Le profetiche parole dell'ex ministro Elsa Fornero "Il lavoro non è
un diritto" sono vere. Certo, queste parole hanno avuto come scopo quello
di giustificare i tagli sistematici alle garanzie di lavoratori, giovani e
pensionati, ma nascondono una verità. Lavorare non è un diritto, come potrebbe
esserlo? Farsi sfruttare, farsi sottrarre tempo, energie, vita per
l'arricchimento di qualcun altro non può essere un diritto. I diritti sono
quelli che i lavoratori hanno conquistato nel tempo per alleggerire e
estinguere questo sfruttamento. Per decenni la retorica lavorista ha assediato
la vita di tutti gli italiani: "Il lavoro qualifica, il sacrificio è
necessario" ci dicevano. Ci hanno ingannato facendo del lavoro l'oggetto
del contendere, invece che delle nostre condizioni di vita. Adesso la verità
però è di fronte a tutti.
II Jobs Act e la Garanzia Giovani del governo Renzi ne sono una chiara
dimostrazione. Nel 2015 il tasso di occupazione precaria ha raggiunto il 14%
(dato massimo di quando esiste la statistica), i 764 mila posti di lavoro
stabili che Renzi rivendica di aver creato grazie al Jobs Act non sono altro
che 578 mila "trasformazioni" di contratto (a volte peggiorative?).
1186 mila contratti rimasti (somma tra nuove assunzioni e cessazioni) sono il
frutto non tanto di questa riforma del lavoro quanto delle misure di
diminuzione delle tasse alle imprese che però perderanno molto probabilmente
effetto sul lungo termine. La decontribuzione delle tasse alle imprese è
comunque costata circa 1,8 miliardi: una spesa enorme di fronte all'efficacia
(186 mila posti, ripetiamo). Questi costi probabilmente saliranno a 12 miliardi
nel biennio 2016/2017. La solita storia, sgravi alle imprese senza alcun tipo
di ripresa occupazionale. Alcune statistiche sostengono che appena l'1% delle
nuove assunzioni sia frutto del Jobs Act. I nuovi contratti precari del 2015
sono 420 mila. I conti di quanto queste due riforme abbiano fallito sono
facili da fare.
La Garanzia Giovani a sua volta dimostra un'altra grande menzogna. La
misura che doveva contribuire a diminuire la disoccupazione giovanile si è
dimostrata completamente inefficace. A fronte di 865 mila iscritti appena 32
mila hanno avuto un contratto. Per il 74% l'aiuto di questo dispositivo non va oltre
il colloquio. Per gli altri 227 mila per lo più si tratta di tirocini e corsi
di formazione. Tirocini dietro cui molto spesso si nasconde lavoro vero fino a
quaranta ore settimanali con ritardi nei pagamenti e pochissime garanzie. In
questo caso la spesa pubblica è stata di 1,5 miliardi. Più o meno 36 mila euro
per creare un singolo posto di lavoro. I soldi anche questa volta vanno a
finire in sgravi alle imprese, burocrazia, centri per l'impiego. Insomma
speculare sui giovani disoccupati è un campo di affare per molti e il governo
ha fornito uno strumento in più per farlo.
Per i giovani il disastro è evidente, ma anche per gli altri non si
scherza. Generazione ottanta e seguenti in pensione a 75 anni? Fine pena mai.
Tanto più se si considera i molti che lavorano in nero o conforme contrattuali
che non concepiscono contributi. I molti impiegati in cooperative e nei sistemi
degli appalti vedono continue ristrutturazioni del personale. I licenziamenti
sono all'ordine del giorno specialmente li dove ci sono appalti pubblici. Gli
ultimi due casi con vertenze in corso sono quelli dei lavoratori della Venaria
Reale e dei bibliocooperativisti di Unito a Torino, ma molti altri non
balzano all'onore delle cronache.
I sindacati ormai sono dei simulacri vuoti che proprio nel difendere un
ipocrita diritto al lavoro hanno perso qualsiasi capacità di incidere sul
reale, o meglio hanno scelto di non farlo compiacenti ai governi e agli
sfruttatori. Pochi sono gli esempi virtuosi, come quelli dei lavoratori della
logistica che in questi anni dopo aspre lotte stanno riuscendo a migliorare le
loro condizioni di vita.
Eppure procede l'automazione tecnologica e la necessità reale di lavoro
per soddisfare il fabbisogno comune è sempre più bassa. Dove sta dunque il
problema? Nella distribuzione delle risorse che anche in questo caso finiscono
nelle casse dei più ricchi.
Sull'esempio delle lotte in Francia contro la "Loi Travail" non rivendichiamo un "diritto al lavoro", ma una
redistribuzione più giusta delle ricchezze che produciamo con il nostro sudore
e la nostra fatica! Non accettiamo più il loro ricatto, non vogliamo morire
sommersi dai curricula da distribuire o ormai anziani sul posto di lavoro.
Riprendiamoci ciò che è nostro.