Il proposito di
abolire il carcere, nonché ogni forma di prigionia, è senza dubbio saggio,
nobile, ammirevole e, soprattutto, radicalmente umano. Purtroppo, però, quando
ci si addentra nella questione nei suoi aspetti teorici, com’è necessario, in
quelli pratici e propositivi, ci si accorge di aver messo la mano in un nido di
vipere, tutte altrettanto seppure diversamente mordaci, o, se proprio va bene,
di avere di fronte un gioco di scatole cinesi. Un problema rimanda ad un altro,
un’ipotetica soluzione ne azzanna un’altra, tuttavia non meno ipotetica, e via
andando.
Quindi abolire
il carcere è possibile?
Per un
“radicale”, se è possibile, allora significa che questa abolizione è
nell’interesse della società presente, che peraltro egli vuole combattere, cambiare
o distruggere, e dunque non val troppo la pena di occuparsene; lo faranno
comunque altri e, in ogni caso questa “abolizione” sarebbe soltanto
spettacolare, mentre verrebbero rinnovate e rimodernate le forme di controllo
sociale e perciò di prigionia in senso ampio. Per un “riformista”, se è
veramente impossibile, è piuttosto utile mettere mano a delle modificazioni
che, da un lato, lascino fuori dal carcere quanti più possibili e, dall’altro,
ammorbidiscano le condizioni di quanti dentro ci restano.
Il “radicale”
rischia di disinteressarsene, se non attraverso vaghe e fumose dichiarazioni di
principio, affaccendandosi, nel frattempo, in altre faccende e lasciando mano
libera ai professionisti del problema, aspettando un momento catartico X o Y o
Z in cui tutto si risolverà. Il “riformista”, quale che sia la sua indole e
natura, rischia di contribuire alla perpetuazione in eterno di carceri, leggi
ecc., attraverso il loro addolcimento e la loro modernizzazione.
Abolire il
carcere è un processo, nel quale l’astuzia, l’intelligenza, il realismo e
l’utopismo vanno saviamente combinati, affinché siano un vero cocktail
esplosivo.