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Che i moralisti denominino
"impuri", "perversi", "abominevoli", o
altrimenti, le manifestazioni sessuali che non rientrano nel loro criterio di
ciò che è permesso o proibito, questo è convenzione o dogma. Noi ci porremmo
dunque da un altro punto di vista per discernere se tale ricerca della
voluttà sia morale o meno. Considereremo la questione secondo la nostra
propria concezione della vita - come individualisti, "a modo
nostro". Esamineremo se tale o talaltra pratica privi chi la compie del
suo autocontrollo, o intacchi la sua personalità. In altre parole,
l'essenziale per noi è che, una volta provato il godimento e raggiunto il
piacere, l'individuo si ritrovi nel pieno possesso della sua individualità.
Importa poco allora come il piacere viene generato o creato, purché vi sia
stato piacere - mutuo piacere, piacere isolato o associato, piacere ottenuto
senza costrizione o inganno, piacere sottomesso alla volontà di colui o di
coloro che lo ricercano, lo realizzano, lo raffinano, lo complicano persino.
Se i mezzi di godimento denunciati come viziosi, esecrabili, non conformisti,
fuori dalla natura, non sminuiscono colui o coloro che se ne servono o ne
approfittano, sono NORMALI: altrimenti sono anormali. Questo non ha niente a
che vedere con il grado di ripugnanza o di orrore che possono ispirare a dei
cervelli che pensano o ragionano sotto l'influenza dell'educazione religiosa
o laica, che credono al peccato originale o quello civico. L'individuo
normale è per noi colui che per vivere, da solo o insieme ad altri, per
vivere la propria vita, l'intera sua vita, sia abbastanza se stesso da
considerare come inutile la morale imposta dagli agenti della Chiesa o dagli
impiegati dello Stato. |
Dal Mediterraneo a Gaza: la più grande flottiglia civile mai organizzata per denunciare il genocidio e portare solidarietà al popolo palestinese
In questo momento drammatico della storia umana assistiamo al genocidio
dei palestinesi di Gaza, e da questa parte del Mediterraneo ci sentiamo impotenti.
Possiamo protestare, manifestare, boicottare prodotti e servizi legati a Israele,
ma resta la sensazione di non riuscire a fermare una violenza che sembra inarrestabile.
È difficile credere che un popolo possa essere annientato con tale crudeltà in nome
di Dio, o nel nome di un unico modo di pensare e vivere il mondo.
Intanto, il fanatismo cresce non solo in una larga parte della società
israeliana e della diaspora ebraica, ma anche fra alcuni dei nostri connazionali,
che sostengono apertamente uno Stato impegnato in un processo di colonizzazione
sistematica. Case, scuole, ospedali, uomini, donne e bambini vengono cancellati
da quella che molti ancora oggi insistono a chiamare “l’unica democrazia del Medio
Oriente”. Il tragico attentato del 7 ottobre è stato trasformato in vendetta, non
in giustizia.
I dati sono drammatici: secondo un’indagine congiunta di +972 Magazine,
Local Call e The Guardian, basata su un database interno dei servizi segreti israeliani,
almeno l’83% dei palestinesi uccisi durante l’offensiva su Gaza erano civili. Le
autorità di Gaza, citate da Al-Jazeera, denunciano che tra gli oltre 62.000 morti
dall’inizio delle operazioni militari israeliane, il 7 ottobre 2023, ci sono almeno
18.885 bambini. A questo si aggiunge il blocco degli aiuti umanitari: l’ONU ha dichiarato
che, solo da maggio, 1.760 palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano cibo o
beni di prima necessità.
La distruzione sistematica emerge anche in episodi apparentemente paradossali:
come rivelato dal Guardian, le Forze di Difesa Israeliane hanno pubblicato inserzioni
su Facebook per reclutare autisti di bulldozer destinati alla demolizione delle
abitazioni di Gaza.
Di fronte a tutto questo, l’Europa appare paralizzata, incapace di decisioni
univoche, mentre le Nazioni Unite si limitano a richiami formali senza conseguenze
concrete. Con il sostegno politico di figure come Donald Trump, il premier israeliano
Netanyahu porta avanti indisturbato la sua politica di occupazione e colonizzazione.
In questo scenario tremendo, noi che crediamo nel dovere di “restare
umani” ci chiediamo se ci siano azioni concrete capaci di portare aiuto a una popolazione
che, proprio perché continua a esistere, continua anche a resistere.
“Sumud” è una parola araba intraducibile con un solo termine. Racchiude
fermezza, perseveranza, resilienza e resistenza. Non indica la lotta armata, ma
un atteggiamento di forza silenziosa e ostinata. Per i palestinesi rappresenta al
tempo stesso un simbolo nazionale, una strategia politica e un valore culturale.
Sumud è oggi anche il nome della più grande missione marittima civile
mai tentata verso Gaza: la Global Sumud Flotilla.
La flottiglia partirà da Barcellona e da due porti italiani, con decine
di imbarcazioni, il coinvolgimento di attivisti in 44 Paesi, una campagna coordinata
a terra e l’obiettivo dichiarato di rompere il silenzio internazionale sul blocco
e sulla negazione degli aiuti umanitari.
Già lo scorso giugno la coalizione aveva promosso una mobilitazione globale
via terra, mare e aria. Ora, con un coordinamento internazionale senza precedenti,
persone comuni — attivisti, medici, operatori umanitari, artisti, religiosi, avvocati,
marinai — si sono unite nella convinzione della dignità umana e della forza dell’azione
nonviolenta. «Pur provenendo da Paesi, fedi e convinzioni politiche diverse, siamo
uniti da una verità comune: l’assedio e il genocidio devono finire. Siamo indipendenti,
internazionali e non affiliati ad alcun governo o partito politico. La nostra fedeltà
è alla giustizia, alla libertà e alla sacralità della vita».
Come racconta Maria Elena Delia, membro dello Steering Committee e referente
per l’Italia del Global Movement to Gaza, il progetto nasce a seguito della Global
March to Gaza, dove si è formata una rete internazionale coesa e competente. «Da
qui è nata l’idea di un’azione via mare con un ordine di grandezza inedito anche
per Israele. Il 31 agosto salperanno barche da Barcellona e da un porto del Nord
Italia. Il 4 settembre partiranno altre imbarcazioni dalla Tunisia e dal Sud Italia».
Questi percorsi si affiancano ai due corridoi principali già annunciati, definendo
il profilo logistico dell’operazione nel Mediterraneo centrale.
Intanto, molti artisti e personalità pubbliche stanno diffondendo messaggi
di sostegno sui social. Se i media tradizionali – non solo italiani – tendono a
non dare spazio a Gaza e alle iniziative di solidarietà, possiamo essere noi a colmare
questo vuoto: condividendo le informazioni, sostenendo i naviganti coraggiosi con
donazioni e offrendo loro quella visibilità che rafforza non solo la loro missione,
ma anche la nostra stessa coscienza civile.
Gli anarchici sono contro la violenza.
È cosa nota. L'idea centrale dell'anarchismo è l'eliminazione della violenza
dalla vita sociale; è l'organizzazione dei rapporti sociali fondati sulla
libera volontà dei singoli, senza l'intervento del gendarme. Perciò siamo
nemici del capitalismo che costringe, appoggiandosi sulla protezione dei
gendarmi, i lavoratori a lasciarsi sfruttare dai possessori dei mezzi di
produzione o anche a restare oziosi ed a patire la fame quando i padroni
hanno interesse a sfruttarli. Perciò siamo nemici dello Stato che è
l'organizzazione coercitiva, cioè violenta, della società. La violenza è
giustificabile solo quando è necessaria per difendere se stesso e gli altri
contro la violenza. Dove cessa la necessità comincia il delitto.... Lo
schiavo è sempre in istato di legittima difesa e quindi la sua violenza
contro il padrone, contro l'oppressore, è sempre moralmente giustificabile e
deve essere regolata solo dal criterio dell'utilità e dell'economia dello
sforzo umano e delle sofferenze umane. (E. Malatesta da Umanità Nova, 25
agosto 1921) La violenza anarchica è la sola che
sia giustificabile, la sola che non sia criminale. Parlo naturalmente della
violenza che ha davvero i caratteri anarchici, e non di questo o quel fatto
di violenza cieca ed irragionevole che è stato attribuito agli anarchici, o
che magari è stato commesso da veri anarchici spinti al furore da infami
persecuzioni, o accecati, per eccesso di sensibilità non temperato dalla
ragione, dallo spettacolo delle ingiustizie sociali, dal dolore per il dolore
altrui. La vera violenza anarchica è quella che cessa dove cessa la necessità
della difesa e della liberazione. Essa è temperata dalla coscienza che gli
individui presi isolatamente sono poco o punto responsabili della posizione
che ha fatto loro l'eredità e l'ambiente; essa non è ispirata dall'odio ma
dall'amore; ed è santa perché mira alla liberazione di tutti e non alla
sostituzione del proprio dominio a quello degli altri. (E. Malatesta da
Pensiero e Volontà - 1 settembre 1924) Vi possono essere dei casi in cui la
resistenza passiva è un'arma efficace, ed allora sarebbe certamente la
migliore delle armi, poiché sarebbe la più economica di sofferenze umane. Ma,
il più delle volte, professare la resistenza passiva significa rassicurare
gli oppressori contro la paura della ribellione, e quindi tradire la causa
degli oppressi. È curioso osservare come i terroristi ed i tolstoisti,
appunto perché sono gli uni e gli altri dei mistici, arrivano a conseguenze
pratiche pressoché uguali. Quelli non esiterebbero a distruggere mezza umanità
pur di far trionfare l'idea; questi lascerebbero che tutta l'umanità restasse
sotto il peso delle più grandi sofferenze piuttosto che violare un principio.
(E. Malatesta da Anarchia - Londra, agosto 1896) |
Se l’opinione ti giudica simpatico,
bello, intelligente, vivresti meglio? Se essa ti stima stupido, squallido,
infame, vivresti peggio? Nel caso affermativo, bisogna, di fatto, che ti
preoccupi degli altri perché tu esisti per loro, gli appartieni, hai bisogno
di sedurre, di opprimere, di ubbidire, di sfuggirti. Se no, lascia correre e
che si appannino le immagini prefabbricate della tua buona e cattiva
reputazione. Non sarà più necessario mentirti se non ti preoccuperai più di
apparire, di metterti in posa per la famiglia e per la storia, di tremare
davanti a questo riflesso che è solo la tua rappresentazione estranea.
L’opinione ha i suoi assassini e le sue prigioni? Quando cominceremo ad
abbattere le prigioni interiori e gli assassini imboscati del super-io,
quelli esterni cadranno come la Bastiglia. Si arriva a tutto se non si dubita
di niente. Non sono unico per sempre che in me e per me. La vostra fretta a
decifrarmi maneggia con troppa facilità lo scalpello dell’autopsia e della
disinibizione. Non c’è migliore curiosità della mia stessa curiosità verso di
me. E anche se la tua tenerezza mi aiuta a vedere più chiaramente non sono
ancora il solo che può tirar fuori qualche luce dall’ombra? Niente mi piace
di più che vedere gli esseri e le passioni armonizzarsi in me e intorno a me.
Aspiro a delle affinità che si legano e si slegano senza rotture, secondo il
ritmo capriccioso dei desideri, sfuggendo nella gratuità più assoluta ai tics
ombrosi della volontà di potenza, e senza che il riflesso della frustrazione
imponga la sua grinfia di amarezza sull’assenza di una persona cara. Che
ognuno conservi i suoi gusti e i suoi disgusti, i suoi accordi e i suoi
disaccordi, o che li cambi, poco importa, purché regni l’esuberanza della
vita e non la morte che si annuncia da tutte le separazioni. |
Noi ammettiamo certamente la divisione
del lavoro e ne apprezziamo i vantaggi; ma ne conosciamo pure i danni ed i
pericoli. La divisione del lavoro è stata una fra le cause
dell'assoggettamento delle masse al dominio delle caste privilegiate. E col
principio della divisione del lavoro si può tentare la giustificazione di
tutte le mostruosità sociali: divisione tra lavoro mentale e lavoro manuale,
divisione tra il lavoro di direzione è quello di esecuzione, divisione tra il
lavoro di produzione e quello di difesa dei produttori... che poi si
riassumono e si concretano nella divisione tra il lavoro di mangiare e quello
di produrre, tra il lavoro di bastonare e quello di farsi bastonare. Menenio
Agrippa conosceva già quest'argomento. Noi crediamo che carattere essenziale,
non solo dell'anarchismo ma del socialismo in genere, sia il volere che certe
funzioni debbano appartenere indistintamente a tutti i membri della società,
malgrado i vantaggi tecnici che vi potrebbero essere nell'affidarle ad una
classe speciale. Si divida pure il lavoro fino a che si può, per aumentare la
produzione è facilitare il funzionamento della vita sociale: ma sian salvi
innanzi tutto l'integrale sviluppo e l'eguale libertà di tutti gli individui.
(E. Malatesta da "Agitazione", 1897) |
A differenza
dell’animale che conosce d’istinto il mondo materiale che gli appartiene e che
gli è necessario – così l’uccello migratore conosce il Sud, e la vespa conosce
la sua preda – l’uomo non prevede il proprio mondo. Ne possiede solo un a
priori formale. L’uomo non è fatto per nessun mondo materiale, non può
anticiparlo nella sua determinazione, deve piuttosto imparare a conoscerlo
“après coup”, a posteriori, ha bisogno dell’esperienza. La sua relazione con
una determinazione fattuale del mondo è relativamente fragile, egli si trova
nell’attesa del possibile e del qualunque. Nessun mondo gli è effettivamente
imposto (come, viceversa, a qualsiasi animale è imposto un ambiente specifico),
al contrario, egli trasforma il mondo e, con mille varianti storiche e come una
sorta di sovrastruttura, vi edifica ora un “secondo mondo”, ora un altro.
Infatti, per offrirne una definizione paradossale, l’artificialità è la natura
dell’uomo e la sua essenza è l’instabilità. Le costruzioni pratiche dell’uomo,
così come le sue facoltà teoriche di rappresentazione, testimoniano della sua
astrazione. Non solo deve, ma può anche fare astrazione dal fatto che il mondo
è così com’è: poiché lui stesso è un essere “astratto”: non è solo parte del
mondo (è di questo aspetto che si occupa il materialismo), ma è anche “escluso”
da esso, “non di questo mondo”. L’astrazione – vale a dire, la libertà di
fronte al mondo, il fatto di essere tagliato per la generalità e
l’indeterminato, il ritiro dal mondo, la pratica e la trasformazione di questo
mondo – è la categoria antropologica fondamentale, che rivela la condizione
metafisica dell’uomo e, insieme, il suo ?????, (parola , discorso) la sua
produttività, la sua interiorità, il suo libero arbitrio, la sua storicità.
Nell'autunno di 55 anni fa,
all'indomani dell'attentato Zamboni, il regime fascista si preparava a
reintrodurre quella pena di morte che vi era stata cancellata fin dal 1889
(codice Zanardelli). Per la rivista Pensiero e volontà, di cui era redattore,
l'anziano militante anarchico Errico Malatesta scrisse questo articolo, che
però non poté esservi pubblicato... a causa della soppressione di tutta la
stampa d'opposizione: apparve invece su Il risveglio anarchico (Ginevra),
n.867 dell'11 febbraio 1933 - quasi un anno dopo la morte di Malatesta. Pare quasi certo che in Italia sarà
ristabilita la pena di morte. È naturale. Ognuno, individuo o
collettività, si difende come sa e può. Chi non riesce ad assicurare la sua
esistenza e la sua libertà di sviluppo, conquistando il consenso, la
cooperazione, l'amore degli altri mediante la reciprocità dei benefici e della
simpatia, deve affidarsi alla violenza, alla forza bruta. E allora, per chi
ne ha il potere, il mezzo più spiccio, se non sempre il più sicuro, per
garantirsi contro i possibili pericoli è quello di sopprimere i propri
nemici: il massacro se si hanno contro delle masse, la pena di morte se si ha
da fare con degli individui. Può disdegnare il ricorso alla violenza chi si
sente veramente forte, moralmente o materialmente; ma chi non è sicuro di sé,
è sempre, pur nello sfolgorio della sua apparente potenza, tormentato dalla
paura, è fatalmente condannato a tremare - e perciò è violento. Noi che
auspichiamo la pace e la fratellanza fra tutti gli esseri umani, noi che
consideriamo un progresso - il migliore dei progressi - ogni addolcimento dei
costumi, ogni trionfo della forza morale sulla forza materiale, non possiamo
che fremere d'orrore a quest'altro passo indietro verso la barbarie. Ma
questi sono tempi ferrigni, tempi "romani", ed i nostri
sentimentalismi faran sorridere di disprezzo i fautori dell'Italia imperiale.
Non ripeteremo gli argomenti classici contro la pena di morte. Essi ci paion
menzogne, quando li sentiamo sostenere da chi è poi partigiano dell'ergastolo
ed altri disumani surrogati della pena di morte. Né parleremo della
"santità della vita umana" che tutti affermano, e tutti violano
all'occasione, sia infliggendo direttamente la morte, sia trattando gli altri
in modo da tormentare ed abbreviare la loro vita. Vi sono - pochi per
fortuna, ma vi sono certamente - degli uomini, nati o diventati dei mostri
morali, sanguinari e sadici, di cui non sapremmo compiangere la morte. Quando
questi disgraziati fossero un pericolo continuo per tutti e non vi fosse
altro modo di difendersi che l'ucciderli, si potrebbe anche ammettere la pena
di morte. Ma il guaio si è che per applicare la pena di morte ci vuole il
boia. Ora il boia è, o diventa un mostro; e, mostro per mostro, è meglio
lasciar vivere quelli che vi sono, anziché crearne degli altri. E questo
s'intende per i veri delinquenti, esseri anti-sociali che non riscuotono
nessuna simpatia e non provocano nessuna commiserazione. Che se si tratta
della pena di morte come mezzo di lotta politica, allora... allora la storia
ci dice quali possono essere le conseguenze. Ecco. Noi siamo dei
cosmopolitani, noi amiamo tutti i paesi come amiamo l'Italia; noi ci
rallegriamo di ogni gioia ed ogni gloria umana, come soffriamo per ogni
dolore ed ogni vergogna umana, senza distinzione di razza o di nazionalità -
e per questo siamo considerati anti-patrioti ed anti-nazionali. Eppure, forse
per atavismo, forse per la maggiore solidarietà che naturalmente ci lega a
quelli che ci stanno più vicini, noi non sapevamo liberarci da un senso di
orgoglio quando credevamo di poter dire: In terra d'Italia non alligna il
boia. Dovremo rinunziare anche a questa illusione? a questo residuo orgoglio
nazionale? |
Ma per essere anarchici non basta
volere l'emancipazione del proprio individuo, ma bisogna volere
l'emancipazione di tutti; non basta ribellarsi all'oppressione, ma bisogna
rifiutarsi di essere oppressori; bisogna comprendere i vincoli di
solidarietà, naturale o voluta, che legano gli uomini tra di loro, bisogna
amare i propri simili, soffrire dei mali altrui, non sentirsi felici se si sa
che altri sono infelici. E questa non è questione di assetti economici: è
questione di sentimenti, o, come si dice teoricamente, questione di etica. Da
tali principi e tali sentimenti, comuni malgrado il diverso linguaggio, a
tutti gli anarchici, si tratta di trovare ai problemi pratici della vita le
soluzioni che meglio rispettano la libertà e meglio soddisfano i sentimenti
di amore e di solidarietà. Quegli anarchici che si dicono comunisti (ed io mi
metto tra essi) sono tali non perché vogliano imporre il loro speciale modo
di vedere o credano che fuori di esso non vi sia salvezza, ma perché sono
convinti, fino a prova in contrario, che più gli uomini sono affratellati e
più intima è la cooperazione dei loro sforzi a favore di tutti quegli
associati, più grande è il benessere e la libertà di cui ciascuno può godere.
L'uomo, essi pensano, se anche è liberato dall'oppressione dell'uomo, resta
sempre esposto alle forze ostili della natura, ch'egli non può vincere da
solo, ma può col concorso degli altri uomini dominare e trasformare in mezzi
del proprio benessere. Un uomo che volesse provvedere ai suoi bisogni
materiali lavorando da solo, sarebbe lo schiavo del suo lavoro. Un contadino,
per esempio, che volesse coltivare da solo il suo pezzo di terra,
rinuncerebbe a tutti i vantaggi della cooperazione e si condannerebbe ad una
vita miserabile: non potrebbe concedersi periodi di riposo, viaggi, studi,
contatti colla vita molteplice dei vasti aggruppamenti umani... e non
riuscirebbe sempre a sfamarsi. È grottesco pensare che degli anarchici, per
quanto si dicano e siano comunisti, vogliano vivere come in un convento,
sottoposti alla regola comune, al pasto ed al vestito uniformi, ecc.; ma
sarebbe egualmente assurdo il pensare ch'essi vogliano fare quello che loro
piace senza tener conto dei bisogni degli altri, del diritto di tutti ad una
eguale libertà. Tutti sanno che Kropotkin, per esempio, il quale fu tra gli
anarchici uno dei più appassionati ed il più eloquente propagatore della
concezione comunista, fu nello stesso tempo grande apostolo dell'indipendenza
individuale e voleva con passione che tutti potessero sviluppare e soddisfare
liberamente i loro gusti artistici, dedicarsi alle ricerche scientifiche,
unire armoniosamente il lavoro manuale a quello intellettuale per diventare
uomini nel senso più elevato della parola. Di più, i comunisti (anarchici,
s'intende) credono che a causa delle differenze naturali di fertilità,
salubrità e posizione del suolo, sarebbe impossibile assicurare
individualmente a ciascuno eguali condizioni di lavoro e realizzare, se non
la solidarietà, almeno la giustizia. Ma nello stesso tempo essi si rendono
conto delle immense difficoltà per praticare, prima di un lungo periodo di
libera evoluzione, quel volontario comunismo universale che essi considerano
quale l'ideale supremo dell'umanità emancipata ed affratellata. ed arrivano quindi
ad una conclusione che potrebbe esprimersi colla formula: quanto più
comunismo è possibile per realizzare il più possibile di individualismo, vale
a dire il massimo di solidarietà per godere il massimo di libertà. D'altra parte gli individualisti
(parlo, si intende, sempre degli anarchici) per reazione contro il comunismo
autoritario - che è stato nella storia la prima concezione che si è
presentata alla mente umana di una forma di società razionale e giusta e che
ha influenzato più o meno tutte le utopie e tutti i tentativi di
realizzazione - per reazione, dico, contro il comunismo autoritario che in
nome dell'eguaglianza inceppa e quasi distrugge la personalità umana, hanno
dato la maggiore importanza al concetto astratto di libertà e non si sono
accorti o non vi hanno insistito, che la libertà concreta, la libertà reale è
condizionata dalla solidarietà, dalla fratellanza e dalla cooperazione
volontaria. Sarebbe nullameno ingiusto il pensare che essi vogliono privarsi
dei benefizi della cooperazione e condannarsi ad un impossibile isolamento.
Essi comprendono certamente che il lavoro isolato è impotente e che l'uomo,
per assicurarsi una vita umana e godere materialmente di tutte le conquiste
della civiltà, o deve sfruttare direttamente o indirettamente il lavoro
altrui e prosperare sulla miseria dei lavoratori, o associarsi coi suoi
sibili e dividere con essi i pesi e le gioie della vita. E siccome essendo
anarchici non possono ammettere lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, debbono
necessariamente convenire che per esser liberi e vivere da uomini bisogna
accettare un grado ed una forma qualsiasi di comunismo volontario. (E. Malatesta da Pensiero e Volontà, 1 Aprile 1926) |
L’urbanismo unitario prevedeva un
utilizzo del territorio come pratica di resistenza ed opposizione alle
strategie di pianificazione dell’urbanismo razionalista considerato
colpevole, agli occhi dei situazionisti, di costruire città alienanti per
l’individuo e la società. L’urbanismo unitario era un vero e proprio
programma di guerriglia, estetica, funzionale e politica, che coinvolgeva e
sconvolgeva il tessuto urbano. Rispetto ad un fare tecnocratico, di
manipolazione degli esseri umani come cose, realizzato dalla pianificazione
degli urbanisti razionalisti che guardavano e progettavano strategicamente la
città “dal di fuori”, i situazionisti lavoravano sulla città tatticamente
“dall’interno”. I situazionisti negavano i valori pratici dell’urbanistica
razionalista (gli spazi progettati come pre-determinati all’uso) a favore di
una valorizzazione ludica, di libero gioco e di libero utilizzo della città
preferendo gli spazi d’uso semi-determinati e informali. Questa
valorizzazione portava ad un congiungimento del soggetto con il suo oggetto
di valore che dava luogo, a sua volta, ad una valorizzazione utopica degli
spazi urbani, ovvero ad una costruzione di una nuova società attraverso
l’unione realizzata tra città e abitanti: da qui il termine urbanismo unitario.
Tale unione avrebbe dovuto portare ad un cambiamento radicale e irreversibile
della loro identità comune. Come diceva un celebre slogan situazionista
scritto sui muri di Parigi durante i giorni del Maggio francese: “niente
sarebbe stato più come prima”. Gli studi sul nomadismo e sugli accampamenti
degli zingari furono un preludio fondamentale sia alla nascita stessa
dell’Internazionale Situazionista, sia al progetto di New Babylon, la città
situazionista progettata da Constant. New Babylon era per i situazioni la
realizzazioni di un nuovo modello di città, la concretizzazione delle loro
teorie sull’urbanismo unitario. New Babylon, nelle intenzioni dei
situazionisti sarebbe stata una città composta da parti mobili, modulari,
ricombinabili. Una sorta di enorme sovrastruttura abitativa, una enorme rete,
un rizoma, che avrebbe ricoperto l’intera sfera terrestre con delle
megastrutture ludiche. Si trattava, per Costant e per i situazionisti, di
creare un labirinto dinamico in perpetua trasformazione. |