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domenica 15 dicembre 2013

Pinelli, 15 dicembre 1969 … Non dimentichiamolo!



Ci sono vicende di cui si è parlato talmente tanto da crederle «esaurite»; e che hanno segnato una generazione al punto da risultare estranee - o persino fastidiose - a chiunque non le abbia vissute in presa diretta. Di tutto ciò che ruota attorno alla morte di Giuseppe Pinelli - dalla strage di piazza Fontana all'uccisione del commissario Calabresi - supponiamo di conoscere tutto. Tutto, tranne una verità giudiziaria che sembra essere stata possibile solo per le sentenze che hanno condannato Bompressi, Pietrostefani e Sofri su indicazione di Leonardo Marino. In realtà il rischio è di aver dimenticato quasi tutto e di non riuscire più a comunicare alcunché a chi da quelle vicende non è stato attraversato.
Giuseppe Pinelli è morto la sera del 15 dicembre 1969, precipitando da una finestra del quarto piano della questura di Milano. In quel luogo vi era arrivato tre giorni prima, col suo motorino, per un «colloquio informale», presto diventato interrogatorio di ora in ora sempre più pressante. Da «persona informata» a indiziato cui viene negato il sonno, a corresponsabile della strage del 12 dicembre, quella che pose fine all'innocenza del movimento nato nel '68, quella che - secondo le autorità del tempo - « era del tutto coerente con lo spirito e la tradizione anarchica». Fu per «vendicare» il ferroviere anarchico (o «fare giustizia») che tre anni dopo Luigi Calabresi venne ucciso.
Tutto questo è noto e anche un ventenne di oggi lo sa (o può saperlo facilmente). Ciò che è andato un po' perso o che in molti non hanno mai saputo è il peso di queste vicende, il loro contesto, persino il senso delle parole spese allora. E un'infinita serie di «particolari» sulle inchieste svolte attorno alla morte di Pinelli che dicono moltissime cose sul rapporto tra i poteri in questo paese (quelli palesi - giudiziario, esecutivo, legislativo - e quelli occulti). E, forse rafforzano la convinzione che nessuna giustizia sia possibile in Italia quando di mezzo ci sono la politica e i suoi manovratori.
La vita di Giuseppe Pinelli finì attraverso una finestra, perché la strage doveva essere anarchica, perché il mostro-Valpreda era pronto per essere sbattuto in prima pagina, perché la politica romana pretendeva i colpevoli e prescindere dai fatti. Se piazza Fontana è il peggior trauma della storia repubblicana, la morte di Pinelli ne è il corollario: i due misfatti aprono una scia giudiziaria nutrita di falsità, approssimazioni, meschinità, bassezze. Sono le famose «deviazioni» che diventano il culto di una classe dirigente crudele e violenta quanto cialtrona. E se i processi per la strage alla Banca dell'agricoltura si susseguono in un progressivo reciproco annullarsi, se la pista anarchica si sgonfia dopo qualche anno ed emerge la trama nera (impastata con quella di stato), le indagini e le udienze per la morte di Pinelli rivelano ricostruzioni contraddittorie e farsesche (Dario Fo ne trarrà la memorabile Morte accidentale di un anarchico), per approdare al consueto nulla di fatto. In cui l'unica certezza - una trama che si dispiega fino a oggi - è che le questure sono tra i luoghi meno sicuri per un cittadino italiano. Ma in cui si svela anche quel bassissimo profilo di una classe dirigente per cui lo stato è principalmente un luogo d'interesse privato, un'entità tenuta in piedi da manovre di ogni tipo pur di garantire l'ordine e gli interessi costituiti. Anche violando le leggi dello stato.