..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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mercoledì 7 dicembre 2022

7 dicembre 1976: I circoli del proletariato giovanile impediscono la Prima della Scala

I Circoli del proletariato giovanile cominciarono a diffondersi agli inizi del '76, specialmente nell'aerea milanese, nel tentativo di darsi una struttura stabile e riconoscibile nell'ambiente sociale. Riunendo i giovani della periferia su base ambientale (il bar, il centro ricreativo di quartiere, un ritrovo nel paese-satellite) essi fornivano più che obiettivi precisi o un programma determinato, un luogo di scambio sociale

Nacquero infatti dal rifiuto totale di schemi e valori espresso da un'intera generazione di giovani che si affacciò alla politica tra il 1975 e il 1976; rifiuto che si risolse successivamente nella lotta aperta e nella ricerca di vie alternative attraverso le quali poter soddisfare il bisogno di un'altra socialità e di un altro sapere.

Data la continuità di queste forme comunitarie, successivamente si avviarono alcune azioni politiche quali, per esempio, le iniziative di autoriduzione nei cinema e, più tardi, la contestazione della prima della Scala a Milano, il 7 dicembre 1976, che segnò l'inizio del movimento del '77.

A Milano, la borghesia milanese inaugurò in questa data, con la prima della Scala, un nuovo anno di sfruttamento e di dominio, ostentando la sua ricchezza e i suoi privilegi. Il 1976 era infatti per la borghesia un'occasione di affermazione politica sul proletariato e un'ostentazione di una forza che si stava ricostruendo, un insulto al proletariato costretto a fare sacrifici per mandare i borghesi alla prima.

Quella sera, la città fu teatro di violentissimi scontri tra i giovani dei Circoli del proletariato giovanile e un ingente schieramento di forse dell'ordine, 5000 carabinieri.

La nottata si risolse con lancio di bottiglie molotov contro la polizia e di uova, sassi vernice contro le signore impellicciate che andavano a vedere la prima dell'Otello di Zeffirelli; 250 i ragazzi fermati, 30 gli arresti e 21 i feriti.

I Circoli del proletariato giovanile davano così inizio ad una serie di rivendicazioni caratterizzate da un invito esplicito all'esproprio proletario: “alla riappropriazione cioè di quegli oggetti – vestiti, dischi, libri - attraverso i quali organizzazioni mafiose ci sfruttano (…). Nell'orgia consumistica del Natale vogliamo anche noi il diritto al regalo (…). La logica dei sacrifici dice: ai proletari la pastasciutta, ai borghesi il caviale. Noi rivendichiamo il diritto al caviale: perchè siamo arroganti, perchè nessuno potrà mai convincerci che in tempi di sacrifici i borghesi possono andare in prima visione e noi no, che loro possono mangiare il parmigiano e noi no, o addirittura a costringerci a digiunare. I privilegi che la borghesia riserva per se sono i nostri, li paghiamo noi. Per questo li vogliamo conquistare e ne facciamo una questione di principio.”

martedì 6 dicembre 2022

6 dicembre 2005. Attacco alla Libera Repubblica di Venaus

«Squilla il telefono: “Stanno arrivando!”.

Abbiamo poco tempo. Ecco le luci e le sirene blu in lontananza, l’atmosfera è surreale.

Sotto i fari accecanti saliamo sulla barricata per capire cosa sta succedendo, c’è una ruspa della polizia! Ma che fa?! Avanza! Urliamo per fermarli per avvisare che c’è gente sulle barricate, ma nulla.

Intanto ai lati, partono due squadre di carabinieri e polizia. Si sentono legni spezzarsi, la paura sale, le grida sono più forti, la ruspa sta sfondando la barricata, la gente cade, si appende a ciò che trova ma il mezzo non si ferma. Sopra c’è il vice questore che continua ad urlare con gli occhi fuori dalle orbite “SCHIACCIATELI, AMMAZZATELI!”.

Si riesce a scappare tra le strutture che stanno cadendo, nel frattempo a destra i carabinieri e la polizia spaccando una recinzione ed entrano in un terreno. Cercano di circondarci! La recinzione, poi divelta, per fortuna li rallenta ostacolandoli, riusciamo a raggrupparci e a fare cordone…bisognava vederli mentre si sfogavano contro i pali di cemento. Sembravano dei pazzi, dei cocainomani pazzi! La recinzione cede e iniziano a spingerci indietro, sono troppi, chi fa resistenza viene preso, manganellato, preso a calci o ferito con gli scudi…avanzano e non intendono fermarsi. Lo stesso dirigente della polizia non riusciva a far stare calmi i carabinieri, drogati, erano come assatanati, dalle file dietro i loro colleghi incitano la prima fila a massacrarci.

Arriviamo fino al Presidio e a calci alcuni celerini ci dicono di andare alla baracca, altri ci spingono sul prato. Lo spintonamento continua, si divertono, alcuni ridono e nel mentre ci filmano. Per farci coraggio e per far intendere che non è per nulla finita, parte spontaneo un coro, la canzone che più di ogni altra ha valore qui in Valsusa, “Bella ciao”. Si levano le voci commosse e spaventate della gente e ad esse si vanno ad aggiungere quelle dei compagni al Presidio, dietro al cordone di polizia. Siamo ancora uniti, e l’unione è la nostra forza…

Chi è rimasto al presidio se l’è vista peggio: la polizia è arrivata dai campi e ha massacrato chiunque fosse presente, senza curarsi di nulla: anziani, ragazze, donne inermi e chi dormiva nelle tende.

Li hanno poi chiusi nel presidio. Lo spazio era troppo piccolo per la gente che c’era e li han sbattuti contro i vetri della baracca, volevano farli passare attraverso le finestre, alcune si sono rotte e la gente è caduta dentro. Intanto altre squadre si davano da fare per spaccare tutto, questi erano gli ordini che si sentivano gridare, e così han fatto. Hanno rotto le tende e le strutture presenti, hanno massacrato a manganellate chi dormiva. Quel poco che avevamo lasciato (zaini, documenti, portafogli, oggetti personali) è stato spazzato via.

Il pullman dei carabinieri blocca l’uscita alle autoambulanze affollate di gente…le campane della Chiesa e la sirena del comune suonano ininterrottamente per chiamare la gente, tutti si ammassano chiedendo che il pullman venga spostato, risposta? Altre cariche violentissime, gente cade a terra senza sensi, c’è chi sanguina e chi vomita per i colpi ricevuti…ecco allora le TV e i giornali…questa notte erano spariti, sarà un caso? Per miracolo riescono a giungere due barellieri!

Nel giro delle prime ore del mattino la popolazione viene a sapere del massacro di Venaus, tutti scendono in piazza, si bloccano tutte le vie di comunicazione…la valle è ferma. Adesso basta!

“VI PREGO NON PICCHIATEMI, HO LE MANI ALZATE…VI PREGO!”

queste le parole che macchiarono il silenzio di Venaus alle 4.00 di mattina, queste le parole che macchiano di infamia i celerini e svuotano di significato parole come “Stato” e “Democrazia”».

 

Questo fu quello che accadde in Valle, il 6 dicembre del 2005.

Affinché Nessuno dimentichi.

Affinché tutti sappiano che NESSUN* DI NOI - chi era presente e chi non lo era - PERDONA.




lunedì 5 dicembre 2022

Caccia alle streghe

Alcuni secoli fa in Europa la paura della stregoneria portò alla famigerata caccia alle streghe, e molte persone vennero messe a morte.

Il fenomeno interessò prevalentemente Francia, Germania, Italia settentrionale, Svizzera e gli attuali Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi, “persero la vita decine di migliaia di persone, sia in Europa che nelle colonie europee”, Americhe comprese, e furono “milioni quelle che soffrirono a causa di torture, arresti, interrogatori, odio, sensi di colpa o paura”. Come ebbe inizio questa ossessione e cosa la alimentò? L’Inquisizione e il Malleus Maleficarum. Su questa storia si staglia minacciosa l’ombra dell’Inquisizione. Fu creata nel XIII secolo dalla Chiesa Cattolica Romana “per convertire gli apostati e impedire l’allontanamento” dei fedeli. L’Inquisizione era praticamente la polizia della Chiesa. Il 5 dicembre 1484 papa Innocenzo VIII emanò una bolla che condannava la stregoneria. Il papa inoltre incaricò due inquisitori di combattere il problema: Jakob Sprenger e Heinrich Kramer, conosciuto anche con il nome latino di Henricus Institoris. I due scrissero un libro intitolato Malleus Maleficarum (Il martello delle streghe). Cattolici e protestanti lo accettarono come opera di riferimento sulla stregoneria. Conteneva storie immaginarie sulle streghe basate sulla tradizione popolare. Proponeva argomentazioni di natura teologica e legale contro la stregoneria e forniva istruzioni per identificare ed eliminare le streghe. Il Malleus è stato definito “il libro più pericoloso e [...] più dannoso della letteratura mondiale”. Non c’era bisogno di prove per accusare qualcuno di stregoneria. Un libro afferma che l’obiettivo dei processi “era solo quello di ottenere una confessione con la persuasione, le pressioni psicologiche o la forza” (Hexen und Hexenprozesse). Spesso si ricorreva alla tortura. In Europa il Malleus e la bolla di Innocenzo VIII scatenarono una caccia alle streghe di enormi proporzioni. Inoltre l’avvento di una nuova tecnologia, la stampa, spinse la psicosi delle streghe al di là dell’Atlantico fino a raggiungere l’America.

 

Chi veniva accusato?

In più del 70 per cento dei casi si trattava di donne, specialmente vedove, che spesso non avevano chi le difendesse. Venivano anche presi di mira i poveri, le persone anziane e le donne che preparavano rimedi a base di erbe (soprattutto se questi non avevano effetto).

La donna fa paura: i medici non conoscono quasi nulla della fisiologia del corpo femminile e i teologi, la considerano un essere incostante che bisogna sorvegliare. Dal punto di vista giuridico, infine, essa è sotto la tutela del padre, prima, e del marito, poi. Solo con la vedovanza acquista una relativa autonomia, ma il suo riconoscimento sociale è messo in discussione ed è forte il rischio della marginalizzazione. Il problema della stregoneria si intreccia dunque con quello del ruolo della donna nella società cristiana. In effetti, quelle che vengono colpite dalle accuse di stregoneria sono in genere donne sole o vedove che hanno acquisito una relativa autonomia, oppure anziane, che conoscono le proprietà curative delle erbe medicinali (le "medichesse") o, ancora, levatrici, che assistono nei parti difficili o aiutano ad interrompere gravidanze indesiderate. Si tratta di figure che occupano una posizione sociale al limite dell'irregolarità, in una società in cui la donna vede riconosciuta e giustificata la sua esistenza solo all'interno di una famiglia.

Appartiene a questa categoria femminile anche Benvenuta Pincinella di Nave, la cui vicenda è esemplare per la ricostruzione degli atteggiamenti mentali dei contemporanei sulle streghe. Benvenuta ha sessant'anni, quando denunciata per stregoneria, viene condotta davanti all'inquisitore di Brescia per sottoporsi all'interrogatorio. La donna ha già subito in precedenza un altro processo, concluso con un'ammenda e con l'obbligo di indossare un abito da penitente davanti alla chiesa di Nave, paesino della Valcamonica, e di non esercitare la sua "arte medica". Questa volta però -siamo nel 1518- le accuse sono circostanziate e aggravano ulteriormente la posizione dell'imputata, la quale non solo non ha smesso di praticare i suoi rimedi, ma ha addirittura guarito la figlia di un nobile della città. Seguendo le procedure del Malleus, vengono registrate dal notaio le testimonianze, rigorosamente anonime e il processo segue la prassi usuale: la donna viene rasata nel corpo alla ricerca del bollo, l'infamante marchio diabolico, (poteva essere semplicemente un neo o una particolare macchia della pelle che si dimostrasse insensibile al dolore), si utilizza poi la tortura come mezzo di confessione rapida dei malefici, segue, infine, l'interrogatorio. Le deposizioni pervenute di questo processo ci restituiscono i dati biografici e la personalità dell'imputata, altrimenti scarni. Sono sequenze in cui la realtà e la fantasia si fondono, lasciando emergere un complesso sistema di credenze e di superstizioni arcaiche pagane, connotate religiosamente e sopravvissute fino al XVI secolo. Dopo l'ennesima tortura, Benvenuta confessa, esausta: ha partecipato al sabba, ha reso omaggio al demonio, ha avuti rapporti sessuali con un demonio, Giuliano, che dice di aver portato con sé nella propria gamba per tredici anni, ha operato malefici contro persone e animali. C'è però, nella sua confessione, una consapevolezza, quasi orgogliosa, delle sue particolari conoscenze, tanto da essere richiesta perfino dal podestà di Brescia. Ella conosce le proprietà medicinali delle erbe che sa attivare grazie a formule magico-rituali, tramandate da una cultura orale, tipica di una mentalità animistica e antiscientifica, soprattutto nell'uso di simboli religiosi o di formule guaritorie: "Dio ve salvi, madonna ruta, da parte che Jesu Cristo e san Zulian, vi prego de quella gratia che v'ho domandato". E' un sapere tramandato oralmente che a differenza della cultura medica dotta, quella scritta delle "auctoritates", concepisce il mondo naturale dotato di personalità e volontà propria, e che per questo bisogna invocare per ricevere aiuto. 

La macchina giudiziaria ha ormai elementi sufficienti per emettere la sentenza: "Iudichemo essere veramente rescada ne la eretica pravità, benché al presente sei pentida […] del iudicio nostro ecclesiastico ti getemo et lassemo, overo noi te demo al brazo et iudicio secolar". La sentenza è la morte capitale.

Coloro che erano ritenute streghe venivano accusate di ogni sorta di sventura. Si diceva che “causassero gelate e arrecassero piaghe di lumache e bruchi per distruggere semi e prodotti della terra”. Se un raccolto veniva distrutto dalla grandine, se una mucca non produceva latte, se un uomo era impotente o una donna era sterile, sicuramente la colpa era di qualche strega!

Chi era sospettato veniva pesato, perché si credeva che le streghe pesassero poco o nulla. Come si faceva a riconoscere una strega? A volte la persona sospettata veniva legata e gettata in uno specchio d’acqua “benedetto”. Se affondava, veniva dichiarata innocente e tirata fuori. Se invece galleggiava, era considerata una strega e messa immediatamente a morte oppure sottoposta a processo. Un’altra prova consisteva nel trovare il “marchio del Diavolo”, ovvero “un segno tangibile del patto che la strega aveva stretto con il Diavolo”. Per cercare il marchio, gli incaricati “radevano completamente la persona e ne esaminavano ogni punto del corpo”, e come se non bastasse il tutto avveniva in pubblico. Poi infilavano un ago in tutti i punti sospetti, ad esempio voglie, verruche o cicatrici. Se l’ago non provocava dolore o sanguinamento, si era trovato un marchio di Satana. La caccia alle streghe fu promossa da governanti sia cattolici che protestanti e in certe zone i protestanti furono più severi dei cattolici. Col tempo, però, cominciò a prevalere la ragione. Per esempio nel 1631 Friedrich Spee, un sacerdote gesuita che aveva accompagnato al rogo molte persone condannate come streghe scrisse che secondo lui nessuna era colpevole. Nel frattempo i medici cominciarono a capire che certi fenomeni, ad esempio le convulsioni, potevano essere ricondotti a un problema di salute anziché alla possessione demonica. Durante il XVII secolo i processi diminuirono notevolmente e alla fine dello stesso secolo praticamente cessarono.


venerdì 2 dicembre 2022

2 dicembre 1968: La rivolta di Avola

Verso la fine degli anni Sessanta, la società rurale siciliana era caratterizzata da forti squilibri sociali e da un pesante sfruttamento dei lavoratori agricoli. Da un lato la riforma agraria del 1950 aveva spezzato i gruppi di potere economico e politico provocando la fuga della grande proprietà latifondista; dall'altro però, solo enti statali e speculatori privati ne avevano tratto giovamento.

Per diventare proprietari dei terreni a loro assegnati, le famiglie dovevano pagare per trent'anni una rata mensile, che quasi sempre si rivelava troppo onerosa.

Nel '68 – '69 le masse meridionali furono così coinvolte nella più grande rivolta dell'intero paese che interessò scuole, fabbriche e campagne: il suo obiettivo principale era la necessità di creare nuovi rapporti di produzione non più basati sulla discriminazione di classe.

La lotta intrapresa dai lavoratori agrari della provincia di Siracusa e a cui parteciparono anche i braccianti di Avola iniziò il 24 novembre 1968, e rivendicava l'aumento della paga giornaliera, l'eliminazione delle differenze salariali e di orario fra le due zone nelle quali era divisa la provincia, l'introduzione di una normativa atta a garantire il rispetto dei contratti e l'avvio delle commissioni paritetiche di controllo.

Gli agrari rifiutarono di trattare con il Prefetto sull'orario e sulle commissioni, non presentandosi alle diverse convocazioni e facendo così proseguire lo sciopero in un clima di tensione sempre più alto. Il 2 dicembre Avola partecipò in massa allo sciopero generale; i braccianti iniziarono dalla notte i blocchi stradali sulla statale per Noto, con gli operai al loro fianco. Intorno alle 14, il vicequestore Samperisi ordinò al reparto Celere giunto da Catania di attaccare: la polizia cominciò quindi un fitto lancio di lacrimogeni, ma per effetto del vento il fumo gli tornò contro, diventando così un ottimo bersaglio per una fitta sassaiola.

Senza esitare, i militi cominciarono a sparare sulla folla: il bilancio fu di due braccianti morti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, e 48 feriti, di cui 5 molto gravi.

Sul posto furono trovati quasi tre chili di bossoli. Verso mezzanotte il ministro dell'Interno Restivo convocò una riunione fra agrari e sindacalisti, che durò fino al giorno dopo. Il contratto venne firmato, le richieste dei braccianti furono accolte.

La spontanea risposta all'eccidio di operai, lavoratori, studenti fu massiccia in tutto il paese. Il 4 dicembre le confederazioni sindacali indirono una giornata nazionale di lotta. Fabbriche, città e campagne si fermarono. Da più parti si chiese il disarmo degli agenti in servizio di ordine pubblico.

L'inchiesta giudiziaria fu archiviata nel novembre 1970, poi arrivò l'amnistia per i lavoratori. Nulla si è mai saputo degli esiti dell'inchiesta amministrativa. 


giovedì 1 dicembre 2022

1 dicembre 1999: rivolta a Seattle

Tra la fine di Novembre e l'inizio di Dicembre del 1999 si doveva svolgere a Seattle il WTO Millennium Summit, farsa autocelebrativa del neoliberismo più becero; da subito raggiunsero la città decine di migliaia di persone con il dichiarato obbiettivo di non far svolgere il vertice.

L'apparato repressivo messo in piedi per l'occasione era impressionante, migliaia di poliziotti in tenuta antisommossa supportati dai mezzi blindati della guardia nazionale; inoltre era stata imposto il divieto assoluto di entrare nella zona dove si sarebbe svolto il summit ed era stata vietata la vendita in tutto lo stato di Washington di maschere antigas.

La mattina del 30 novembre i manifestanti, partiti con due cortei contemporaneamente da nord e da sud della zona rossa, riuscirono a circondarla impedendo ai delegati di raggiungere la zona del summit. Così facendo, riuscirono a tagliare in due lo schieramento della polizia che in parte era schierata all'interno della zona rossa tagliandoli fuori dalla linea dei rifornimenti.

Durante i cortei partirono diverse azioni volte a sanzionare i simboli del capitalismo: furono distrutte banche, sedi di multinazionali, negozi di lusso.

La polizia, per cercare di rompere i blocchi, attaccò i manifestanti con cariche, gas lacrimogeno e spray urticante in diversi punti della città non riuscendo comunque, se non in parte, a disperdere l'accerchiamento della zona rossa.

L'episodio più grave si svolse la sera del 30 Novembre nel quartiere di Capitol Hill, dove la polizia caricò con proiettili di gomma e granate stordenti scatenando poi la caccia all'uomo.

Gli scontri durarono anche il giorno successivo fino a quando la polizia riuscì a rompere il blocco dei manifestanti da sud permettendo ai delegati di arrivare al centro conferenze dove si doveva svolgere il summit.

Il bilancio degli scontri fu di oltre 600 arresti e centinaia di feriti tra i manifestanti.

Le giornate di Seattle vengono generalmente riconosciute come quelle che diedero il via al ciclo di mobilitazioni contro i vertici internazionali

mercoledì 30 novembre 2022

Azione diretta

Detto semplicemente, vuol dire rompere con le infinite mediazioni burocratiche, risolvere i problemi da sé invece di appellarsi alle autorità costituite o di chiedere interventi esterni da parte delle istituzioni. Qualsiasi azione che mira a raggiungere degli obbiettivi scavalcando deleghe e rappresentanze è un’azione diretta. In una società dove il potere politico, il capitale economico e il controllo sociale sono centralizzati nelle mani di una élite, certe forme di azione diretta vengono scoraggiate, se non criminalizzate; e proprio queste pratiche sono di particolare importanza per chi lotta contro la gerarchia e contro la violenza delle istituzioni. Ci sono mille situazioni in cui puoi mettere in pratica l’azione diretta: forse i rappresentanti di una multinazionale stanno per invadere la tua città per un summit, e tu vuoi protestare contro di loro in forme che non siano soltanto il solito corteo in cui tenere in mano il solito cartellone; magari hanno già messo radici nel tuo ambiente da molto tempo, costruendo punti vendita che sfruttano i lavoratori e che devastano l’ambiente, e tu cerchi un modo per attirare l’attenzione pubblica o per intralciare i loro progetti; forse vuoi organizzare un evento pubblico festoso e comunitario come uno street party. Con l’azione diretta puoi far sorgere un giardino pubblico in un terreno inutilizzato oppure puoi difenderlo paralizzando i bulldozer, puoi praticarla per occupare gli edifici abbandonati e dare un tetto agli homeless o per mandare in tilt gli uffici governativi. Che tu stia agendo con pochi amici fidati o che tu stia agendo con migliaia di persone, i principi di base sono sempre gli stessi.

domenica 27 novembre 2022

Kropotkin - Le ragioni e il metodo di una scienza della morale

Kropotkin iniziò ad occuparsi di scienze naturali durante la giovinezza, mentre prestava servizio con i Cosacchi nell’estremo oriente siberiano. Iscrittosi poi alla facoltà di scienze, intraprese alcune importanti spedizioni naturalistiche come geografo nella penisola scandinava. Attraverso le osservazioni e i dati raccolti in questi viaggi egli riuscì in seguito a fornire delle spiegazioni esatte dell’orografia euroasiatica e delle fasi dell’era glaciale in Europa, che gli valsero la nomina a segretario della sezione geofisica della Società russa di geografia – incarico che rifiutò poiché “Tutte le belle parole sono inutili, quando gli apostoli del progresso si tengono lontani da quelli che pretendono spingere in avanti”3. Proprio nel corso di questi viaggi in luoghi remoti, selvaggi e solitari l’interesse naturalistico si lega a quello etico-politico, fino a portare Kropotkin ad elaborare un metodo filosofico transdisciplinare ed una filosofia di vita rivoluzionaria e ribelle. Gli uomini primitivi appresero dunque dall’osservazione degli animali immersi nel proprio habitat delle vere e proprie lezioni di socialità e di etica. Essi impararono che gli individui e i gruppi, tranne rare eccezioni, sono inseparabili l’uno dall’altro, che essi non si uccidono quasi mai l’uno con l’altro, e che le specie più deboli possono, grazie all’unione e alla fiducia l’uno nell’altro, affrontare avversari ben più forti di loro. I nostri antenati poterono senz’altro osservare che in molti gruppi animali sono presenti sentinelle che si alternano a fare la guardia nei momenti in cui il gruppo è esposto ad un possibile pericolo; si può ragionevolmente ipotizzare che l’uomo, ancora nomade, abbia capito proprio dall’osservazione di animali riuniti in colonie tutti i vantaggi di una vita stabile, oppure aver compreso da alcune specie animali l’utilità di una riserva di cibo, o ancora l’importanza del gioco per rinsaldare la fiducia reciproca. Secondo Kropotkin, esiste una doppia tendenza “caratteristica della vita in generale”: “da un lato la tendenza alla socialità; dall’altro, come risultato di questa, l’aspirazione a una più grande intensità di vita, da cui il bisogno di una più grande felicità per l’individuo”. Tale duplice aspirazione costituisce “una delle proprietà fondamentali e uno degli attributi necessari a qualsiasi aspetto della vita sul nostro pianeta”. Nell’uomo questa doppia tendenza risponde a due bisogni e a due sentimenti contrapposti: da un lato il bisogno di unione e il sentimento di reciproca simpatia – che porta gli uomini ad unirsi in gruppo “per attendere con uno sforzo comune all’attuazione di ciò che non è possibile realizzare da soli” – e dall’altro il bisogno di lotta e di autoaffermazione, che spinge gli uomini a “dominare i loro simili per scopi personali”. Tuttavia, poiché nella natura animale “gli istinti più durevoli prevalgono sugli istinti meno persistenti”, la nostra coscienza morale “è il risultato di una lotta durante la quale un istinto personale meno forte cede all’istinto sociale più costantemente presente”; il risultato di una comparazione tra il proprio desiderio personale e gli istinti sociali – che sono prevalenti perché ereditari, riconosciuti da tutti i membri del gruppo e riconoscibili nelle altre specie. Si cerca allora di rendersi conto di quel sentimento morale che s’incontra ad ogni passo, senza averlo ancora spiegato, e che non si spiegherà mai finché lo si crederà un privilegio della natura umana, finché non si discenderà sino agli animali, alle piante, alle rocce per comprenderlo.

(P. KROPOTKIN, La morale anarchica)

giovedì 24 novembre 2022

Walker C. Smith sul sabotaggio

Nel suo opuscolo Smith dedica una prima parte alla ricostruzione della storia del sabotaggio sia come pratica, nata contemporaneamente allo sfruttamento umano, sia come termine, scelto per indicare un metodo di lotta sociale solo a partire da Congresso confederale di Toulouse del 1897 (prima in Inghilterra e Scozia tale pratica era indicata con il nome “Ca’ Canny”, cioè “andare piano”). Indica anche tre possibili versioni sulla sua origine lessicale, tutte riconducibili alla parola sabot: nella prima ipotesi il riferimento è riconducibile all’episodio in cui un operaio francese utilizzò il suo zoccolo per danneggiare un macchinario, oppure potrebbe derivare dal fatto che i sabot si presentano come calzature pesanti e ciò causerebbe rallentamenti nel lavoro, infine l’ultima possibilità è che la parola sabotaggio derivi da un termine dello slang che indica lo sciopero fatto senza lasciare il proprio posto di lavoro. Alla base dell’idea di sabotaggio sta innanzi tutto una critica al mercato del lavoro, alla disparità di potere tra padroni e operai che, restando tagliati fuori dalla legge della domanda-offerta, si trovano stretti in un sistema senza stabilità salariale: “Sabotaggio significa, quindi, che i lavoratori combattono direttamente le condizioni imposte dai padroni secondo la formula ‘salari bassi-cattivo lavoro' ” (Walker C. Smith). Danneggiare la merce, scioperare o rallentare il lavoro e le consegne delle merci prodotte attraverso lo sfruttamento sono tutti metodi di sabotaggio. Non sempre però tale mezzo è messo in pratica a beneficio dei lavoratori, anzi spesso sono gli stessi imprenditori che ne impongono l’uso per aumentare il valore della merce. Smith porta come esempio, tra gli altri, i carichi di patate distrutti in Illinois, o le mele lasciate marcire sugli alberi dei frutteti di Washington, o ancora le mistificazioni dei documenti ai danni dei concorrenti della Standard Oil Company. Tali azioni altro non sono che “sabotaggio capitalista”, come già le aveva chiamate tre anni prima William Trautmann. Se divenisse una pratica diffusa tra gli operai, secondo Smith il sabotaggio potrebbe fermare le guerre e bloccare gli arresti di chi sciopera; per riuscirci però dovrebbe diffondersi la coscienza del potere che porterebbe, per conseguenza, alla solidarietà tra lavoratori. Come pratica di massa, se utilizzata da ogni operaio di ogni comparto produttivo, permetterebbe addirittura di giungere alla fine delle classi, dello Stato e della produzione come mezzo di profitto anziché di prodotti di utilità. Attingendo alla tradizione anarcosindacalista europea, Walker C. Smith adatta l’idea di sabotaggio alla situazione statunitense del primo Novecento, rendendolo applicabile da una classe lavoratrice in balìa delle leggi della speculazione, sfruttata, vilipesa e molto spesso massacrata dalle milizie padronali.

martedì 22 novembre 2022

Decreto anti-rave

Il cosiddetto “decreto anti-rave” è esemplificativo di un clima generale che negli ultimi anni si è andato consolidando di restringimento degli spazi per le forme di espressione giovanile e di attacco al dissenso sociale.

Questo infatti non riguarda solo i rave-party, ma tra le casistiche che potrebbero rientrare al suo interno vi sono anche molte pratiche che fanno parte della storia della protesta e del dissenso sociale nel nostro paese, dalle occupazioni delle università e delle scuole, ai picchetti davanti alle fabbriche, alle manifestazioni non autorizzate.

Ma questo decreto non è altro che l’epifenomeno di un lungo processo di criminalizzazione dei comportamenti giovanili, degli ultimi e degli indesiderabili, delle lotte sociali.

Come dimenticare le legislazioni anti-degrado che regolano in maniera sempre più escludente la vita nelle grandi città? Per non parlare dei Daspo urbani e di tutta un’altra serie di normative volte ad affrontare problemi sociali come problemi di ordine pubblico.

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una pioggia di inchieste per associazione a delinquere o sovversiva nei confronti di lotte, movimenti sociali e sindacati. A Torino ne sono state messe in campo ben due nel giro di brevissimo tempo. Anche le lotte studentesche, ad esempio l’opposizione all’alternanza scuola-lavoro, sono state represse con carcerazioni preventive e misure cautelari a giovani liceali e universitari*.

Ma non solo, abbiamo visto una crescente applicazione degli strumenti della legislazione antimafia nei confronti di movimenti sociali e militanti politici. E’ evidente che si vuole trattare il conflitto ed il dissenso sociale come un fenomeno criminale con delle logiche che evidenziano una progressiva deriva autoritaria.

Crediamo dunque che sia necessario non fare passare sotto silenzio quanto sta succedendo e comprendere a fondo quali siano i meccanismi e le tendenze che abbiamo di fronte. 

  

lunedì 21 novembre 2022

21 novembre 1831: Rivolta dei Canuts

A quel tempo, i tessuti erano la principale industria francese e la fabbrica di seta di Lione sosteneva la metà degli abitanti della seconda città del regno con più di 30.000 telai, così come altri lavoratori intorno a Lione.

Questi tessitori di Lione, o canut , erano maestri operai che possedevano i loro telai a casa e lavoravano a casa in famiglia, con i compagni che ospitavano e nutrivano. In tempi di magra si impiegavano principalmente donne, meno pagate, e apprendisti o ragazzi di razza, che a Lione si chiamano rana , ancor meno pagati, mentre le travi dove il tessuto era avvolto erano molto pesanti da trasportare. E davanti a loro, i padroni che a Lione sono chiamati i produttori di seta ma che non fabbricano nulla. Sono infatti commercianti, che anticipano il capitale procurandosi la materia prima e si accontentano di passare gli ordini ai canut. La situazione di miseria e oppressione : i canut lavoravano dalle 15 alle 18 ore al giorno (10 ore per i bambini dai 6 ai 10 anni) per i salari di povertà. Si ammassavano in monolocali malsani. I telai Jacquard richiedevano altezze del soffitto molto maggiori rispetto a prima, ma il più delle volte lo spazio aggiuntivo era riempito da un soppalco (mezzanino) dove vivevano le famiglie mentre i compagni, gli apprendisti, spesso dormivano negli armadi. Certamente una solidarietà univa i canut che avevano costituito, sotto la guida di Pierre Charnier e di altri attivisti dell'epoca, il movimento mutualista. L'idea delle mutue era di prevedere scadenze per remunerare i disoccupati mediante contributi. Si prevedeva addirittura di fondare una cooperativa di produzione che avrebbe permesso di fare a meno dei serici, che vivevano nell'opulenza ... Ma non eravamo ancora lì.

La rivolta è in fermento.

Dal gennaio 1831 sorse una certa agitazione. Si organizzano raduni in diverse parti della città per chiedere lavoro e pane. Nell'aprile-giugno 1831 si diffondono le idee di Saint-Simon e di Fourier, evocando l'oppressione dei ricchi, i misfatti della concorrenza aggravata, l'ingiustizia sociale. A poco a poco, si percepisce una coscienza di classe.

Il 18 ottobre il prefetto Bouvier-Dumolard è preoccupato. 8.000 canut eleggono "commissari" che formano una commissione che chiede una tariffa e dà un indirizzo al prefetto: "È giunto il momento in cui, cedendo alla necessità imperativa, la classe operaia deve e vuole cercare di porre fine alla sua miseria". Il 25 ottobre il prefetto ha convocato un nuovo incontro con i delegati dei canut e dei setaioli. Ma contemporaneamente 6.000 canut, capi officina e compagni, provenienti da tutte le periferie, si radunano e sfilano, per le strade di Lione fino a davanti al prefettura,. Viene firmato un accordo e stabilità una tariffa congiuntamente entra in vigore il 1° novembre. Ma la maggior parte dei produttori si rifiuta di applicare la tariffa e persino il governo, che disconosce l'atteggiamento del prefetto. Vedendosi ingannati, esasperati dall'intransigenza delle manifatture, i canut perdono la pazienza e vogliono attaccare la rue des Capucins, l'industria della seta. Aspettano fino al 20 novembre quando decidono di non tornare al lavoro e di tornare a manifestare in massa davanti alla prefettura . La situazione è esplosiva perché questo stesso 20 novembre si svolge una rassegna con il generale Ordonneau della guardia nazionale dei distretti della penisola.

21 novembre 1831.

Dall'alba, un'agitazione febbrile si diffonde a tutta la popolazione di Croix-Rousse. La maggior parte degli scambi viene interrotta. Più di mille lavoratori si sono riuniti sull'altopiano della Croix-Rousse, con l'intenzione di imporre l'applicazione delle nuove tariffe. Diecimila aspettano in Place Bellecour. E ce ne sono centinaia a La Guillotière.

Si formano i cortei, si gonfiano di ora in ora, i tamburi battono il richiamo. I Canut si precipitano a pugni nudi, inghiottendo i pendii, costringendo le autorità presenti a ritirarsi anticipatamente. Ovviamente la guardia nazionale della Croix-Rousse, dove dominano i canut, non intende opporsi all'azione dei lavoratori. Le scaramucce hanno avuto luogo in vari punti dell'altopiano e in particolare in cima alla Grand'côte, in rue Bodin, ma gli operai hanno mantenuto il controllo costruendo numerose barricate. Il sindaco facente funzione ordina a Ordonneau di intervenire. I canut alla testa del corteo sventolano una bandiera nera su cui alcuni hanno scritto questo famoso motto: "VIVERE LAVORANDO O MORIRE COMBATTENDO".
Si imbattono in un gruppo in fondo alla Grand'côte (la rue des Capucins è l'industria della seta). Scoppiano dei colpi e gli uomini cadono. I manifestanti reagiscono con le poche armi a loro disposizione, soprattutto alcuni bastoni e pale.

Da ogni finestra le massaie gridano " Alle armi, alle armi, le autorità vogliono assassinare i nostri fratelli". "Da ogni casa escono combattenti armati di pale, picconi, bastoni e oggetti di scena per i loro telai, gridando:"Pane o piombo! "Chi non ha armi porta i ciottoli ai piani alti delle case o sui tetti dai quali strappano le tegole. Barricate con carri salivano rapidamente ai quattro angoli della penisola formando di volta in volta altrettanti posti di blocco. Canuts disarma la guardia nazionale della Croix-Rousse e batte la sveglia per una chiamata generale alle armi. Costruiscono nuove barricate con l'aiuto di donne e bambini. La battaglia diventa feroce. È il panico generale al Comune e alla Prefettura. Il generale Roguet sta cercando di demolire alcune barricate. Il prefetto, che invita le " persone oneste " a non farsi coinvolgere nel movimento dei " cattivi sudditi ", decide di andare in battaglia con il generale Ordonneau il prefetto e Ordonneau vengono presi in ostaggio. Gli operai riuscirono in due giorni a impadronirsi militarmente della città, abbandonata dal generale François Roguet, comandante della divisione, e dal sindaco Victor Prunelle.In seguito alla decisione presa dal presidente del consiglio Casimir Pierre Périer, circa la necessità di una reazione energica, il maresciallo Soult, accompagnato dal duca d'Orléans, partì per Lione alla testa di un'armata di 20.000 uomini, che penetrò in città il 3 dicembre, riuscendo a ristabilire l'ordine a prezzo di 190 morti e 10.000 prigionieri.