunque, meno ancora distruggersi nella società attuale. Bisogna distruggere questa società, perché la ignoranza e lo egoismo scompaiono dal mondo.
E scompariranno certamente, all'orquando l'umanità avrà, con uno sforzo supremo, annientato le disuguaglianze e i privilegi attuali per vivere secondo i principi del comunismo anarchico.

Francesco Saverio Merlino