Il movimento operaio del Novecento non è
stato schiacciato dalla repressione fascista né corrotto dai transistor e dai frigoriferi,
ma si è autodistrutto in quanto forza di cambiamento, poiché esso mirava a conservare
la condizione proletaria piuttosto che a superarla. Il fine del movimento operaio
era quello di impadronirsi del vecchio mondo e di gestirlo in modo nuovo: mettere
gli improduttivi al lavoro, sviluppare la produzione, instaurare la democrazia operaia.
Soltanto una piccola minoranza, «anarchica» o «marxista», affermava che una nuova
società avrebbe dovuto implicare la distruzione dello Stato, della merce e del lavoro
salariato, benché soltanto raramente abbia definito tale distruzione come un processo,
rappresentandosela, piuttosto, come un programma da mettere in pratica attraverso
la conquista del potere.
Come detto, la storia delle rivoluzioni operaie
è stata una storia di fallimenti e di sconfitte; non solo nella misura in cui esse
furono schiacciate dalla controrivoluzione capitalista, ma perché le loro stesse
«vittorie» finirono per assumere i contorni della controrivoluzione: instaurando
dei sistemi sociali che ponevano a proprio fondamento lo scambio monetario e il
lavoro salariato, esse non riuscirono ad andare oltre il capitalismo.
Ogni «periodo di transizione» era visto,
dunque, come intrinsecamente contro-rivoluzionario, non soltanto nella misura in
cui esso implicherebbe una struttura di potere alternativa che finirebbe col «conservarsi
declinando» (si pensi alle critiche di parte anarchica alla «dittatura del proletariato»),
né semplicemente in quanto manterrebbe inalterati, nei loro aspetti fondamentali,
i rapporti di produzione attuali; ma anche perché il «potere operaio», sulla base
del quale tale transizione si dovrebbe realizzare, veniva adesso visto come un elemento
estraneo alle lotte. Il potere operaio non è che l’altra faccia del potere del capitale,
il potere di riprodurre gli operai in quanto operai. A partire da questo momento,
l’unica prospettiva rivoluzionaria concepibile diventa quella dell’abolizione di
questo rapporto di reciproca implicazione.
Dagli anarco-sindacalisti agli stalinisti,
tutto l’ampio spettro del movimento operaio riponeva le proprie speranze di rovesciamento
del capitalismo e, in generale, della società divisa in classi, nell’ascesa al potere
della classe operaia all’interno del modo di produzione capitalista; a un dato momento,
il poter operaio si sarebbe dovuto impossessare dei mezzi di produzione, dando avvio
ad un «periodo di transizione» verso il comunismo o l’anarchia – una fase che non
avrebbe visto l’abolizione della condizione operaia, bensì la sua generalizzazione.
In tal modo, il fine ultimo della soppressione della società di classe coesisteva
con una larga varietà di mezzi rivoluzionari fondati sulla sua perpetuazione.
L’Internazionale Situazionista ereditò dai
surrealisti questa opposizione tra i mezzi politici concreti all’emancipazione del
lavoro e il fine utopico della sua abolizione. Il suo merito principale fu quello
di ricondurre un’opposizione esteriore, mediata dal programma socialista, ad un’attività
interna, più adeguata alla propria concezione della rivoluzione. Quest’ultima consisteva
in una rielaborazione radicale della liberazione del lavoro, attraverso la quale
si sottolineava il rifiuto di ogni separazione tra l’azione rivoluzionaria e la
trasformazione totale della vita – un’idea già presente, seppure in modo implicito,
nel progetto originario della «costruzione di situazioni». L’importanza di questo
sviluppo non deve essere sottostimata, nella misura in cui la «critica della separazione»
implicava sia una negazione di qualsivoglia iato temporale tra mezzi e fini (e dunque
dell’idea stessa di «periodo di transizione»), sia il rifiuto – incentrato sulla
partecipazione universale, diretta, democratica all’azione rivoluzionaria – di ogni
mediazione sincronica. In virtù di questa capacità di ripensare lo spazio-tempo
della rivoluzione, il superamento da parte dell’IS dell’opposizione tra liberazione
e abolizione del lavoro si sostanziava, in definitiva, nella riunificazione dei
due poli in un unità immediatamente contraddittoria, che trasponeva l’opposizione
tra mezzi e fini in una opposizione tra forma e contenuto.