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domenica 16 gennaio 2022

Come pietra paziente di Atiq Rahimi

La "syngué sabour" nella tradizione popolare afghana è la "pietra paziente" cioè una pietra magica alla quale è possibile raccontare tutti i segreti, le sofferenze, le difficoltà. La pietra si carica di queste rivelazioni fino a quando si frantuma.

Una giovane donna afghana, con due figlie in tenera età, vive in una misera abitazione col marito mujaeddhin, in coma in seguito a uno scontro con un compagno d'armi. In una stanza spoglia l'uomo è disteso a terra nell'immobilità assente del coma, la giovane moglie inginocchiata accanto a lui lo assiste amorevolmente alimentandolo in modo rudimentale con una flebo artigianale. La donna deve combattere con la mancanza di denaro e per questo allontana da casa le bambine affidandole a una zia che gestisce una casa di piacere.

La vita della donna è una continua sofferenza. Sofferenza che si fa ricordo di umiliazioni subite in quanto donna, essere inferiore a cui non concedere né ascolto né, tantomeno, affetto. Un corpo costantemente coperto che però progressivamente acquista luminosità a partire dal volto grazie a un processo di autoanalisi liberatoria. Un processo che verrà accelerato da un incontro capace di mostrare alla protagonista un aspetto diverso della realtà che non aveva mai potuto sperimentare in precedenza. Un incontro che le permette di rivelare a se stessa una femminilità fino ad allora implosa se non negata. Come la nega quel burqa che quando esce di casa, grazie a un solo gesto divenuto forzosa abitudine la separa dal mondo.

E così, mentre fuori infuriano le cannonate, le macerie, la polvere, i carri armati, i morti di Kabul, la donna, per la prima volta in vita sua, inizia a parlare al marito muto e immobile, che diventa metaforicamente la sua "pietra paziente" alla quale lei confessa le cose più intime: sogni, desideri, piaceri, segreti. Da quel momento si sente ancora più libera. Quando poi una novità irromperà nella sua vita finirà con il trovare tutto il coraggio.

Atiq Rahimi, afghano rifugiatosi a Parigi nel 1984 dove, diplomatosi in cinema alla Sorbonne, dirige diversi documentari. Il film è tratto da un suo romanzo di lingua francese. I quattro personaggi principali sono senza nome: la donna, l'uomo, il giovane soldato, la zia. La protagonista è praticamente davanti alla cinepresa dall'inizio alla fine. Nel film il colore dominante è l'azzurro, il colore del velo delle donne afghane che ne cela i sogni nascosti.

Rahimi afferma "L'Afghanistan cristallizza tutte le contraddizioni umane possibili. Per me, oggi è come Star Wars di George Lucas: da un lato, la vita assomiglia a quello del Medioevo (il modo di vestire, le relazioni sociali, i valori religiosi...) e dall'altro dispone degli armamenti più sofisticati del mondo".