Non si può realizzare il desiderio di comandare
senza il correlato desiderio di obbedire. Noi diciamo che le società primitive,
in quanto società indivise, impediscono al desiderio di potere e a quello di sottomissione
di realizzarsi: sono macchine sociali, rette dalla volontà di permanere nel proprio
essere indiviso, che si istituiscono come luoghi di repressione dei cattivi desideri.
Ai quali non viene lasciata alcuna possibilità. I selvaggi non ne vogliono sapere.
Non si può non sottolineare come incida la
consuetudine nel consolidare l'atteggiamento servile, come da un iniziale snaturamento
si transiti ad una nuova identità, come dalla libertà si passi ad un dominio costante
del uomo sull'uomo. In sostanza, per comprendere bene queste dinamiche per coglierne
la vera portata, è necessario rinunciare ad assumere una concezione evoluzionista
della storia, riconoscendo chiaramente la radicale rottura che avviene nel passaggio
dalle società primitive a quelle cosiddette civile ed evolute. Questa rottura profonda
e drammatica separa le società in cui i capi sono senza potere dalle società in
cui la relazione di potere è costitutiva delle varie comunità, introduce cioè una
discontinuità netta tra le società senza Stato e quelle fondate sullo Stato.
Il rifiuto di una obbedienza non è affatto,
come credevano missionari ed esploratori, un tratto del carattere selvaggio, ma
l'effetto a livello dei singoli individui dei meccanismi sociali, il risultato di
un'azione e di una decisione collettiva.