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mercoledì 19 novembre 2014

Un anarchico nell'inferno della Caienna (Pt 3)

L'inferno
Dopo questo, a togliere definitivamente ogni illusione, vennero i trenta giorni di mare, sulla nave-galera che lo portava al bagno della Guyana. Suoi compagni di sventura erano ladri, assassini, bruti senz'anima figli dell'abiezione, della miseria, dell'ignoranza: Lebou, condannato a vita per avere bruciato sua madre; Faure, che per questioni di interesse squartò il fratello e lo diede in pasto ai maiali; Menetier, che aveva ucciso due vecchie per violentarne i cadaveri; ed altri tutti degni prodotti della società che li aveva generati. Questa umanità spaventosa veniva schierata tutte le mattine sul ponte per l'ispezione, fra il ludibrio, le volgarità, i commenti idioti della ciurma, dei secondini, dei passeggeri civili. Duval non era uomo da sopportare tale trattamento. Alla prima occasione si ribellò, rispondendo per le rime alle provocazioni, ed ebbe così un altro assaggio della sorte che lo attendeva al penitenziario: nudo come un verme, fu sbattuto per due giorni, in una cella piena d'acqua, in cui non poteva star ritto perché troppo bassa, né si poteva allungare perché troppo stretta. La repressione nella repressione. La Guyana era veramente un inferno, un abisso immondo di violenza e depravazione, reso ancora più intollerabile dal clima tropicale umido e caldissimo. Laggiù, l'idea ipocrita che la galera possa servire all'espiazione e al ravvedimento, trovava a quei tempi la più tragica delle smentite. La Guyana era sinonimo di lavoro forzato, di ferri alle caviglie, di cibo putrescente, di celle di punizione, di insetti brulicanti, di scorbuto, amebiasi, dissenteria. Redenzione? Al bagno, gli uomini perdevano la salute, la dignità, morivano di stenti e di malattie, marci nel corpo e nel cuore, avviliti, spezzati, violentati, ridotti loro malgrado allo stato di animali. I delinquenti più feroci ottenevano qualche squallido privilegio con la prepotenza, a spese dei propri stessi compagni. I più cinici barattavano la simpatia dei guardiani con il servilismo, la delazione. I più deboli subivano. Il penitenziario era l'immagine, peggiorata e pervertita, di tutti i vizi, di tutte le miserie, di tutte le sopraffazioni proprie della società che l'aveva prodotto. Proprio per quello, quelli che non erano piegati prima, quand'erano in libertà, non accettarono di piegarsi adesso che si trovavano in una società più feroce, ma non dissimile dall'altra. Duval (e in genere tutti gli anarchici che finirono al bagno) non fece eccezione. La storia della sua permanenza nell'isola maledetta è la storia della sua fierezza, della sua irriducibile volontà di lotta, del tentativo costante di non perdere la sua misura d'uomo, di non precipitare anche lui nel baratro di turpitudine che aveva di fronte. E ci riuscì. Si opponeva ai taglieggiamenti dei guardiani, insorgeva contro le ingiustizie, aiutava i compagni più sfortunati, smascherava le spie e i provocatori. I secondi più crudeli, i direttori inebetiti dall'assenzio, le canaglie, gli assassini, i bruti senz'anima che popolavano il penitenziario, impararono a tributargli una sorta di rispetto, certo degno di un ambiente migliore, in cui l'ammirazione per la rettitudine si mescolava al timore per la durezza della sua scorza. Un rispetto meritato, se si pensa al prezzo che dovette pagare per ottenerlo.

La rivolta

La notte fra il 21 e il 22 ottobre 1895 scoppiò una rivolta sull'isola, organizzata dal gruppo, abbastanza numeroso, di anarchici che si trovavano allora al bagno. Fu una impresa senza speranze, compiuta più per vendicarsi delle continue vessazioni cui erano sottoposti i compagni, che per le vere possibilità di successo che presentava. Duval partecipò attivamente alla sua preparazione, che fu lunga, controversa e laboriosa, ma al dunque dovette rinunciare a dare il suo apporto attivo perché mandato in un altro luogo per punizione. Fu, tutto sommato, una fortuna. Infatti, l'Amministrazione penitenziaria messa sull'avviso dalle delazioni di un paio di traditori, aveva deciso di cogliere l'occasione per sterminare l'intera colonia anarchica, fonte continua di preoccupazioni per il carattere indocile dei suoi componenti. E così fu. Appena i rivoltosi uscirono dalle camerate, trovarono ad attenderli i fucili delle guardie. "Sangue freddo e senza quartiere" aveva raccomandato il comandante Bonafai, capo del servizio di Sicurezza Interno, ai suoi uomini, che per l'occasione erano stati ubriacati come maiali. Con un massacro allucinante, gli anarchici Garnier, Simon, Leauthier, Lebault, Masservin, Dervaux, Chevenet, Boesie, Mesueis, Kesvau, Marpeaux, furono sorpresi, inseguiti, uccisi uno per uno senza pietà. L'indomani, i loro corpi crivellati di colpi vennero gettati in mare, in pasto ai pescicani, mentre la Commissione d'inchiesta, subito nominata, continuava la repressione, arrestando e mettendo ai ferri tutti quelli su cui aleggiava anche il semplice sospetto di aver aiutato i ribelli. Duval restò alla Guyana 14 anni. In questo tempo, tentò l'evasione più di venti volte, cogliendo ogni occasione, con ogni mezzo: su zattere di fortuna, su barche rubate o pazientemente costruite, clandestino sulle navi in transito. Ogni volta qualcosa andava per traverso. Veniva preso, scontava l'inevitabile punizione, e ricominciava. Se avesse rinunciato, dopo i primi fallimenti, sarebbe morto in galera come tanti altri, roso dalla febbre o ucciso da un guardiano. Invece, per la sua incapacità a rassegnarsi, si salvò. Tenta e ritenta, un insuccesso dopo l'altro, finalmente venne la volta in cui la fortuna girò per il verso giusto.

L'evasione
Il 13 aprile 1901, Duval, con otto compagni di pena, metteva in mare un fragile canotto e si dirigeva silenziosamente verso il mare aperto. Era notte fonda, e nessuna guardia si accorse dell'evasione fino al giorno dopo. I deportati ebbero modo, così, remando di buona lena, di allontanarsi indisturbati. Al mattino, issata la vela, fecero rotta verso nord-est, per uscire dalla giurisdizione francese. Una nave da guerra li incrociò, senza mostrare il minimo interessamento, continuando per la sua strada. Un buon inizio. Veleggiarono tranquilli per tutto il giorno sospinti da una brezza leggera. Al timone stava un mozzo, ottimo marinaio, la cui esperienza nautica contribuiva a tenere alto il morale degli evasi. Ma alla sera, il tempo si guastò. La brezza divenne ben presto un uragano capace di sollevare ondate gigantesche, che riempivano di acqua la barchetta, costringendo gli uomini ad un continuo angoscioso lavoro di svuotamento. Per di più, il mozzo a causa della mancanza di vitamine (retaggio del regime alimentare del penitenziario), di notte perdeva completamente la vista e la sua abilità diventava ben poca cosa senza l'aiuto degli occhi. Fu una notte d'inferno, in cui più volte corsero il rischio di finire ai pescecani. Il mattino dopo, le condizioni atmosferiche migliorarono, quelle del mozzo anche, e in breve tempo Duval e i suoi compagni giunsero in vista della terra. Era la zona di Paramaraibo, nella Guyana Olandese. Cioè fuori dalle grinfie dell'Amministrazione penitenziaria. Il più era fatto. Anche così, però, gli evasi erano in pericolo. Come galeotti fuggitivi, potevano essere incarcerati dalla polizia olandese. Se la Francia l'avesse saputo, potevano venire estradati e internati nuovamente nell'isola maledetta. L'Odissea non era ancora finita. Sarebbe durata due anni. Sempre sotto falso nome, sempre allerta per non venire scoperto, sempre in lotta con la fame e con le autorità, costretto ai lavori più umili e miserabili, Duval passò nella Guyana inglese, poi, da lì nella Martinica, giungendo infine a Porto Rico. Qui si fermò un poco, rimettendo in sesto la salute malandata e ricostruendosi un embrione di vita normale. Il 16 giugno 1903 si imbarcò per gli Stati Uniti, con la prospettiva di un'esistenza perlomeno libera. La deportazione era ormai solo un ricordo, anche se incancellabile.
(Fine)