..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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martedì 18 novembre 2014

Un anarchico nell'inferno della Caienna (Pt 2)

Espropriatore
E Duval rubò. Per vivere, per mangiare, senza porsi problemi di alcun genere, con l'unica consapevolezza di non avere alternative. Rubò una prima volta, in una biglietteria ferroviaria, pochi franchi sottratti dal cassetto mentre l'impiegato era assente, e gli andò bene. Rubò una seconda volta, di lì a poco e nello stesso luogo, ma venne sorpreso e acciuffato. Il risultato immediato fu la prigione (un anno a Mazas) e l'abbandono, ormai definitivo, da parte della moglie. Ma non fu l'unico né il più importante. Quel primo contatto con l'illegalità lo fece meditare e lo convinse non solo della sostanziale legittimità del furto (o "riappropriazione individuale", come si diceva allora) ma della possibilità che esso divenisse un mezzo di lotta. Un mezzo, si badi, non un fine a sé stante. Ché proprio in questa concezione, accettabile o no che fosse sul piano della strategia rivoluzionaria, sta la grandezza d'animo di Clement Duval. Altri sarebbero venuti, dopo di lui, a rubare, a rapinare, solo per sé e per la propria vita, scambiando per rivoluzione quella che era invece rivolta individuale (pur comprensibile), convinti che bastasse sottrarre al ricco i suoi averi, senza domandarsi cosa bisognasse farne dopo. Duval, al contrario, vedeva nel furto solo uno strumento per finanziare l'attività politica, per stampare la propaganda sovversiva, per agitare le masse, per preparare le armi necessarie allo scontro con la borghesia sfruttatrice, per fare la rivoluzione anarchica. La sua, fu una lotta solitaria, a causa delle condizioni in cui fu costretto ad agire, ma non egoistica. Dopo i primi tentativi inconsapevoli, egli seppe oltrepassare la propria tragedia personale, trovando in essa il punto di partenza per una visione più ampia, la ragione di una lotta fatta né per se stesso né per gli altri, ma per tutti. Quando Duval uscì di galera, cominciò attivamente a fare propaganda libertaria nelle fabbriche, intorno a Parigi, e si rese conto di essere come in guerra. Una guerra condotta senza esclusione di colpi, senza convenzioni internazionali che ne regolassero i meccanismi, senza aristocratico fair-play. Ogni rivendicazione finiva con licenziamenti massicci, ogni sciopero si trovava di fronte i fucili dell'esercito ed erano morti e feriti, ogni pubblica manifestazione di dissenso era l'occasione per arresti di massa (ed era la galera, la deportazione, la ghigliottina). Duval pensò (chi può dargli torto?) che non si potesse fare altro che rispondere alla violenza con la violenza. E, perdio, rispose. Una fabbrica di pianoforti, gli edifici della compagnia degli Omnibus, una ebanisteria, una fabbrica di carrozze, le officine Choubersky dove egli stesso lavorava, la ditta Belvallette di Passy: i luoghi dove lo sfruttamento più disumano veniva consumato, dove gli operai sputavano la salute 14 ore al giorno in cambio di quattro miserabili franchi, dove il privilegio più indegno si formava e si consolidava, caddero in rovina, distrutti dal fuoco, sventrati dall'esplosivo. È in questo periodo che nasce nell'iconografia del regime, la figura dell'anarchico dinamitardo, tenebroso vendicatore dei torti proletari, incubo del borghese e del benestante. Duval, ormai, era uno di questi. La notte del 5 ottobre 1886 accadde l'episodio che doveva determinare la sua rovina. Duval si introdusse nell'appartamento di Madame Lemaire, una ricca signora che abitava al n. 31 di Rue de Monceau. Gli inquilini erano in villeggiatura ed egli potè agire indisturbato: razziò accuratamente tutti gli oggetti preziosi che riuscì a trovare e devastò quanto fu costretto, per il peso o l'ingombro, a lasciare sul luogo. Andandosene, senza volerlo (ché non aveva interesse alcuno ad attirare l'attenzione mentre era all'opera), appiccò il fuoco alla casa. Il danno, tra furto e incendio, fu di oltre diecimila franchi, una bella somma che contribuì a dare una certa risonanza all'avvenimento. La polizia non tardò a scoprire il responsabile. I gioielli espropriati, messi in vendita troppo presto, lasciavano dietro di sé una traccia evidente, che in qualche giorno permise di risalire ai ricettatori e quindi a Duval. Sorpreso davanti all'abitazione di un compagno, questi venne arrestato, e non senza fatica, come abbiamo già raccontato.

Il processo
Anche il processo, che si tenne l'11 e il 12 febbraio 1887 dinnanzi alla Corte d'Assise della Senna, fu ben lontano da svolgersi in modo tranquillo. L'imputato rimbeccò i giudici con fermezza rifiutando il ruolo di delinquente comune in cui lo si voleva costringere, reclamando a gran voce la natura politica del suo movente, contestando la pretesa degli uomini di toga in "fare giustizia". Da accusato si fece accusatore, delle malversazioni, dell'ingiustizia dello sfruttamento, delle mistificazioni, dei torti subiti, da lui e da quelli come lui. Il pubblico, che stipava fitto il tribunale, fu trascinato da quella veemenza e fece eco. L'ultima udienza terminò in una baraonda gigantesca. Duval espulso dall'aula, la gente che gridava "Viva l'anarchia!", la polizia quasi sopraffatta dalla folla, i giudici in fuga verso la Camera di Consiglio, e poi insulti e zuffe, botte e arresti. Un'ora dopo, sedato il tumulto, la Corte comunicò il verdetto: la morte. Una pena dettata dalla paura, certo sproporzionata alla gravità dei reati in discussione. Il 29 febbraio, forse rendendosi conto di questa sproporzione, il Presidente della Repubblica commutò la sentenza in quella, solo apparentemente più mite, della deportazione a vita. Il consesso civile chiudeva i battenti alle sue spalle e gli spalancava quelli dell'inferno. Per sempre. Il 25 marzo, alle quattro del pomeriggio, Duval partiva con la nave "Orne" dalla fortezza militare Lamalgue, di Tolone, alla volta della Guyana. Di quale vita l'attendesse aveva avuto una raccapricciante anticipazione fin dal primo giorno che era giunto al forte. Le sue stesse parole (1), pur nella loro ridondanza fin de siecle, sono di una eloquenza cui non servono commenti: "(...) non oserò mai ridire la corruzione putrida di quella borgia in cui ogni affetto e sentimento umano fermentava all'ultimo stadio purulento della decomposizione. Lungo i muri, sdraiati sul tritume miasmatico dei sacconi, erano gli esausti, la povera gente che a tutte le speranze aveva dato l'addio (...). Negli angoli discreti a cui non giungevano né il guizzo scialbo dei lumi ad olio, né lo sguardo dei curiosi, erano fremiti e singulti, la foia, il delirio bestiale della fornicazione. Un trivio di Sodoma eretto all'ombra della terza repubblica della borghesia benpensante, ad onore e gloria della morale vereconda e della scienza penale positiva".
(continua)