..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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lunedì 17 novembre 2014

Un anarchico nell'inferno della Caienna (Pt 1)

Parigi, ottobre 1886. Celato nell'ombra di un portone, il brigadiere Rossignol si tirava nervosamente i mustacchi. Se tutto fosse andato per il verso giusto, stava per portare a termine un'altra brillante operazione di polizia, un ennesimo successo da aggiungere al suo già fornito curriculum. Non aveva motivo di dubitare del buon esito della cosa. Era un uomo sicuro del fatto suo, il brigadiere, una specie di Calabresi dell'epoca, famoso per il coraggio e la efficienza con cui sapeva perseguitare la malavita cittadina. Quella volta si trattava di arrestare un pericoloso sovversivo, accusato di furto con scasso e incendio doloso, e l'agguato era stato predisposto con tutta la cura necessaria, tale da non destare preoccupazioni. Si era portato appresso una ventina di agenti, li aveva dislocati strategicamente, lui stesso era lì, pronto a dare il via alla manovra. Se era nervoso, era soltanto a causa dell'attesa. Fu forse per quest'eccesso di fiducia, o per la smania di fare bella figura, o per entrambi i motivi, che, appena il personaggio in questione si decise a comparire, il brigadiere Rossignol balzò senza esitare dal suo nascondiglio, precedendo i colleghi. In un lampo fu addosso al ricercato, urlando come un pazzo la frase di rito, quella certamente che preferiva fra i tanti stereotipi del linguaggio poliziesco: "In nome della legge, ti dichiaro in arresto!". Era la tecnica che usava in quei casi, per spaventare il delinquente colto sul fatto e togliergli subito ogni velleità di reazione. Ma non funzionò. Invece che con tremebonda rassegnazione il suo exploit venne accolto da un ringhio minaccioso: "E io ti ammazzo, in nome della libertà!". A conferma delle sue intenzioni, l'uomo aveva estratto un coltello lungo un palmo. La zuffa che seguì fu violentissima. Mentre gli altri sbirri cercavano vanamente di bloccarlo, l'irriducibile individuo inferse una mezza dozzina di coltellate al Rossignol e, nel disperato tentativo di divincolarsi, gli schizzò addirittura un occhio dall'orbita. Alla fine, il numero ebbe ragione della sua resistenza. Venne ammanettato e portato in galera. Il brigadiere andò all'ospedale, con un successo in più al suo attivo e un occhio di meno. L'antagonista dell'incauto poliziotto era Clement Duval, anarchico espropriatore, che quel giorno suggellava sanguinosamente la propria esistenza di militante rivoluzionario per iniziarne, di lì a poco, un'altra, quella di galeotto deportato alla Guyana. Una conseguenza fatale, tutto sommato, così come la ribellione violenta era la conseguenza fatale di una esistenza senza gioia, sofferta, come vedremo, sotto il giogo dello sfruttamento e della sopraffazione. Da questo punto di vista, la vicenda di Duval ha un significato che trascende il caso umano, perché è lo specchio di un'epoca, in cui si riflette il volto reazionario della Francia neo-industriale imperialista, sfruttatrice, repressiva. A quel tempo, poteva essere la storia di tutti, e in effetti lo fu di molti. Proprio in questa mancanza di eccezionalità risiede, oggi, il suo valore esemplare.

Proletario
Duval era di famiglia proletaria, e imparò ben presto cosa questo significasse. Ebbe il primo, brusco, contatto con la realtà in occasione del conflitto franco-prussiano, nel 1870 quand'era appena ventenne. Arruolato nel 5° battaglione Cacciatori a piedi, fu spedito al fronte, a sperimentare di persona quanto costava la gloria della nazione e chi doveva pagarne il prezzo. Grazie alle perfette condizioni igieniche in cui l'esercito francese veniva tenuto, si prese il vaiolo, scampando per miracolo. A Villorau fu ferito dallo scoppio di un obice, tanto gravemente da restare inchiodato per sei mesi in un miserabile ospedale di guerra. Tornò a Parigi nel 1873, in quanto, dopo la morte del padre, era l'unico sostegno della famiglia: tutto intero ma rovinato per sempre dall'artrite e dai reumatismi, postumi delle lesioni e della lunga degenza. Ironia della sorte, a casa trovò che la famiglia di cui doveva essere il sostegno non esisteva più. La giovane moglie (che aveva sposato poco prima di partire per il fronte) incapace a reggere da sola sia le sorti del menage che il peso della solitudine, si era messa con un altro, e il povero Duval, dopo le gioie della vita militare, ebbe modo di conoscere la condizione di reduce cornuto. La mentalità dell'epoca non era delle più aperte, in fatto di costumi sessuali e rapporti extramatrimoniali, e Duval, benché progressista, non era nelle condizioni di spirito migliori per guardare alle cose con quella serenità che le sue idee avrebbero richiesto. Ci vollero così ben 14 mesi di rancore e gelosia retrospettiva perché i due coniugi riuscissero a dimenticare l'incidente e tornassero a vivere insieme. Fu l'inizio di un periodo di relativa tranquillità. Lui lavorava come meccanico in un'officina di Parigi, la moglie badava alle faccende domestiche, e la vita benché dura, poteva sembrare quasi felice, a paragone di quella del fronte. Non che fossero rose e fiori, intendiamoci. In fabbrica, 14 ore di lavoro al giorno, disciplina ferrea, lo spettro del licenziamento ad ogni minima mancanza. A casa, vitto povero, sporcizia, squallore, i lunghi silenzi della fatica e della miseria. Era la vita che conducevano allora i proletari dei paesi neo-industriali. In quest'epoca, Duval maturò le sue convinzioni libertarie, le affinò con letture e con l'esperienza diretta, rendendosi conto della natura dello sfruttamento e convincendosi che l'unica prospettiva di emancipazione per le classi inferiori stava nella rivoluzione. Ma, più che per le idee e le intenzioni sovversive, si faceva allora conoscere per la fermezza orgogliosa del carattere, per l'onestà, per la passione che nonostante tutto, metteva nel suo mestiere. Ma era segnato. Non da un soprannaturale destino avverso e nemmeno tanto dalle idee che professava, piuttosto dalla sua condizione di sfruttato, di reietto cui la società chiedeva tutto, dolore, sacrificio, rassegnazione, e non dava nulla in cambio. Dopo appena tre anni di vita normale, un terribile attacco di reumatismi venne a ricordargli di aver combattuto per la patria, inchiodandolo in letto, quasi senza interruzione, fino al 1878. Perse il lavoro, e se prima era stata la povertà, ora fu la miseria. E, con la miseria, le liti in famiglia, le recriminazioni, il disprezzo degli altri, l'angoscia di un'esistenza senza prospettive senza pietà. La disperazione. L'odio.
 (continua)