“Sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re,
fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam”. Risiede nel
ritornello di "Ho visto un re", ballata malinconica e beffarda, tutta la forza,
il pensiero, il senso, dell’artista universale che è stato Dario Fo, drammaturgo,
poeta, pittore, attore, impresario teatrale, giullare, morto la scorsa notte a 90
anni.
Lì ci sono la gioiosità e l’ingegno dell’inventore del grammelot;
come l’eterna traiettoria politica del mondo, l’alto e il basso, i miserabili
(“villani”) e i potenti, gli sfruttati e gli sfruttatori. E Dario Fo nel suo
immenso, infinito, irripetibile teatro, assieme a Franca Rame, compagna di vita
e di poesia, di impegno e di sventura, ha recitato questo per tutta la vita,
mostrando al mondo intero cosa significasse reinventare anche solo per un
attimo, una parola, un guizzo, una lingua fittizia fatta solo di suoni che
nella loro apparente e vivace incomprensibilità sono poi diventati
comprensibili al mondo.
È stato colpito tante volte della censura, iniziata con la
Rai a Canzonissima ’62 (con lo sketch
su un imprenditore edile che non dotava i suoi operai delle misure di sicurezza
sul luogo di lavoro) e relativo certificato di allontanamento per almeno
quindici anni, fino ad arrivare al Mistero Buffo dei papi arroganti e dei popolani
mica tanto sciocchi, misteri medioevali e parabole evangeliche, mescolanza
apparente di lingue padane che oggi riconoscono anche in Giappone meglio
dell’esperanto. Segno politico del racconto popolare dove la commedia dell’arte
fiancheggia, feconda la satira e sbeffeggia ilare potere e ipocrisie della
religione.
Il teatro di narrazione dei Paolini, Baliani e Celestini è nato qui.
“Quello del giullare è un mestiere a rischio. Le mie idee non erano sempre
condivise da tutti, ma sempre le ho difese. Anche quando piovevano minacce di
ogni tipo, allarmi di bombe in teatro, telefonate intimidatorie”, raccontò Fo.
“La morte non la corteggio, ma non la temo”, ha spiegato l’attore
nel recentissimo libro intervista Dario e
Dio (Guanda). “Se hai campato bene, la morte è la giusta conclusione della
vita”.
In questi giorni non è mancato chi ha voluto rivendicare “il suo
Dario Fo”. Per alcuni il migliore è stato il Fo comunista e libertario che
denunciava i delitti di Stato e le stragi impunite. Non pochi esaltano l’ultimo
Fo ammiratore di Casaleggio e Grillo. Altri preferiscono il Fo delle origini e
le prime rappresentazioni con l’inseparabile Franca Rame. Altri ancora scelgono
il Fo giullare, cantore e reinventore di saghe e racconti popolari. Come
dimenticare lo scrittore, il pittore, l’autore, il promotore di mille eventi,
il narratore e divulgatore del nostro patrimonio artistico e culturale?
Dario Fo è stato tutte queste cose e tante altre. Io voglio
ricordare il Fo anarchico che ha contribuito alla mia crescita ideologica
durante il movimento studentesco del 1977, il compagno che con la sua infinita
voglia di libertà ha difeso la libertà di satira e di informazione contro i
regimi di qualsiasi natura, colore politico, confessione religiosa; non a caso
la Turchia di Erdogan aveva inserito le sue opere tra quelle non gradite al
regime.
Grazie Dario