Lasciamo che le
parole appartengano ai loro luoghi e ai loro momenti. Restituiamo le carezze
alla spensieratezza della complicità. Alcune le lasceremo tra i nostri ricordi
infantili, altre le potremo portare sulla pelle d’oca delle lenzuola.
Accarezzate chiunque vogliate nel mondo, usatele, queste mani, per esprimere
l’affetto e la curiosità che scuotono le nostre giornate. Ma non strappiamo le
parole dai loro significati. Perché le mani di quell’uomo sul volto di Genet
erano tutto tranne che una carezza.
Sono state usate
e abusate già così tante parole su questo gesto, che urge tornare agli
strumenti necessari per riconoscere la violenza, soprattutto laddove si cela
dietro mani diverse. Le manganellate sono sì dolorose, e chi ha assaggiato
almeno una volta la gelida potenza di un idrante conosce l’arroganza con cui si
impone. Ma le mani di un uomo sul corpo di una donna, quando non richieste, non
possono essere l’espiazione per queste violenze. Non c’è contraddizione né
discontinuità tra il razzismo e gli abusi della celere in piazza Indipendenza e
quel gesto che in tanti, troppi, hanno chiamato conforto. Non c’è alcuna mela
sana qui, è il terreno da cui l’intero frutteto si è nutrito ad essere marcio.
Purtroppo non possiamo lasciar correre, perché un paese intero si sta lavando
la coscienza sul corpo di una donna e sulla sua rituale mediatizzazione.
Prima dell’obiettivo
dell’Ansa, prima di Repubblica e dei giornalisti che citano l’eros e thanatos
di Freud, già in origine quel gesto non era confortevole, né naturale, né
neutro. Sono neutre le mani di uno sconosciuto che ci tocca nel centro di una
piazza? Sono forse neutre le mani di un uomo su una donna? Certo esse possono
esprimere dolcezza, stimolo, passione, e allora non saranno neutre. Ma
altrettanto non lo possono essere quando controllano, impongono, soffocano. E
sono mai state neutre le mani di un poliziotto su un corpo indifeso? Le mani di
una guardia su un corpo in lotta? Quelle di un europeo su di un africano? Il
potere irrompe sui nostri corpi, li piega, li allontana, li plasma, li fa
cozzare, a volte li tocca con mano diretta. La violenza dell’imposizione, del
paternalismo e della pietà (nella più disincantata delle accezioni) con cui
quell’uomo ha messo le mani sul volto di Genet è proporzionale all’irruenza
dell’alba infame che si accompagna ad uno sgombero spietato.
Quelle mani
rinchiudono il volto di Genet, la chiudono nel suo ruolo sociale di creatura
fragile, bisognosa perché donna, lasciando fuori la dignità del suo lottare. La
compassione dell’uomo costringe le lacrime ad essere ammissione di sofferenza,
negando la rabbia delle urla appena uscite dalla bocca della donna. L’allegoria
è immediata: ecco l’uomo che tocca la donna e la salva dalla sua isteria. Poi
la prende per mano e la porta via, verso la calma.
E per rispettare
la nostra ritualità l’hanno sbattuta in prima pagina, volto senza voce e senza
storia dell’ennesimo capitolo di storia scritto su un corpo femminile. L’unico
spazio mediatico previsto per una donna (africana, povera, per giunta in lotta)
è quello delle mani non richieste del poliziotto bianco su di lei. Spazio per
il suo racconto non ne rimane. La donna nera è pubblicamente riabilitata dalla
mano dell’uomo bianco e in una catarsi collettiva la sporcizia della sua pelle
è contaminata dalla purezza del white man, così esistenzialmente consapevole
del peso del suo compito di redenzione. La nazione festeggia sulle sue prime pagine,
perché la donna è ora presentabile, sopita e ripulita, tra quelle due parentesi
bianche. È la luce, è la pace! E anche questa sera si può evitare di porsi
domande.
Genet la voce
l’ha esaurita in piazza Indipendenza, i giornali si sono presi solo l’utile
opportunità del colore della sua pelle nel momento giusto, ma chi ha voce e
occasione deve ricostruire la storia. Quanti soldati italiani hanno toccato
donne eritree durante il colonialismo? Quante donne africane nei secoli sono
state toccate da mani bianche e si sono sentite dire “dai non piangere”? Quante
donne africane continuano a essere toccate da mani bianche ogni notte? Mai che
queste mani abbiano chiesto il consenso...
La storia che ci
impegniamo a raccontare noi non è semplice e lineare come quella degli
scribacchini da clickbait. Non c’è alcuna catarsi e lasciamo Freud ad occuparsi
della piccola Dora. Noi raccontiamo delle donne che si ribellano e combattono,
in Italia come in Eritrea, ovunque nel mondo esse si trovino, per essere libere
da violenze ed ingiustizie. Donne che stanno in prima fila non per assenza
degli uomini, ma perché nulla vieta - uomini o meno - che una donna voglia e
possa stare in prima fila, con coraggio, a fronteggiare un esercito mandato a
distruggere.
Ricordiamoci di
raccontare queste storie e di farlo in tanti, perché saranno troppi i
riflettori che vorranno costruire una versione a loro più utile. Raccontiamole
ogni giorno, affinché diventi pratica abituale riconoscere l’oppressione dietro
ogni maschera, anche la più magnanima. Perché ogni giorno sia una lotta per non
farci vincere dal dilagante patetismo paternalistico. Perché io davanti a quella
foto non mi commuovo, sento le viscere contorcersi e mi incazzo. Quella non è
una carezza, è lo sfregio del potere sulla pelle di una donna. Ed è una
violenza.