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sabato 4 giugno 2016

Muhammad Alì: Leggero come una farfalla, pungente come un’ape

Stanotte se ne è andato uno dei più grandi uomini di sport e (perché no) un uomo che se non si fosse avvicinato allo sport sarebbe diventato, con certezza, un rivoluzionario.
Sarebbe troppo facile affermare che Muhammad Alì ha perso il match più difficile della carriera, quello con il morbo di Parkinson, di cui soffriva da oltre 30 anni e che all'ospedale di Phoenix, dove era stato ricoverato due giorni fa per problemi respiratori, ha posto fine alla sua straordinaria esistenza all'età di 74 anni. Certo, ormai da tanto tempo le sue parole non erano i proiettili lanciati nelle sue grandi battaglie, sul ring e per i diritti civili, ma l’intensità dello sguardo era rimasta sempre la stessa nonostante quel velo calato impietoso. Alì ha battuto anche la malattia, usando le sue idee di libertà e giustizia per danzare come una farfalla e pungere come un'ape.
Quel morbo maledetto irriso già ad Atlanta nel 1996 quando, tutto tremante, accese la torcia olimpica facendo piangere di commozione un intero stadio. Non combatteva da 15 anni, ma forse quella sera fu il round più bello della vita: Parkinson messo alle corde da quel coraggio di mostrarsi malato, dalla fragilità avvolta in un commovente tremolio per un uomo che aveva avuto il mondo in pugno.
In una nazione americana sensibilmente razzista, da subito il piccolo Cassius Marcellus Clay capì che avrebbe dovuto lottare per far valere i propri diritti, il carattere era già combattivo ma il pugilato ancora lontano.
Tutto iniziò con una bicicletta rubata e molte cose per cui valeva la pena fare a pugni nella vita. Agitava le braccia per la strada urlando contro il ladro come avrebbe fatto anni dopo sul ring sbraitando contro una montagna di muscoli finita al tappeto alla settima ripresa :”Alzati vigliacco, alzati, combatti” urlava l’allora Cassius Clay il pugile ragazzino che rea dato 1 a 7 contro Sonny Lyston, ubriacone, avanzo di galera controllato dalla mafia e campione dei pesi massimi da due anni.
Fu un poliziotto, tale Joe Martin, che ne intuì le possibilità, o quanto meno ne indirizzò l’esuberanza caratteriale portandolo in una palestra. Fu l’inizio della leggenda.
Cassius Clay, sul ring, in quel piccolo, grande mondo racchiuso tra le dodici corde, trovò la sua dimensione, il talento sbocciò, dando anche modo di esprimere attraverso esso la sua protesta, di far sentire la sua voce. Il fisico lo portò a combattere nei pesi medio massimi prima e massimi dopo ma, nonostante la categoria «pesante», egli impostò il suo pugilato sull’agilità e la leggiadria dei movimenti. “Vola come una farfalla, pungi come un’ape” fu il mantra coniato da un suo secondo, Drew Brown, che accompagnò la prima parte della sua carriera che lo portò fino alla nazionale olimpica statunitense che partecipò ai Giochi di Roma del 1960, vincendo l’oro e facendosi conoscere al mondo. Sembrò una vittoria che potesse schiudergli le porte di una vita sportiva “normale”, in realtà il colore della sua pelle continuava ad essere fonte di discriminazione, tanto da indurlo, in un moto di rabbia dopo che un cameriere bianco si era rifiutato di servirlo, a gettare nel fiume Ohio la sua medaglia olimpica, ritenendo inutile vincere per quel paese che ancora non gli riconosceva equi diritti.
Quando nel quella sera del 25 febbraio 1964 conquistò il titolo mondiale contro Sonny Liston, come l’esplosione di una «supernova» il mondo conobbe il nuovo re della box, quel giovane spaccone così linguacciuto che abbatté un picchiatore brutale, anche nella rivincita e in un solo round.
Diventò seguace di Malcolm X, e come lui si convertì all'Islam, come lui dichiarò che il suo nome era un nome da schiavo e da allora si fece chiamare Mohammed Alì e predicò la superiorità della razza nera in università e college, attirando su di sé gli sguardi straniti e ostili dell’America.
In un periodo in cui ai neri afro-americani veniva concesso qualcosa nel mondo dello spettacolo e nello sport a condizione che si adattassero alle condizioni dei bianchi tenendo la bocca chiusa, Alì la sua non la chiuse mai; la usò sempre per accusare il potere e le ingiustizie sociali, specialmente quelle contro gli afro-americani. Mai una banalità, ma un continuo bersagliare il perbenismo di una certa America, conservatrice. Diceva “Io sono l’America, quella parte di voi che non conoscete: nero e impertinente.”
La sua protesta continuò, clamorosa, quando fu renitente alla leva, rifiutando di andare a combattere in Vietnam; “Sei pronto ad andare in guerra?” gli chiese un giornalista; “A nessuna condizione andrò in guerra. Non ho niente contro i Viet Cong, nessuno di loro mi ha mai chiamato negro...” fu la sua risposta. Non una frase ad effetto, ma una coraggiosa scelta di coscienza che gli costò il ritiro della licenza di boxeur (che poi gli verrà restituita nel 1970), la perdita del titolo negli anni sessanta e una condanna a 5 anni di reclusione (diventati poi 3 per un errore nel processo), ma guadagnando il sostegno di tutti i movimenti contro la guerra.
Scontati quegli anni, nessun’arena volle farlo combattere, anche perché Muhammad Alì aveva cominciato a prendere a pugni l’America razzista, come fecero Martin Luther King e Malcom X.
Quando finalmente ritornò sul ring risorse come un’araba fenice diventando quel campione che tutti conosciamo.
Era solito saltellare sul ring e massacrare i timpani degli avversari con offese ed imprecazioni, prima di massacrarli coi pugni. Fu, infatti, l'inventore del trash talking. Vinceva gli incontri prima con le labbra e poi coi pugni. È passato alla storia il suo martellamento psicologico ai danni di George Foreman in occasione della Rumble into the Jungle, il più famoso incontro di pugilato combattuto nel Novecento, che vide Alì battere Foreman a Kinshasa, in Zaire.
Nel 1981 su ritirò e tre anni dopo dopo scoprì d’avere il morbo di Parkinson, la malattia che col passar degli anni gli tappò le sue ali e gli spezzò il suo pungiglione. All’inizio aveva cominciato a combatterla con la stessa forza e con la stessa passione con cui aveva lottato per oltre venti anni sul ring, dedicando la sua vita alla solidarietà ed alle iniziative umanitarie, schierandosi sempre in prima linea per la difesa dei diritti civili.
Muhammad Alì era stato a Bagdad da Saddam per scongiurare una guerra che Bush stava già preparando, e poi in Sud Africa per festeggiare un altro che aveva preso a pugni i pregiudizi e le ingiustizie: il suo amico Nelson Mandela.
Era leggero come una farfalla, pungente come un’ape, Muhammad Alì nato Cassius Clay, combattente sul ring e nella vita.