Il 1944 è un anno terribile per Italia, al Nord
martoriata dai rastrellamenti nazisti, al Sud ferita dai recenti bombardamenti
e senza pane, senza vestiti, con pochi mezzi di prima necessità.
Nel settentrione si compiono i gravi eccidi nazisti
(il 12 agosto Sant’Anna di Stazzema), nel meridione avvengono stragi di inermi
cittadini per “fuoco amico”.
A Palermo oggi sono pochi, se non addirittura
nessuno, quelli che ricordano gli eventi del 19 ottobre del ’44, una luttuosa
giornata sulla quale non esistono pubblicazioni ufficiali, testimonianze,
fotografie, testi.
Comincia la mattina del 19 ottobre, giovedì: gli
uffici comunali rimangono deserti, per l’astensione dal lavoro dei dipendenti.
Neppure i postelegrafonici e i ferrovieri si recano
al lavoro.
È sciopero contro il carovita, come in tante altre
parti del paese, è la rabbia di chi soffre gli stenti della ripresa, mentre i
“baroni” ed i padroni del “mercato nero” mantengono i privilegi ed aumentano le
loro ricchezze.
Gli scioperanti chiedono salari adeguati, ma soprattutto pane e pasta, da mangiare per tutti, e si uniscono i disoccupati, i muratori, i giovani e si fa il corteo al grido di “Pane! Pane!”, un corteo sempre più lungo, che a mezzogiorno parte dalla storica Piazza Pretoria, chiamata da sempre “Piazza della Vergogna” per la nudità delle statue che adornano la monumentale fontana al centro della piazza.
Scende, il corteo, la breve scalinata che immette
sulla via fatta costruire a fine ‘500 dal vicerè, duca di Maqueda, per
ospitarvi i palazzi della nobiltà, e si dirige, snodandosi nello splendore
barocco che scontra la miseria delle plebi affamate, verso il nobile edificio
di Palazzo Comitini.
Lì, nello storico Palazzo ha sede la Prefettura,
presidiata da una trentina fra poliziotti e carabinieri, ma il Prefetto non c’è
e nemmeno l’Alto Commissario, così i manifestanti che chiedevano di essere
ricevuti in delegazione dalle autorità cominciano a scalpitare suscitando i
timori del vice-prefetto Giuseppe Pampillonia che invoca l’intervento dell’esercito
ed ottiene l’invio di 50 soldati del 139° fanteria “Sabaudia” guidati dal
sottotenente Calogero Lo Sardo.
I militari sono accolti con lancio di sassi e
rispondono con lancio di bombe a mano e spari ad altezza d’uomo provocando 24
morti e 158 feriti, molti assai gravi, tanto che qualcuno ipotizza che le
vittime potrebbero essere di più con decesso, per le conseguenze, dopo vari
giorni, ipotesi che non si può escludere a causa del silenzio calato sugli
eventi dallo stesso Governo che chiude affrettatamente il caso dandone una
versione chiaramente falsa (si parla di “elementi estranei” che è provato non
ci sono, “colpi di arma da fuoco”, ma gli unici bossoli rinvenuti appartengono
all’esercito, “sedici morti”, ma se ne contano 24 subito), versione dalle quale
tuttavia nessuno dei partiti antifascisti prende le distanze.
Il 24 febbraio del ’47 ventuno imputati vanno a processo, riconosciuti colpevoli quanto meno di “eccesso colposo nell’uso legittimo ( ! ) delle armi” e tuttavia nessuno va in galera “per sopraggiunta amnistia”.