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venerdì 5 luglio 2013

I moti del 1960: Genova, Licata, Roma, Reggio Emilia.

Il 1960 fu un anno importante per l’Italia imprenditoriale (boom economico), ma anche l’inizio della crisi politica e sociale del nostro paese. Agli operai, infatti, non era consentito rivendicare i propri diritti attraverso uno Statuto dei Lavoratori. Dal 1955 al 1960 si susseguirono cinque governi, che destabilizzano l’Italia anziché darle equilibrio e forza. Alla disfatta del secondo governo Segni, il Presidente della Repubblica Gronchi nominò Ferdinando Tambroni, come Presidente del Consiglio. Tambroni, democristiano, fu un uomo di secondo piano della DC e fermo sostenitore dell’ordine pubblico. La nomina di Tambroni rallentò le trattative centriste tra i comunisti di Enrico Berlinguer, i socialisti di Pietro Nenni e i democristiani di sinistra di Aldo Moro. Tambroni, grazie all’appoggio dei monarchici e del MSI di Arturo Michelini (insieme ad Almirante fondatore del partito neofascista), ottenne una risicata fiducia alle Camere.
Nell'estate del 1960 la Sicilia era una polveriera sociale e politica animata da grandi lotte di massa. Nelle campagne l'emigrazione e la crisi dei prezzi dei prodotti agricoli creava una situazione di disagio e di opposizione. Nelle grandi città la crisi delle industrie tradizionali, metalmeccaniche e chimiche, e l'espansione della speculazione edilizia creavano elementi di scontento e di rivolta soprattutto negli strati popolari. L'anno precedente si erano svolte le elezioni regionali che avevano segnato una grande affermazione della sinistra e soprattutto dell'Unione Cristiano Sociale di Milazzo che aveva raccolto nelle campagne il disagio dei contadini più agiati e dei piccoli proprietari che rompevano così il blocco agrario CONFIDA-COLDIRETTI e nelle città di Palermo e specialmente di Catania il sottoproletariato dei quartieri storici e popolari che aveva in passato votato per i monarchici e per la chiesa.
Ma il governo regionale formato da socialisti e cristiano sociali e appoggiato dai comunisti era stato abbattuto dopo pochi mesi per il passaggio, attraverso un torbido intreccio di mafia e di servizi segreti, di alcuni elementi dell'Unione Cristiano Sociale al fronte avverso che si esprimeva attraverso un governo regionale presieduto dal barone Maiorana e basato sull'alleanza esplicita tra DC e MS. La Sicilia aveva così il suo Tambroni ante litteram e quindi anche per questo fatto la manovra romana acquisiva in Sicilia un particolare significato.
Lo stato di disagio delle masse si esprimeva in tanti modi.
A Palermo per il 27 giugno era stato proclamato, da CGIL, CISL e UIL, con la partecipazione di associazioni di commercianti ed artigiani, e perfino con l'adesione chiaramente strumentale della CISNAL, uno sciopero generale di tutte le categorie. Il programma di questo sciopero era tra i più avanzati e praticamente rispecchiava la piattaforma elaborata dal PCI, dal PSI e dalla CGIL regionale e palermitana che aveva come suo dirigente ed animatore Pio La Torre. I tentativi da parte della polizia di bloccare lo sciopero e le manifestazioni si svilupparono anche il 27 giugno in combattimenti di strada in cui la "celere" ebbe la peggio perché vide i propri mezzi bloccati dai bidoni della spazzatura messi di traverso mentre la folla reagiva agli attacchi utilizzando il materiale dei cantieri edili delle varie zone. Lo sciopero si concluse in modo vittorioso ed ebbe anche un seguito con fatti significativi di valore politico e sociale.
L’appoggio del MSI si rivelò letale per il governo Tambroni, tanto che, a marzo (due mesi dopo la nomina del nuovo governo), il partito neofascista di Michelini annunciò il suo Congresso Nazionale a Genova, città notoriamente partigiana e medaglia d’oro al valore civile nell’ultima guerra. A presiedere il congresso missino fu l’ex prefetto repubblichino, Emanuele Basile.
Alla notizia Genova insorge. Il 30 giugno i lavoratori portuensi (i cosiddetti "camalli") risalgono dal porto guidando decine di migliaia di genovesi, in massima parte di giovane età in una grande manifestazione aperta dai comandanti partigiani. I giovani operai e gli studenti organizzarono dei sit-in di protesta contro lo svolgimento del congresso. Al tentativo di sciogliere la manifestazione da parte della polizia, i manifestanti rovesciano e bruciano le jeep, erigono barricate e di fatto si impadroniscono della città, costringendo i poliziotti a trincerarsi nelle caserme. In piazza De Ferrari viene acceso un rogo per bruciare i mitra sequestrati alle forze dell'ordine. Per tutta risposta, il Presidente del Consiglio ordinò al prefetto e al questore di Genova la “linea dura”: aprire il fuoco ad altezza d’uomo contro i manifestanti. Il prefetto di Genova è costretto ad annullare il congresso fascista.
Nei giorni successivi, il fermento popolare, scatenato dall’indignazione per la “linea dura” delle forze dell’ordine, fu soffocato nel sangue, provocando 11 morti e centinaia di feriti.
Genova è solo l’inizio.
Dopo i “fatti di Genova” seguono quelli di Licata, in provincia di Agrigento. A Licata il 5 luglio si organizza un grande sciopero generale, la situazione della città è insostenibile. La fabbrica della Montecatini, unica industria, è sul piede di mobilitazione, la ferrovia è stato soppressa, le campagne sono in crisi, la disoccupazione cresce e così pure l'emigrazione. Lo sciopero è proclamato da tutti i sindacati, come altre volte, ma questa volta l'atteggiamento dello Stato è diverso e l'intervento della polizia è violento e inusitato. La popolazione reagisce, e durante una manifestazione di braccianti ed operai la polizia ferì quattro persone e uccise Vincenzo Napoli, 24 anni, che rivendicava solo pane e terra. Dopo questo fatto la lotta si allarga e la popolazione continua per tutta la giornata a battersi contro la provocazione poliziesca.
Il 6 luglio 1960 a Roma, a Porta San Paolo, la polizia reprime con una carica di cavalleria (guidata dall'olimpionico Raimondo d'Inzeo) un corteo antifascista, ferendo alcuni deputati socialisti e comunisti.
Dopo i “fatti di Licata” la sera del 6 luglio la CGIL di Reggio Emilia, dopo una lunga riunione (la linea della CGIL era sino a quel momento avversa a manifestazioni politiche) proclama lo sciopero cittadino. La polizia ha proibito gli assembramenti, e le stesse auto del sindacato invitano con gli altoparlanti i manifestanti a non stazionare. Ma l'unico spazio consentito - la Sala Verdi, 600 posti - è troppo piccolo per contenere i 20.000 manifestanti: un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decide quindi di raccogliersi davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta. Alle 16.45 del pomeriggio una violenta carica di un reparto di 350 celerini al comando del vice-questore Giulio Cafari Panico investe la manifestazione pacifica. La strage di Reggio Emilia divenne il simbolo della lotta operaia del 1960. Quel maledetto 7 luglio, cinque operai reggiani, Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli, tutti iscritti al PCI, furono uccisi dalle forze dell’ordine. Polizia e carabinieri sparano con mitra e moschetti più di 500 proiettili, per quasi tre quarti d'ora, contro gli inermi manifestanti.