..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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sabato 6 luglio 2024

Ricercare sempre una nuova definizione di libertà

Quotidianamente il potere viene percepito come un’entità esterna al corpo sociale. Esso viene percepito come qualcosa da conquistare per coloro che lo bramano, convinti che grazie a esso potranno affrancarsi dal dovere di obbedire a qualcuno e poter finalmente comandare. Per quelli che non amano essere comandati, ma nemmeno comandare, il potere è invece il leviatano da sconfiggere, il palazzo da abbattere. Il mondo si divide così, semplicisticamente, fra chi lotta per il potere e chi lotta contro il potere. Nel mezzo rimane chi passivamente il potere lo subisce, così come subisce le lotte che lo circondano. Questa è però una visione fittizia, è il prodotto di una cultura particolare, di una cultura creata e strutturata da e per il dominio, è il prodotto della nostra cultura. Se appena usciamo dalle classificazioni e dagli schemi che caratterizzano e danno un senso al conflitto, così come lo percepiamo oggi, ci rendiamo conto che il potere, lungi da essere un’entità malvagia e repressiva che opprime la società, rappresenta una proprietà, una capacità intrinseca a ogni essere umano e scorre all’interno del corpo sociale, non al di fuori di esso. Il potere è la capacità che ogni essere umano ha di contribuire al complicato processo di strutturazione dei soggetti e delle strutture sociali, attraverso l’instaurazione continua e mutevole di rapporti con gli altri individui. In questo senso il potere non è più, evidentemente, solo repressivo. A seconda dei rapporti che instauriamo con gli altri individui, e di conseguenza a seconda delle definizioni dei ruoli sociali, il nostro potere potrà essere creativo e funzionale a pratiche di liberazione. Nel momento in cui, però, la brama di veder realizzato a tutti i costi il nostro modello dei rapporti e dei ruoli sociali prende il sopravvento, cerchiamo di escludere gli altri da questo processo di definizione dell’esistente. Quando questa esclusione ha successo, il potere verrà esercitato solo da alcuni individui, i quali si arrogheranno il diritto e la capacità di definire ruoli e rapporti sociali di tutti. In questo modo si concretizza il dominio dell’uomo sull’uomo, così come dell’uomo sugli altri animali e sulla natura. Questo è il motivo per cui è andata persa la consapevolezza di un potere creativo e la percezione quotidiana è quella di un potere minaccioso e repressivo. Il problema vero è che una definizione particolare dei ruoli sociali tenderà a fornire una visione particolare del reale, funzionale a mantenere stabili tali ruoli. In altre parole, la nostra società ha culturalmente consolidato il concetto per cui il fondamento del legame sociale è l’obbligo politico, ossia il dovere di obbedienza. Questa discriminante fondante ha prodotto uno spazio dell’immaginario caratterizzato da regole proprie e incompatibile per definizione con altri immaginari, altre rappresentazioni culturali che non postulino il dovere di obbedienza come matrice dei rapporti sociali. Uno degli effetti più immediati di questo spazio dell’immaginario sulle nostre “teste” è, per esempio, l’ipotesi repressiva del potere da cui siamo partiti. Ma molto dei significati che assegniamo alle cose, alle parole, ai rapporti che costruiamo, è il prodotto di tale rappresentazione del reale che come un’ameba cerca di occupare tutto lo spazio dell’esistente significante. All’interno di questo panorama desolante le pratiche di autogestione si propongono di scardinare, attraverso pratiche indipendenti e la conseguente produzione di un pensiero autonomo, lo spazio dell’immaginario del dominio e riconsegnare il potere di contribuire alla classificazione formale dei ruoli sociali a ciascun individuo. Si propone di far riscoprire agli individui il vero obbligo sociale contrapposto a quello politico. Si propone ossia di ricordare l’obbligo che il genere umano ha, in quanto animale sociale, di darsi delle norme di relazione interindividuali. Paradossalmente, da questo obbligo nasce però la specifica libertà dell’uomo. La libertà di poter scegliere le norme che regolano le relazioni sociali, di poter definire la classificazione dei ruoli che meglio soddisfa le esigenze dei singoli individui in una situazione data. Ma anche, e soprattutto, la libertà di poter mettere in discussione e cambiare tali norme e tali classificazioni. Importante è infatti ricordare sempre che ogni sistema di classificazioni produrrà uno spazio dell’immaginario sovrastante che una volta sviluppatosi renderà possibile la significazione dell’esistente con le enormi conseguenze che questo comporta. Sarà fondamentale quindi evidenziare in ogni momento questo collegamento per poter individuare, di volta in volta, il modo in cui i rapporti che intratteniamo e i ruoli che definiamo influenzino la determinazione dei soggetti e delle strutture sociali che costituiscono la facciata visibile e percepibile del reale. Una società sarà allora uguale quando tutti eserciteranno il loro potere e libera quando si rinuncerà a dare una definizione valida sempre alla libertà. La libertà dell’uomo consiste proprio nel poter ricercare sempre una nuova definizione di libertà. Qualsiasi tentativo di definizione universale si risolverebbe necessariamente in una forma di espropriazione, prevaricazione e oppressione.


martedì 2 luglio 2024

Molti sono gli strumenti atti a modificare la coscienza

 

Molti sono gli strumenti atti a modificare la coscienza, ma uno dei più importanti, forse il più importante di tutti, per antichità, per universalità, è il ricorso a piante o sostanze psicoattive. Aldous Huxley scrisse che è molto improbabile che l’uomo possa vivere senza paradisi artificiali, e questi paradisi artificiali sono da sempre ricercati per tre motivi apparentemente molto diversi l’uno dagli altri, ma che a ben guardare lo sono molto meno di quanto sembri. Un motivo magico-religioso, cioè per trascendere i confini del quotidiano e mettersi in contatto con una realtà che abitualmente sfugge alla coscienza ordinaria; un motivo direi esperienziale, vale a dire di percorso individuale, di conoscenza altra. Un motivo, infine, edonistico, ricreazionale. Cioè la ricerca dello “sballo”. L’azione di queste sostanze è appunto lo stimolo all’immaginario, al fantastico, al piacere, attraverso la stimolazione di aree cerebrali percettive e cognitive. Nel cammino dell’uomo queste sostanze sono state immediatamente utilizzate; “immediatamente” nel senso di “senza mediazione” né scientifica né programmatica: non vi era bisogno di particolari elaborazioni per accettarle, perché esse erano “cibo”, un qualcosa da immettere nel corpo per vivere. E’ la cultura e i suoi stereotipi che rendono legale e moralmente accettabile una droga sociale –l’alcool- e inaccettabile un’altra -la cannabis- non certo le caratteristiche chimiche dell’una o dell’altra. Soltanto partendo da una visione che integri biologia e antropologia, farmacologia e psicologia potremo aprire un dibattito serio, costruttivo e senza isterismi: abbandonando i discorsi vuoti e moralistici potremo iniziarne uno completamente radicale, che da un lato coinvolga tutto l’apparato sociale ed economico qual è quello nel quale giornalmente dobbiamo vivere, e dall’altro tenga conto di nuove dimensioni di coscienza e di piacere.

lunedì 24 giugno 2024

Comunitarismo libertario e democrazia diretta

Kropotkin è colui che più d’ogni altro ha sviluppato la tematica comunitaria, il principio fondamentale del mutuo appoggio. Secondo lui, la cooperazione che scaturisce da questo valore, e non la lotta spietata per la sopravvivenza (come enunciato nelle tesi darwiniane), è il fattore fondamentale dell’evoluzione. Inoltre, Kropotkin ritiene che un nuovo assetto sociale non debba scaturire da una rivoluzione che elida il passato, bensì dai principi libertari già operanti nella realtà sociale. Passiamo poi a P. Goodman, è vediamo come la sua analisi sia caratterizzata in senso fortemente comunitario, sempre alla ricerca dell’individuazione di una struttura politica che possa coniugare individualità, comunità e giustizia universale, trovandola nell’archetipo delle piccole unità territoriali delineate da Kropotkin in Campi, fabbriche e officine, e in parte realizzatesi nell’America del periodo degli Articoli di Confederazione. Il suo progetto politico, fatto di azioni che diano luogo a piccole riforme e lievi miglioramenti, fa di lui un gradualista, un non rivoluzionario la cui opera è costantemente tesa da una parte alla difesa e all’allargamento delle libertà individuali prodotte dalla modernità, dall’altra alla ripresa della tradizione comunitaria premoderna. Per quanto riguarda poi l’approccio di C. Ward, esso è costantemente teso a focalizzare le “questioni che ci legano gli uni agli altri, come il bisogno di alloggi e di cibo e la produzione di beni e servizi”. Pertanto, la sua analisi lucida e ficcante delle situazioni concrete, delle modalità “non-ufficiali” con cui la gente si organizza nell’utilizzare l’ambiente, tanto quello urbano quanto quello rurale, ci aiuta a scorgere la comunità libertaria e il mutuo appoggio che la fonda, nella concretezza di esperienze di vita autogestite che spesso si formano in quelle pieghe della società dimenticate o “sfuggite” al controllo autoritario degli enti statali. Ecco allora che “la questione di fondo”, secondo Ward, “non è quella di stabilire se l’anarchia sia possibile o meno, ma piuttosto se sia possibile allargare il campo d’azione e l’influenza dei metodi libertari, fino al punto che essi diventino i criteri normali coi quali gli esseri umani organizzano la loro convivenza”. Finiamo con M. Bookchin, egli affronta la tematica comunitaria dal punto di vista filosofico-politico, dandole in particolare una connotazione ecologica. Padre dell’ecologia sociale, secondo lui una società ecologica può nascere solo dalla fine dei rapporti di dominio dell’uomo sull’uomo, abolendo di conseguenza le istituzioni fondate sul rapporto comando/obbedienza. Egli arriva a questa conclusione svolgendo un’analisi storico-filosofica delle epistemologie del dominio. 

giovedì 20 giugno 2024

Il Dominio della tecnica

Non si tratta di un ritorno alla Natura, anche se i rapporti dell’uomo con la Natura si dovranno modificare radicalmente per basarsi più sulla reciprocità che sullo sfruttamento, dato che distruggendo la Natura si distrugge inevitabilmente la natura umana. 
Non si tratta più di dominarla quanto di stare in armonia con essa. L’esistenza degli esseri umani non si dovrà concepire come pura attività di appropriazione delle forze naturali, movimento, lavoro. Una società non capitalista, vale a dire liberata dalla tecnica, non sarà una società industriale ma nemmeno una specie di società paleolitica; dovrà conformarsi alla quantità di tecnica che si può permettere senza squilibrarsi. Deve eliminare tutta la tecnica che sia fonte di potere, quella che distrugge le città, quella che isola l’individuo, quella che spopola le campagne, quella che impedisce la comparsa di comunità, eccetera, insomma, quella che minaccia il modo di vivere libero. Tutte le civiltà anteriori fondate sull’agricoltura, sull’artigianato e sul commercio hanno saputo controllare e contenere le innovazioni tecniche. La società capitalista è stata un’eccezione storica, una stravaganza, una deviazione. Il sistema tecnocratico produce rovine, cosa che favorisce la diffusione della critica e rende possibile l’azione contro di esso. La questione principale sono i principi più che i metodi. Qualsiasi modo di procedere è buono se è necessario e serve a rendere popolari le idee, senza contribuire a qualsivoglia capitolazione: si partecipa alle lotte per renderle migliori, non per degenerare insieme ad esse. In assenza di un movimento sociale organizzato, le idee sono la prima cosa, combattere per le idee è l’importante, dato che non può nascere nessuna prospettiva da una organizzazione in cui regni la confusione rispetto a quel che si vuole. Tuttavia la lotta per le idee non è una lotta per l’ideologia, per avere una buona coscienza soddisfatta. Bisogna abbandonare la zavorra delle consegne rivoluzionarie che sono invecchiate e si sono trasformate in frasi fatte Il compito più elementare consisterebbe nel riunire il maggior numero possibile di gente intorno alla convinzione che il sistema deve essere distrutto e costruito di nuovo su altre basi, e discutere il tipo di azione che più si addice alla pratica delle idee derivate da questa convinzione. Questa pratica deve aspirare alla presa di coscienza per lo meno di una parte considerevole della popolazione, perché fino a quando non esisterà una coscienza rivoluzionaria sufficientemente estesa la classe sfruttata non si potrà ricostruire e nessuna azione di importanza storica, nessun ritorno della lotta di classe, sarà possibile. (Miguel Amoros)

domenica 16 giugno 2024

L’infanzia di Proudhon

Proudhon, quinto figlio di Claude-Francois e di Cathérine Simonin, è nato a Besançon il 15 gennaio 1809 nel quartiere popolare di Battant. Il padre, vignaiolo, bottaio, garzone di birreria e, per qualche tempo, birraio in proprio, era cugino di Franwis-Victor Proudhon, ricco e famoso giurista di Digione, e apparteneva a un ramo cadetto della stessa famiglia. Di intelligenza comune, ma di onestà rigidissima, quando gestì una birreria si rovinò perché vendeva la birra a un prezzopiù basso, ma a suo parere più giusto di quello corrente; e perché rifiutava l'ingresso alle donne per non tener mano alla prostituzione, con la quale altri birrai si arricchivano. Circa la condotta del padre Proudhon scrisse: «Sentivo perfettamente ciò che vi era di leale e di regolare nel metodo di mio padre, ma vedevo tuttavia anche i rischi che ne derivavano. La mia coscienza approvava la prima considerazione, il sentimento della mia sicurezza mi spingeva verso la seconda. Fu per me un enigma». La madre, servente nella birreria nella quale era occupato il marito, poi votata a umili lavori, era una donna di grandi virtù e di carattere esemplare. Era figlia di una singolare figura di popolano, Jean Claude Simonin detto Tournési, sempre in lotta, in nome della giustizia, mai dell'interesse personale, contro la prepotenza dei signori e dei loro guardiani. La formazione morale di Proudhon deve molto — egli ne fu consapevole e ne scrisse in termini di profonda umanità — alla madre e al nonno, cui assomigliava fisicamente, e del quale la madre gli raccontava le imprese. Dopo un'infanzia passata a custodire vacche, a servire in birreria, entra nel 1820 nel collegio di Besançon come allievo esterno, grazie alla borsa ottenuta con l'aiuto di un amico dei genitori. Nonostante le difficoltà materiali e psicologiche della sua posizione sociale, egli fu uno degli allievi migliori. Ma povero in mezzo a ricchi, costretto a farsi prestare i libri, a lasciare sulla soglia dell'aula gli zoccoli che calzava per non fare rumore, a subire amare delusioni come quella di un giorno in cui, tornato a casa dopo aver ottenuto una menzione onorevole, non trovò di che mangiare, esperimentò duramente l'inferiorità sociale che lo separava dagli altri ragazzi, senza tuttavia piegarsi. Si chiedeva «che cosa fosse la povertà, questo male di cui si sentiva innocente». Perse la fede religiosa leggendo, nel 1824, il Traité de l'existence de Dieu di Fenelon, e cercò da solo, col suo pensiero, la sua via. Nel 1827, ormai prossimo al baccalaureato, dovette abbandonare la scuola per aiutare la famiglia. Si occupò presso una tipografia di Besançon, e trovava nel lavoro, e nel bastare a sé stesso, una profonda soddisfazione. Correggeva bozze, componeva libri, e leggeva moltissimo, in specie opere di teologia, e soprattutto la Bibbia. Studiò l'ebraico per approfondire la conoscenza del cristianesimo.


sabato 8 giugno 2024

Malatesta e la libertà

La libertà è il solo mezzo per arrivare, mediante l'esperienza, al vero ed al meglio: e non vi è libertà se non vi è libertà dell'errore.
Libertà dell'errore, vale a dire libertà come concetto laico di verità e quindi come possibilità, per tutti, di dare seguito alle proprie idee purché non limitino la realizzabilità di quelle altrui. Questa libertà, scopo e mezzo di ogni progresso umano, deve essere infatti per noi e per i nostri amici, come per i nostri avversari e nemici. Gli anarchici, cioè, amano correre i rischi della libertà. Noi siamo per la libertà non solo quando ci giova, ma anche quando ci nuoce. E solo così vi può essere libertà. Essa si definisce come possibilità di pensare e propagare il proprio pensiero, libertà di lavorare e di organizzare la propria vita nel modo che piace; non libertà s'intende di sopprimere la libertà e di sfruttare il lavoro degli altri. Per conseguenza gli anarchici intendono conquistare la libertà per tutti, la libertà effettiva, s'intende, la quale suppone i mezzi per essere liberi, i mezzi per poter vivere senza essere obbligati di mettersi alla dipendenza di uno sfruttatore, individuale o collettivo.

venerdì 7 giugno 2024

Elezioni europee 2024

L’8 e il 9 giugno meno della metà degli aventi diritto andrà probabilmente a votare e a legittimare istituzioni locali ed europee da cui, nella stragrande maggioranza, neppure essi si sentono rappresentati. Dal più basso (quello comunale) al più alto livello istituzionale (quello europeo), voteranno un’ulteriore sottrazione della sovranità popolare, cioè del diritto di decidere del proprio destino, di rispettare e far rispettare la propria unicità e differenza, di rigettare coscientemente ogni rigurgito di statalismo, di fascismo, di militarismo, di guerra, di chiusura nei confronti del diverso, del migrante, della solidarietà militante, l’affossamento legale e violento di ogni protesta civile e umanitaria.
Sottraiamoci allora anche noi al rito liberticida che si consuma sotto i nostri occhi e all’indifferenza che nutre l’asservimento collettivo ai poteri forti della politica e dell’economia. Il sistema politico ed economico vigente merita solo un’ampia e radicale astensione.


mercoledì 30 agosto 2023

Perché continuare a delegare? (parte 2)

Non esistono governi buoni:

...e come sarà mai possibile che il destino di un Popolo stia in buone mani, quando la scelta de' ministri si farà da una corte o mediatamente o immediatamente! Sarà un prodigio o un mero azzardo se verrà scelto un uomo dabbene”. (Si è mai realizzato il prodigio? Quante altre ere storiche sareste disposti ad aspettare prima di veder compiuto questo prodigio, se mai si compirà? O lasciate che sia il caso a decidere per voi?)

Verri ragiona sulle varie possibilità di governo, anche quello eletto dal popolo, non esclude nulla, e dopo aver preso in considerazione persino l'utopia di un governo presieduto da un animo buono, dice:

ma gli uomini anche buoni talvolta cessano di essere tali, e il maggior pericolo di prevaricare è appunto quando sono rivestiti di un pubblico potere”. (Non circola forse quel proverbio che dice “l'occasione fa l'uomo ladro?”)

La cosa su cui insiste il Verri, in più punti del testo e persino nel titolo, è anche il fatto che su questi argomenti egli non abbia studiato alcun libro, come a dire che anche gli ignoranti sono capaci di decodificare questi concetti:

Queste sono le idee che non ho cavate dai libri ma nella solitudine, ragionando con me medesimo, e scavando, come dissi, nel mio cervello per trovarvi la verità”.

Alla fine del Settecento, l'idea di una “repubblica” era paragonabile a quella di un'anarchia. La repubblica, nel suo originario senso (oggi nascosto, cassato del tutto) veniva davvero considerata essenzialmente un'utopia. Ed è rimasta un'utopia, visto che oggi le repubbliche sono tali soltanto nominalmente (come le “democrazie”), sono cioè diventate custodie in ottone lucidato per contenervi subdole dittature. Ma il Verri adopera la parola “repubblica” nel senso vero e originario, nell'idea anarchica di una gestione diretta e popolare della società. E dopo aver stabilito che la forma migliore di governo è quella in cui il popolo detiene il controllo di tutto, termina il discorso in questo modo:

Se qualch’altro mi rimproverasse, perché nel mio scritto non vi sia civismo, io mi limiterò a invitarlo, perché dia in questi tempi alla Patria de’ consigli più opportuni de’ miei”.

Insomma, da allora sono passati 227 anni, ci sembra che di governi ne abbiamo visti e sopportati abbastanza. Aspettiamo ancora? E se non vi bastano 227 anni possiamo andare ancora indietro nella Storia, dove troveremo un grande Etienne de la Boétie (XVI secolo) che parla in merito alla condizione di “servitù volontaria” del popolo, troveremo Diogene (412 a.C.), fino a trovare le antichissime genti oppresse da quegli imperi che i media definiscono impropriamente, ma astutamente, “civiltà” (babilonesi, sumeri, egizi, ittiti, assiri, ecc.). Insomma, per dirla alla Verri, se scorriamo gli ultimi 3000 anni di Storia ci troveremo sempre di fronte a “una popolazione che sin ora non ha saputo far altro se non soffrire con sommessione”. Cosa vi fa illudere ancora che una vostra delegazione di vampiri possa darvi la libertà, la pace e la giustizia che meritate?

domenica 27 agosto 2023

Perché continuare a delegare? (parte 1)

 

Ci dicono: “ma come potete ottenere l'anarchia se viviamo circondati da gente mafiosa e profittatrice, aggressiva e malvagia? Siate realisti!” Così ci dicono. Intanto, tra parentesi, facciamo notare quel “potete” che è come dire: fate da soli che a noi non interessa (qualunquismo opportunista). Ma continuiamo.

La questione va ribaltata: quella stessa domanda che in molti ci pongono, in realtà siamo noi per primi a rivolgergliela, lo facciamo da sempre, e a ragion veduta. Quindi la ribadiamo ancora per tutti: “come potete voi, o elettori, continuare a credere di trovare un vostro rappresentante, quando siamo circondati da vampiri malvagi e profittatori?” Non sarete piuttosto voi gli utopisti, dal momento che non è mai esistito nella storia un solo governo che abbia garantito al popolo pace, giustizia, libertà? E come potrebbe? È un controsenso pretendere giustizia e libertà da un'istituzione preposta al comando e al controllo della massa. Siate voi i realisti, piuttosto.

È inutile cercare nella memoria, per davvero non è mai esistito un solo governo che abbia restituito ai cittadini ciò che spetta loro, ciò che apparteneva a loro per diritto naturale. Semmai i governi tolgono, rubano alla gente, è il loro compito, sono servili strumenti dello Stato. Se invece di cercare nella memoria cercassimo negli archivi, nelle biblioteche, ci accorgeremmo che il lamento del popolo è antico quanto lo Stato e i governi, ci si lamenta praticamente da 3000 anni circa (prima vivevamo in florida anarchia). Ma guardateli bene i libri di storia scolastici, cercatene il sottotesto, non sono altro che la summa delle lotte per la sopravvivenza dei popoli che protestano contro tutti i governi e che, con l'inganno, vengono mandati a morire per conto dei sovrani (ma astutamente alla gente viene detto che si muore “in nome del popolo sovrano” e di una “libertà”che però rimane sempre un'utopia).

In Italia la storia dei lamenti del popolo va ben oltre il 1861. Se andiamo indietro nel tempo ci accorgiamo che i governi regionali, di qualsiasi natura e nome, hanno avuto le stesse caratteristiche dei governi attuali sedicenti “democratici”. Eletti o non eletti, i sovrani e i ministri non fanno altro che opprimere il popolo, derubandolo. E saremmo noi anarchici i sognatori e gli utopisti? In poco più di centocnquanta anni (dalla Comune di Parigi), nonostante tutti gli ostacoli, tutte le censure, tutti i soprusi che ci tocca subire, abbiamo dimostrato più volte cosa voglia dire governo del popolo, pace, giustizia e libertà. La stessa cosa non si può dimostrare in 3000 anni di sistema statale. Fate voi. (valga questo esempio per tutti).

Ma prendiamo soltanto il governo di Milano subito dopo gli anni della Rivoluzione francese, nel 1796, cioè 65 anni prima dell'unità d'Italia. È stato ritrovato un testo di quell'anno, scritto da Pietro Verri (filosofo, economista, storico, politico) per la rivista “Termometro politico della Lombardia”, dal titolo “Pensieri d'un buon vecchio, che non è letterato”, che è una raccomandazione al popolo milanese e in cui Verri evidenzia le stesse nefandezze che tutti noi denunciamo oggi circa i ministri e i loro governi.

Copiamo pari pari, anche la punteggiatura, partendo dall'inganno della rappresentatività. Dice Pietro Verri:

“...quando un sovrano pretende d'esser padrone d'uno stato, tutti gli abitanti di quello stato sono nelle mani dei ministri che nomina quel sovrano”. (Non è sempre stato così?)

Verri si sofferma ad analizzare questi ministri (“cortigiani”), ed emerge non solo la loro immoralità, ma anche il loro unico scopo che è quello di arricchirsi:

I cortigiani in massa son gente, o divorati dalla smania di figurare senz'alcun merito, ovvero sono pieni di debiti e non di raro di delitti; e questo miserabile stato dell'animo loro è quello che li costringe a starsene con faccia ridente e sommessa, nell'abituale adorazione del sovrano; a trangugiare con serenità i bocconi più amari, a non avere altra opinione fuori di quella che conduce alla fortuna”. (Non è sempre stato così?)

Segue il modo in cui, nel governo, ministri e privilegiati vari si autopercepiscono l'un con l'altro:

Ivi un animo fermo e robusto dee essere odiato: un animo candido e leale deve essere deriso: un animo sensibile vi passerà per imbecille. Vidi e conobbi anch'io le inique corti”. (Avete conosciuto nella Storia corti diverse da queste?).

giovedì 24 agosto 2023

Gli anarchici e l’emigrazione italiana in Brasile

L’esodo delle masse lavoratrici europee che nella seconda metà dell’800 emigrarono nelle Americhe portò con sé tutti quegli elementi culturali che contraddistinguevano le popolazioni che ne furono protagoniste, compresa quella serie di apparati filosofici e ideologici sorti dopo la Rivoluzione francese, fra cui spiccavano per importanza e diffusione il socialismo e l’anarchismo. Chi professava in patria queste dottrine era spesso soggetto alla persecuzione delle oligarchie dominanti e “l’esilio” nelle Americhe poteva rappresentare una valida alternativa al carcere. Questo esilio, più o meno volontario, degli attivisti anarchici europei era spesso visto di buon occhio dagli stessi governanti, che potevano considerare l’emigrazione come un’ottima valvola di sfogo per alleggerire la pressione sociale in Europa. Per quanto riguarda gli italiani, l’emigrazione di massa nei primi anni si diresse maggiormente verso l’America Latina, e in modo particolare verso il Brasile. Accadde così che numerosi piccoli intellettuali della penisola, militanti di ideologie ritenute sovversive o in qualche modo foriere di rinnovamento sociale, si ritrovassero nel Paese sudamericano a svolgere la propria propaganda in un contesto completamente nuovo, in cui le oligarchie dominanti erano costituite essenzialmente dalla nobiltà di origine coloniale (ma non solo), mentre gli strati socialmente più bassi della popolazione erano formati dai nativi, spesso ex schiavi neri, a cui si aggiungevano gli emigrati di origine europea. Nella città di São Paulo la propaganda anarchica veniva svolta tramite conferenze, dibattiti, rappresentazioni teatrali di carattere didattico (i testi più frequentemente rappresentati erano i drammi di Pietro Gori, benché anche i militanti locali producessero una discreta quantità di letteratura didascalica), ma soprattutto tramite la redazione di giornali e foglietti di propaganda. Nel periodo che va dal 1892 al 1920 si contano più di venti differenti testate italiane dichiaratamente anarchiche, alcune delle quali ebbero durata pluriennale, come a “La Birichina”, “La Battaglia” o “La Lotta Proletaria”. Il tentativo di coinvolgere il proletariato in forme di lotta collettiva si scontrava fondamentalmente con due difficoltà, una endogena e l’altra esogena rispetto alla società brasiliana. La prima era costituita dalle caratteristiche pre-moderne dei rapporti di lavoro nelle fazendas brasiliane (le piantagioni di caffè): la proprietà della terra era fortemente concentrata e i latifondisti, ancora in possesso di una mentalità schiavista (l’economia caffeicola brasiliana si era fondata sul lavoro servile fino alla sua definitiva abolizione, avvenuta solo nel 1888), esercitavano un potere assoluto di stampo feudale nei propri possedimenti.

La visione classista della società propugnata dagli anarchici veniva da questi additata come priva di fondamento, una “pianta esotica” portata da pochi agitatori europei in una realtà che non rispondeva a questa lettura. La seconda difficoltà era data dalle aspettative di arricchimento ed emancipazione individuale che gli immigrati in generale avevano, e la scarsa ricettività che un messaggio di rinnovamento sociale da attuare attraverso una lotta collettiva poteva avere presso di loro, per lo meno nei primi anni di emigrazione di massa. Per questo l’opera degli attivisti anarchici fu efficace quando riuscì a inserirsi nelle dinamiche più quotidiane del proletariato, sostituendo con la pratica collettiva dell’azione diretta (scioperi, boicottaggi, danneggiamento dei mezzi di produzione) le pratiche convenzionali con le quali il contadino (divenuto operaio nelle fabbriche di São Paulo) era solito affrontare le avversità dell’esistenza, in particolare le pratiche religiose, la ricerca di sicurezza nel clan familiare e le prospettive individuali di ascesa sociale.