..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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mercoledì 8 ottobre 2025

Gli anarchici e la lotta contro la galera. Motivi di una seria riflessione (parte 2)

Si è anche discusso accanitamente in passato, e forse lo si fa ancora oggi in certi ambienti nostri, a proposito del sequestro di persona a scopo di estorsione, ed è emerso secondo alcuni che «gli anarchici e le anarchiche non sequestrano perché non possono, essi stessi, che sono contro ogni forma di carcere, trattenere in cattività contro la loro volontà alcuna persona, perché ciò significherebbe dare vita a qualche forma di prigione; il che sarebbe ben al di fuori dei fondamenti dell’anarchismo medesimo». Forse non è neppure per puro caso che discussioni come quella appena accennata siano emerse entro il contesto di particolare attenzione da parte delle istituzioni vigenti a scapito degli anarchici e delle anarchiche, e qui la si riporta semplicemente per sottolineare al contempo quanto compagni e compagne cerchino di approfondire alcune tematiche, ma anche quante volte ci si fermi spesso a metà strada, non pervenendo fino in fondo alle discussioni che si affrontano ed alle conseguenti pratiche.

Vi è di certo un fondo di verità in tale ragionamento-posizione, ma è allo stesso tempo vero che esso si erge al di sopra della realtà fattuale, che solo nell’astrazione a-storica risulta sempre uguale. Tant’è che nella realtà, anarchici/che hanno effettuato sequestri di persone non solo per rivendicazioni esplicitamente “politiche”, bensì anche a scopo estorsivo, ovvero per avere denaro in cambio della liberazione dell’ostaggio.

Che cosa vi è di diverso fra il sequestro per estorsione effettuato da anarchici e sequestro effettuato da proletari? Nulla, se si guarda al fatto che entrambi mirano alla “riscossione” del ricatto (che potrà essere, oltre alla somma in denaro, finanche la richiesta di liberazione di propri compagni imprigionati, oppure l’annullamento di sentenze di morte). Nulla di diverso vi è anche se guardiamo alla detenzione temporale del sequestrato, concernente in entrambi i casi il tempo strettamente necessario per garantirsi l’incolumità, oltre a quello atto a far sì che la trattativa ed il riscatto vadano in porto.

(Si badi bene, io non sto affatto dicendo che il sequestro di persona sia la modalità migliore per far sì che compagni e compagne, o anche semplici proletari/ie, si riapproprino di parte almeno di quanto loro sottratto dal sistema imperante di sfruttamento, oppressione, miseria, o di quanto necessitano per energie indispensabili nella lotta quotidiana contro tale sistema. Ciò sta ai singoli deciderlo).

Tuttavia sottolineo una sostanziale e decisiva differenza fra quelle che sono le “prigioni” dei sequestrati a scopo politico o di estorsione di danaro, e la galera di cui si serve lo Stato-capitale per mantenere ed imporre il suo ordine. Nel primo caso non si può affatto parlare di Istituzioni, bensì occasioni del tutto estemporanee valutate come atte a risolvere qualche necessità per altro imposta dallo stato vigente delle cose. Il penitenziario, la galera dello Stato-capitale è invece una Istituzione fra le altre che, nel loro insieme, costituiscono e monopolizzano l’esercizio del potere d’imperio, la cui funzione è stabile nel tempo e il cui scopo è privare della libertà tutti (meglio, quasi tutti) coloro che hanno infranto l’ordine imposto da quanti detengono in esclusiva la facoltà del comando.

(continua)

 

domenica 5 ottobre 2025

Gli anarchici e la lotta contro la galera. Motivi di una seria riflessione (parte 1)

Gli anarchici, proprio in quanto tali, non possono che essere CONTRO LA GALERA, contro ogni tipo di prigione istituzionalizzata. Detto in altri termini, l’istituzionalizzazione di un luogo interno al sociale ma al contempo separato dallo stesso, è l’opposto dei fondamenti medesimi dell’anarchismo, essendo l’anarchismo la negazione di ogni autorità d’imperio dell’uomo sui suoi simili.

Tuttavia l’anarchismo non è affatto garanzia che in ogni luogo ed in ogni tempo non vi siano attriti fra individui o gruppi di individui, attriti di diversa natura e origine, che scatenano anche momenti di conflitto che sfociano pure in guerre di supremazia fra le fazioni, e che possono determinare fasi violente che varcano i limiti della sfera interna ai contendenti, spaziando nell’intero corpo sociale fino a coinvolgere questo in una instabilità tale da lacerarlo così tanto da decretarne la scomparsa per autodistruzione.

Ciò non è ipotesi fantasiosa, tanto è vero che pure ipotizzando il rivoluzionamento dell’esistente secondo la tensione anarchica, e cioè ipotizzando la distruzione rivoluzionaria del presente storico e l’avveramento di una società senza potere centralizzato, tenendo nel dovuto conto le migliaia di anni in cui il dominio dello Stato ha conformato le menti alla sua necessità di eternarsi – amalgamando le genti ai suoi meccanismi di produzione e riproduzione – non è affatto impossibile che come risposta a “sentite” o reali offese, o a pretese di imposizione di volontà ed interessi alteri, ecc. si faccia ricorso anche nell’immediato domani, da parte di individui o gruppi di individui, a mezzi, metodi e strumenti che si ritengono utili ad evitare o risanare le offese, e ad evitare di essere sopraffatti dalla volontà altrui. Escludere a priori il verificarsi di tale realtà è semplicemente assurdo, almeno da parte degli anarchici e delle anarchiche.

E per stare in tale possibile quadro, è anche doveroso riflettere su ogni altra occasione in cui emerge, pure dalla ipotesi di un sociale deprivato di potere centralizzato e di “norme universali”, la prepotenza, l’istinto più bestiale di uomini lacerati da millenni di servitù e coartazione, la brutalità di individui su altri individui: la violenza sui bambini, le atrocità sulle donne, la brutalità su indifesi o minorati, e così via.

In tutti questi casi, non possiamo eludere il problema accantonandolo semplicemente, o facendo ricorso alla presunta spontanea emersione dell’animo buono e sostanzialmente sociale delle persone.

Certo, a ben valutare le cose, non è che con l’avvento della società “anarchica”, priva di potere centralizzato e pertanto di istituzioni di qualsiasi tipo, il “compito” – mi si passi il termine – degli anarchici e delle anarchiche scompare come per incanto. L’anarchia, l’autodeterminazione dei singoli e della comunità non è una conquista definitiva, data una volta per sempre dalla distruzione dello Stato imperante (e del capitalismo nelle sue varie sfaccettature, col quale costituisce il sistema vigente); è bensì un primo passo, pur fondamentale, ma ciò non può concludere affatto la tensione anarchica, perenne, di rivalutazione quotidiana dei rapporti sociali e delle dinamiche che attraversano il corpo collettivo, affinché si soffochi nell’immediato ogni momento che si manifesta in funzione del nuovo emergere di poteri d’imperio.

L’anarchismo come tensione permanente, quindi, che vigila oggi come domani affinché non emergano e non si cristallizzino in istituti (comportamentali più o meno diffusi) e ancor meno in Istituzioni atteggiamenti e dinamiche che coartano, impediscono, impongono volontà Altere a singoli o gruppi di persone.

Nel caso di cui stiamo parlando, istituzioni coattive, manicomi, carceri et similia, quindi, sono estranei all’anarchismo sia oggi, ove dominano essendo parti integranti e pertanto irrinunciabili dello Stato-capitale, sia in ogni possibile futuro.

(continua)

giovedì 2 ottobre 2025

Pro Vietnam Pro Palestina

I giovani di tutto il mondo hanno reagito al genocidio israeliano con lo sgomento di chi non credeva possibile un simile spettacolo di orrore, e con la rabbia di chi non riesce a fermare la mano di un aggressore che ha perduto la ragione, che non capisce il linguaggio umano perché è posseduto dalla ferocia.

Israele ha perduto l’appoggio e la comprensione di una intera generazione; per questa generazione la parola «sionismo» significherà per sempre quel che per la mia generazione ha significato la parola «nazismo».

La faccia democratica, imprenditoriale e tecnologica che Israele ha sempre tentato di accreditare appare oggi devastata per sempre. La democrazia è sempre stata un inganno; nel caso di Israele lo è stato di più dato che si fondava sull’apartheid, sulla discriminazione e sulla sottomissione di una parte della popolazione. Ma l’attrattiva del paese si fondava sulla vitalità economica, imprenditoriale e tecnologica. Dopo il genocidio è difficile che questa vitalità continui. Non tanto perché lo sforzo bellico e l’isolamento hanno colpito l’economia, ma perché è diventato evidente che questo paese potrà sopravvivere soltanto in condizioni di isolamento, di accerchiamento, di pericolo, e perché la società israeliana è sempre più disgregata, e sempre più dominata dai predoni armati da Smotrich, coloni a cui nulla importa della democrazia.

L’ondata di proteste pro-Palestina, soprattutto nei campus americani, ha mostrato forti elementi di analogia con quel che accadde nel ’68, all’epoca della guerra sporca che l’imperialismo americano scatenò contro il popolo vietnamita. 

Ma la cosa più importante non è la somiglianza dei comportamenti studenteschi, bensì la differenza del contesto e le diverse aspettative degli studenti di oggi rispetto a quelle di allora.

Dopo l’inizio della vendetta genocida israeliana la maggioranza dei giovani ha preso la parte delle vittime palestinesi. Dovunque, sulle reti sociali, nelle strade, nelle università, sui muri delle città del mondo intero le parole Free Palestine sono state ripetute un miliardo di volte.

Si è trattato di una risposta etica al razzismo e al colonialismo sionista.

Quando quelli della mia generazione manifestavamo contro la guerra in Vietnam ci attendevamo un rovesciamento di rapporti di forza tra imperialismo e movimento anti-imperialista. L’identificazione con il vietcong implicava un’identificazione con il socialismo, con un’emancipazione possibile.

Era in parte un’illusione, certo, ma il movimento che scese in piazza per il Vietnam si identificava con una possibilità di cambiamento positivo delle relazioni sociali e con la possibilità di sconfiggere l’imperialismo.

Si può dire lo stesso per l’attuale identificazione con la Palestina? Credo di no. Gli studenti che manifestano e occupano contro il genocidio israelo-americano non si identificano certo con Hamas, né si identificano con l’islamismo. Dalla resistenza palestinese non si attende un brillante avvenire radioso, un avvenire socialista, né qualche tipo di emancipazione sociale. L’oscurantismo della cultura che domina i paesi islamici non può in nessuna maniera essere condivisa dai movimenti studenteschi, meno che mai dai movimenti femministi, che pure si sono mobilitati massicciamente contro il genocidio, suscitando scandalo nella stampa occidentale, come se protestare contro un genocidio significasse condividere tutte le ragioni politiche di chi è oggetto dello sterminio.

L’8 marzo del 2024 le manifestazioni femministe, in Francia come altrove, erano punteggiate di bandiere palestinesi.

Questo voleva forse dire che le donne prendevano posizione a favore di gruppi come Hamas, o come Hezbollah, o per l’islamismo in generale? 

Voleva forse dire che la violenza patriarcale dell’islamismo radicale era stata perdonata dalle donne che sfilavano con quelle bandiere palestinesi?

Credo proprio di no.

Credo che quelle bandiere avessero un significato molto semplice: stiamo dalla parte delle donne e dei bambini che soffrono da 75 anni dell’oppressione sistematica dello stato sionista e che in questo momento muoiono a migliaia sotto le bombe dell’aviazione israeliana.

A me pare che gli studenti che protestano si identifichino con la disperazione. La disperazione è il tratto psicologico e culturale che spiega la vasta identificazione con i palestinesi. Chiunque oggi sia motivato eticamente, chiunque abbia mantenuto dei sentimenti umani è disperato. Chiunque non si sia trasformato in una belva è disperato.

Penso che la maggioranza degli studenti di oggi si aspetti, coscientemente o incoscientemente, un deterioramento delle condizioni di vita, un cambiamento climatico irreversibile, un lungo periodo di guerra e un pericolo di precipitazione nucleare dei conflitti in corso. 

È qui a mio parere la differenza principale rispetto al movimento del ’68: nessun rovesciamento dei rapporti di forza è in vista, nessuna emancipazione è immaginabile, nessuna pace duratura è possibile.

La speranza è destituita di ogni fondamento.

La disperazione è il solo sentimento umano.

mercoledì 1 ottobre 2025

Dimenticare può portare alla pace? (parte 2)

Dopo la Seconda guerra mondiale, dopo la Shoah, assistemmo alla nascita di un paese che, in nome della memoria, rivendicava il suo diritto a tornare in una terra da cui ritiene di essere stato cacciato duemila anni fa, e rivendicava il diritto a esercitare violenza contro la popolazione arabo-palestinese.

Venne formulato allora il principio «una terra senza un popolo per un popolo senza terra».

Ma si trattava di un principio falso, perché in quella terra un popolo c'era. Tant'è vero che la nascita dello stato di Israele coincide con un massacro di decine di migliaia di persone e con l’inizio di un processo di persecuzione e deportazione che continua ancora oggi, 75 anni più tardi.

Fin dall'inizio lo stato di Israele contiene un principio genocidario. Proprio perché si fonda sul presupposto falso che la terra promessa da un dio altamente ipotetico fosse una terra senza popolo, da quel momento in poi occorreva eliminare qualsiasi prova del fatto che quel popolo esisteva.

Occorreva sterminare quel popolo che mostrava la falsità dell'assunto prioritario della nascita dello stato di Israele.

Oggi, due o tre generazioni più tardi, i sionisti sono diventati il reparto avanzato del razzismo nel mondo.

Intellettuali come Bernard Henry Levy o come Giuliano Ferrara sbandierano il loro ebraismo come se questo desse loro diritto a qualsiasi prepotenza. Eppure non sono affatto vittime, ma nipoti o pronipoti delle vittime.

Del resto è risaputo che le vittime di solito preferiscono non ricordare, mentre i pronipoti delle vittime ricordano continuamente a sé stessi e a tutti gli altri che loro sono vittime e quindi sono assolti per principio da qualsiasi crimine possano commettere.

Questi eredi delle vittime non vogliono la pace, vogliono solo diventare carnefici a loro volta, come se questo ristabilisse un equilibrio, una giustizia. Sono incapaci di dimenticare perché questo non gli conviene: perderebbero il loro privilegio.

L’identificazione con il carnefice è un processo psichico che si conosce bene: ogni bambino maltrattato, abusato, tende a riprodurre i comportamenti che lo hanno ferito, perché si sono inscritti indelebilmente nella sua mente in formazione.

Allo stesso modo chi ha subito una violenza traumatica può essere condotto (solo in alcuni casi, sia ben chiaro) a identificarsi con l’autore della violenza, può desiderare quella forza, quel predominio.

Il sionismo non è soltanto la politica di autodifesa feroce di un corpo collettivo che solo così ha saputo elaborare il trauma dell’Olocausto, ma è anche la politica perversa di uno stato colonialista, di una popolazione di coloni che approfittano della sofferenza subita nel passato dai loro antenati per farne ragione di un privilegio e per finalmente godere del dolore infinito a chi non può difendersi.

Gli eredi delle vittime portano via la terra ai proprietari palestinesi, con violenza li espropriano dei loro scarsi averi. Cacciano dalle loro case intere famiglie, coi loro scarponi abbattono le porte, coi calci dei loro fucili colpiscono i contadini che difendono gli olivi che i coloni vogliono estirpare.

Dopo Gaza è tempo di riconoscere che il tentativo di umanizzazione della storia è fallito. È tempo di riconoscere che l’esperimento chiamato civiltà è fallito.

Quel “mai più era provvisorio”, perché non si sono create le condizioni per espellere la ferocia della sfera della civiltà umana.

La tragedia di Gaza ha un carattere definitivo e irrimediabile, la vittoria militare dell’esercito e la complicità del popolo israeliano con il genocidio scatenato dal governo Netanyahu segnano in maniera irreversibile la regressione verso la cancellazione di ogni speranza di un futuro “umano”.

La lezione che Israele ci ha dato è questa: nella sfera storica le vittime non sanno né possono chiedere pace né riparazione, ma soltanto cercare vendetta. Ciò vuol dire che le vittime di oggi non potranno mai essere altro che vittime, a meno che non riescano a trasformarsi in carnefici.

Dopo il genocidio israeliano, il diritto, l’universalismo e la democrazia appaiono come illusioni che i predatori hanno usato per mantenere il loro potere sulle prede. Ma ora queste illusioni si sono dissolte e appare la faccia feroce del colonialismo di cui Israele è l’ultima manifestazione.