Nel 1804, quando la spedizione guidata
dagli esploratori Lewis e Clark attraversò per la prima volta l’intero
continente nordamericano dall’Atlantico al Pacifico, sul territorio che oggi
chiamiamo Stati Uniti vivevano un milione di indigeni e galoppavano liberi
almeno 50 milioni di bisonti.
Alla fine del secolo, quando il West fu
vinto dagli emigrati europei, erano rimasti 1000 bisonti e 237.000 indiani. In
90 anni erano morti, in guerra o di malattia, il 75% degli indiani e quasi il
100% dei bisonti, che erano alla base della loro civiltà e della loro
esistenza.
Fra le parentesi di questo doppio
genocidio umano e animale sta la storia di una guerra e di un popolo: la storia
della invasione europea del Nord America, dello sterminio dei Indiani delle
Grandi Praterie del Nord.
Per noi figli del secolo successivo, del
XX secolo, che abbiamo imparato a conoscere gli indiani nell'oscurità di una
sala cinematografica o sulle pagine di fumetti sfogliati fino al disfacimento,
l'immagine di quei popoli e dei loro capi è sempre stata violentemente distorta
dalla fantasia commerciale dei registi e dei produttori di Hollywood. Dipinti
prima come «ombre rosse», come primitivi urlanti e assetati del sangue dei
pionieri, e poi, dopo gli anni Settanta, come vittime innocenti e mansuete
della crudeltà imperialista dei bianchi, gli indiani sono intrappolati negli
opposti stereotipi costruiti dalla cultura dei vincitori. Marionette, comparse,
figurine di cartapesta plasmate e riplasmate secondo gli umori e le ideologie
mutevoli del pubblico. Il Sioux buono di Balla coi lupi, o la principessina
melensa di Pocahontas possono rispondere meglio alla nuova sensibilità, e ai
nuovi rimorsi, di noi bianchi, ma sono in sostanza altrettanto falsi e distorti
dei Sioux cattivi con le piume in testa e il tomahawk spacca cranio in pugno,
impersonati da comparse messicane e raccontati dal cinema in bianco e nero di
John Ford, Errol Flynn e John Wayne.
Nella nostra foga di demonizzare gli
indiani prima, e di beatificarli poi per espiare le nostre colpe al modico
prezzo di un biglietto di cinema, ci siamo dimenticati sempre di una verità
tanto ovvia quanto fondamentale: che i Sioux, gli Cheyenne, i Corvi, gli
Aràpaho, gli Apache, i Comanche, i Seminole e tutte le 500 nazioni indigene che
popolavano il Nord America prima dell'arrivo di Colombo non erano né santi, né
poeti, né scotennatori, né ecologisti ante litteram, ma esseri umani capaci di
violenza e di tenerezza, di ingordigia e di generosità, di odio e di amore.
Padri e madri, mogli e mariti, artigiani e cacciatori, guerrieri implacabili e
fidanzatini timidi, secondo le circostanze conquistatori e conquistati,
nell'implacabile ciclo della storia umana che non risparmia mai a nessun popolo
la corona del martire e la spada del persecutore. Insomma erano semplicemente
uomini.