Nel luglio del
1967 si svolse a Londra un congresso che – sotto il titolo di Dialettiche
della liberazione – vide sfilare sul palco degli oratori gli intellettuali
destinati a diventare i simboli della protesta radicale della fine degli anni
sessanta: da Marcuse a Goldmann, da Sweezy a Carmichael, da Bateson a Hàiek.
Dal congresso
riporto qui un brano del manifesto programmatico, poi divenuto piuttosto noto.
Tutti gli uomini
sono in catene. Vi è la schiavitù della povertà e della fame; la schiavitù
della sete di potere, della spinta al prestigio sociale, al possesso. Oggi, un
regno di terrore viene perpetrato e perpetuato su vasta scala. Nelle società
opulente esso è mascherato: qui i fanciulli vengono condizionati da una
violenza chiamata amore ad assumere la loro posizione come eredi dei frutti
della terra. Ma in questo processo i giovani sono ridotti a poco più che punti
ipotetici in un sistema la cui disumanizzazione è totalmente coordinata. Per il
resto, il terrore non è mascherato. Esso si chiama tortura, freddo, fame,
morte. Il mondo intero è ora una unità irriducibile. Le proprietà del sistema
mondiale globale ci forzano a sottometterci, come a fatalità, al Vietnam, alla
fame del Terzo mondo e così via. In un contesto globale, la cultura è contro di
noi, l’educazione ci rende schiavi, la tecnologia ci uccide. E’ nostro dovere
contrapporci a tutto ciò. Dobbiamo distruggere le illusioni che abbiamo
acquistato su ciò che siamo, dove siamo. Dobbiamo combattere la nostra pretesa
ignoranza su ciò che accade [...].
Quaderni Piacentini, n. 32, 1967