Il movimento migrante, negli ultimi decenni, ha iniziato a mettere in
crisi confini, culture, lingue, Stati, economie rivelando la possibilità di nuove
concatenazioni di lotte per le libertà. Una delle connessioni più interessanti per
la configurazione di nuove lotte è proprio quella tra condizione precaria e condizione
migrante.
In questa nuova configurazione
la parola rivoluzione non significa nulla. Non significa niente alcuna parola che
si iscriva in una prospettiva universale. Non esiste più un piano etico, immaginario,
progettuale che sia comune alle figure del lavoro frammentario globalizzato, perché
non esiste un piano di consistenza sociale che sia loro comune. Il capitale ovviamente
attraversa tutte le figure del lavoro frammentato e mantiene la posizione di agente
di codificazione generalizzata. È qui che deve operare, con analisi, pratiche e
azioni, un movimento ribelle all'altezza dei tempi, senza inseguire triti concetti
ottocenteschi come: federalismo, conservazione
(o innovazione) delle culture territoriali, nazione..., svuotati di significato dalla
storia e dalle interpretazioni reazionarie e razziste, alle quali si deve rispondere,
non con la proposta di cambiamento di segno o interpretazione della muffa di un
tempo, ma con la creazione di nuove parole, concetti e pratiche che sappiano rilanciare
un immaginario ribelle e libertario.