..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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sabato 30 agosto 2025

Errico Malatesta - La tattica elettorale

 

Il terreno comune su cui si incontrano i borghesi, che cercavano di corrompere, e quei socialisti, che cercavano di essere corrotti, fu l'urna elettorale. Né il danno sarebbe stato grande, ma i traditori, gli ambiziosi e gli stanchi riuscirono purtroppo a trascinare all'urna molti buoni, che credevano sinceramente di acquistare una nuova arma di lotta contro la borghesia, e di avvicinare con quel mezzo l'avvenimento della rivoluzione. Naturalmente per mascherare la manovra il passaggio si fece a gradi. Al principio non si infirmò nessuna delle conclusioni acquisite al programma socialista. L'espropriazione per mezzo della rivoluzione, si andava ripetendo, è l'unico mezzo per emanciparsi: il suffragio universale, la repubblica e tutte quante le riforme politiche lasciano il tempo che trovano e non sono che tranelli tesi all'ingenuità popolare. Però, s'insinuava dolcemente, qualche bene se ne può cavare: profittiamo di tutto, serviamoci come armi delle concessioni che possiamo strappare al nemico, allarghiamo il nostro campo di azione, cessiamo dal roderci della nostra impotenza, siamo pratici. E tosto si mise avanti il progetto di andare all'urna, scopo a cui tendeva ed in cui si riduceva tutto quel preteso allargamento di tattica. Ma siccome non s'osava ancora rinnegare tutto il detto sulla inutilità della lotta elettorale e sull'azione costruttrice dell'ambiente parlamentare, si disse che bisognava votare semplicemente per contarsi, quasi che fosse necessario andare all'urna e farsi contare dal nemico per giudicare dei progressi del partito. E per affettare scrupolosità si parlò di votare un bollettino in bianco, o per dei morti o per degli ineleggibili. Poi, senza aver l'aria di nulla, i morti diventarono vivi e gli ineleggibili si trasformarono in persone che al parlamento potevano e volevano andarci e restarci. Ma non si osava confessarlo: si trattava sempre di candidature di protesta: gli eletti non entrerebbero in parlamento, rifiuterebbero il giuramento là dove era richiesto, o c'entrerebbero per sputare in faccia alla borghesia la infamia sua, e farsi scacciare come nemico che non transige. Poi nemmeno più questo.

In parlamento bisognava andarci per profittare della tribuna parlamentare, per scoprire e denunciare al popolo i dietro scena della politica, per avere dei posti avanzati nel campo nemico, dei posti presi nella cittadella borghese. Il deputato socialista non doveva essere legislatore, non doveva aver nessun legame coi deputati della borghesia, ma stare in parlamento come spettro minaccioso della rivoluzione sociale in mezzo a coloro che vivono dei sudori e del sangue del popolo. Ma che!... oramai si stava sulla china e bisognava andare fino in fondo. Il partito rivoluzionario, che entrava in parlamento, doveva diventar riformista, e lo diventò. L'emancipazione integrale, cominciarono a dire, è una bella cosa, ma è come il paradiso: una cosa lontana lontana e che nessuno ha mai visto. Il popolo ha bisogno di miglioramenti immediati. Meglio poco che nulla. La rivoluzione sarà tanto più facile quanto più concessioni si saranno strappate alla borghesia. Senza contar quelli, pochi, del resto, che hanno saltato il fosso affermando che si può raggiungere lo scopo per evoluzione pacifica. E s'invocò la scienza, quella povera scienza che s'accomoda a tutte le salse, per sofisticare all'infinito sul tema evoluzione e rivoluzione; quasi che vi fosse alcuno che neghi l'evoluzione, e la questione non fosse piuttosto sulla specie di evoluzione, che più corrisponde al fine socialista e che quindi i socialisti devono propugnare.

(Errico Malatesta, 1890-91)

mercoledì 27 agosto 2025

Emile Armand. Impuri, perversi, abominevoli e anarchia

 

Che i moralisti denominino "impuri", "perversi", "abominevoli", o altrimenti, le manifestazioni sessuali che non rientrano nel loro criterio di ciò che è permesso o proibito, questo è convenzione o dogma. Noi ci porremmo dunque da un altro punto di vista per discernere se tale ricerca della voluttà sia morale o meno. Considereremo la questione secondo la nostra propria concezione della vita - come individualisti, "a modo nostro". Esamineremo se tale o talaltra pratica privi chi la compie del suo autocontrollo, o intacchi la sua personalità. In altre parole, l'essenziale per noi è che, una volta provato il godimento e raggiunto il piacere, l'individuo si ritrovi nel pieno possesso della sua individualità. Importa poco allora come il piacere viene generato o creato, purché vi sia stato piacere - mutuo piacere, piacere isolato o associato, piacere ottenuto senza costrizione o inganno, piacere sottomesso alla volontà di colui o di coloro che lo ricercano, lo realizzano, lo raffinano, lo complicano persino. Se i mezzi di godimento denunciati come viziosi, esecrabili, non conformisti, fuori dalla natura, non sminuiscono colui o coloro che se ne servono o ne approfittano, sono NORMALI: altrimenti sono anormali. Questo non ha niente a che vedere con il grado di ripugnanza o di orrore che possono ispirare a dei cervelli che pensano o ragionano sotto l'influenza dell'educazione religiosa o laica, che credono al peccato originale o quello civico. L'individuo normale è per noi colui che per vivere, da solo o insieme ad altri, per vivere la propria vita, l'intera sua vita, sia abbastanza se stesso da considerare come inutile la morale imposta dagli agenti della Chiesa o dagli impiegati dello Stato.

domenica 24 agosto 2025

Global Sumud Flotilla – Resistere per esistere

Dal Mediterraneo a Gaza: la più grande flottiglia civile mai organizzata per denunciare il genocidio e portare solidarietà al popolo palestinese

In questo momento drammatico della storia umana assistiamo al genocidio dei palestinesi di Gaza, e da questa parte del Mediterraneo ci sentiamo impotenti. Possiamo protestare, manifestare, boicottare prodotti e servizi legati a Israele, ma resta la sensazione di non riuscire a fermare una violenza che sembra inarrestabile. È difficile credere che un popolo possa essere annientato con tale crudeltà in nome di Dio, o nel nome di un unico modo di pensare e vivere il mondo.

Intanto, il fanatismo cresce non solo in una larga parte della società israeliana e della diaspora ebraica, ma anche fra alcuni dei nostri connazionali, che sostengono apertamente uno Stato impegnato in un processo di colonizzazione sistematica. Case, scuole, ospedali, uomini, donne e bambini vengono cancellati da quella che molti ancora oggi insistono a chiamare “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Il tragico attentato del 7 ottobre è stato trasformato in vendetta, non in giustizia.

I dati sono drammatici: secondo un’indagine congiunta di +972 Magazine, Local Call e The Guardian, basata su un database interno dei servizi segreti israeliani, almeno l’83% dei palestinesi uccisi durante l’offensiva su Gaza erano civili. Le autorità di Gaza, citate da Al-Jazeera, denunciano che tra gli oltre 62.000 morti dall’inizio delle operazioni militari israeliane, il 7 ottobre 2023, ci sono almeno 18.885 bambini. A questo si aggiunge il blocco degli aiuti umanitari: l’ONU ha dichiarato che, solo da maggio, 1.760 palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano cibo o beni di prima necessità.

La distruzione sistematica emerge anche in episodi apparentemente paradossali: come rivelato dal Guardian, le Forze di Difesa Israeliane hanno pubblicato inserzioni su Facebook per reclutare autisti di bulldozer destinati alla demolizione delle abitazioni di Gaza.

Di fronte a tutto questo, l’Europa appare paralizzata, incapace di decisioni univoche, mentre le Nazioni Unite si limitano a richiami formali senza conseguenze concrete. Con il sostegno politico di figure come Donald Trump, il premier israeliano Netanyahu porta avanti indisturbato la sua politica di occupazione e colonizzazione.

In questo scenario tremendo, noi che crediamo nel dovere di “restare umani” ci chiediamo se ci siano azioni concrete capaci di portare aiuto a una popolazione che, proprio perché continua a esistere, continua anche a resistere.

“Sumud” è una parola araba intraducibile con un solo termine. Racchiude fermezza, perseveranza, resilienza e resistenza. Non indica la lotta armata, ma un atteggiamento di forza silenziosa e ostinata. Per i palestinesi rappresenta al tempo stesso un simbolo nazionale, una strategia politica e un valore culturale.

Sumud è oggi anche il nome della più grande missione marittima civile mai tentata verso Gaza: la Global Sumud Flotilla.

La flottiglia partirà da Barcellona e da due porti italiani, con decine di imbarcazioni, il coinvolgimento di attivisti in 44 Paesi, una campagna coordinata a terra e l’obiettivo dichiarato di rompere il silenzio internazionale sul blocco e sulla negazione degli aiuti umanitari.

Già lo scorso giugno la coalizione aveva promosso una mobilitazione globale via terra, mare e aria. Ora, con un coordinamento internazionale senza precedenti, persone comuni — attivisti, medici, operatori umanitari, artisti, religiosi, avvocati, marinai — si sono unite nella convinzione della dignità umana e della forza dell’azione nonviolenta. «Pur provenendo da Paesi, fedi e convinzioni politiche diverse, siamo uniti da una verità comune: l’assedio e il genocidio devono finire. Siamo indipendenti, internazionali e non affiliati ad alcun governo o partito politico. La nostra fedeltà è alla giustizia, alla libertà e alla sacralità della vita».

Come racconta Maria Elena Delia, membro dello Steering Committee e referente per l’Italia del Global Movement to Gaza, il progetto nasce a seguito della Global March to Gaza, dove si è formata una rete internazionale coesa e competente. «Da qui è nata l’idea di un’azione via mare con un ordine di grandezza inedito anche per Israele. Il 31 agosto salperanno barche da Barcellona e da un porto del Nord Italia. Il 4 settembre partiranno altre imbarcazioni dalla Tunisia e dal Sud Italia». Questi percorsi si affiancano ai due corridoi principali già annunciati, definendo il profilo logistico dell’operazione nel Mediterraneo centrale.

Intanto, molti artisti e personalità pubbliche stanno diffondendo messaggi di sostegno sui social. Se i media tradizionali – non solo italiani – tendono a non dare spazio a Gaza e alle iniziative di solidarietà, possiamo essere noi a colmare questo vuoto: condividendo le informazioni, sostenendo i naviganti coraggiosi con donazioni e offrendo loro quella visibilità che rafforza non solo la loro missione, ma anche la nostra stessa coscienza civile.

  

Errico Malatesta – Sulla violenza

 

Gli anarchici sono contro la violenza. È cosa nota. L'idea centrale dell'anarchismo è l'eliminazione della violenza dalla vita sociale; è l'organizzazione dei rapporti sociali fondati sulla libera volontà dei singoli, senza l'intervento del gendarme. Perciò siamo nemici del capitalismo che costringe, appoggiandosi sulla protezione dei gendarmi, i lavoratori a lasciarsi sfruttare dai possessori dei mezzi di produzione o anche a restare oziosi ed a patire la fame quando i padroni hanno interesse a sfruttarli. Perciò siamo nemici dello Stato che è l'organizzazione coercitiva, cioè violenta, della società. La violenza è giustificabile solo quando è necessaria per difendere se stesso e gli altri contro la violenza. Dove cessa la necessità comincia il delitto.... Lo schiavo è sempre in istato di legittima difesa e quindi la sua violenza contro il padrone, contro l'oppressore, è sempre moralmente giustificabile e deve essere regolata solo dal criterio dell'utilità e dell'economia dello sforzo umano e delle sofferenze umane. (E. Malatesta da Umanità Nova, 25 agosto 1921)

La violenza anarchica è la sola che sia giustificabile, la sola che non sia criminale. Parlo naturalmente della violenza che ha davvero i caratteri anarchici, e non di questo o quel fatto di violenza cieca ed irragionevole che è stato attribuito agli anarchici, o che magari è stato commesso da veri anarchici spinti al furore da infami persecuzioni, o accecati, per eccesso di sensibilità non temperato dalla ragione, dallo spettacolo delle ingiustizie sociali, dal dolore per il dolore altrui. La vera violenza anarchica è quella che cessa dove cessa la necessità della difesa e della liberazione. Essa è temperata dalla coscienza che gli individui presi isolatamente sono poco o punto responsabili della posizione che ha fatto loro l'eredità e l'ambiente; essa non è ispirata dall'odio ma dall'amore; ed è santa perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione del proprio dominio a quello degli altri. (E. Malatesta da Pensiero e Volontà - 1 settembre 1924) Vi possono essere dei casi in cui la resistenza passiva è un'arma efficace, ed allora sarebbe certamente la migliore delle armi, poiché sarebbe la più economica di sofferenze umane. Ma, il più delle volte, professare la resistenza passiva significa rassicurare gli oppressori contro la paura della ribellione, e quindi tradire la causa degli oppressi. È curioso osservare come i terroristi ed i tolstoisti, appunto perché sono gli uni e gli altri dei mistici, arrivano a conseguenze pratiche pressoché uguali. Quelli non esiterebbero a distruggere mezza umanità pur di far trionfare l'idea; questi lascerebbero che tutta l'umanità restasse sotto il peso delle più grandi sofferenze piuttosto che violare un principio. (E. Malatesta da Anarchia - Londra, agosto 1896)

giovedì 21 agosto 2025

La buona e la cattiva reputazione

 

Se l’opinione ti giudica simpatico, bello, intelligente, vivresti meglio? Se essa ti stima stupido, squallido, infame, vivresti peggio? Nel caso affermativo, bisogna, di fatto, che ti preoccupi degli altri perché tu esisti per loro, gli appartieni, hai bisogno di sedurre, di opprimere, di ubbidire, di sfuggirti. Se no, lascia correre e che si appannino le immagini prefabbricate della tua buona e cattiva reputazione. Non sarà più necessario mentirti se non ti preoccuperai più di apparire, di metterti in posa per la famiglia e per la storia, di tremare davanti a questo riflesso che è solo la tua rappresentazione estranea. L’opinione ha i suoi assassini e le sue prigioni? Quando cominceremo ad abbattere le prigioni interiori e gli assassini imboscati del super-io, quelli esterni cadranno come la Bastiglia. Si arriva a tutto se non si dubita di niente. Non sono unico per sempre che in me e per me. La vostra fretta a decifrarmi maneggia con troppa facilità lo scalpello dell’autopsia e della disinibizione. Non c’è migliore curiosità della mia stessa curiosità verso di me. E anche se la tua tenerezza mi aiuta a vedere più chiaramente non sono ancora il solo che può tirar fuori qualche luce dall’ombra? Niente mi piace di più che vedere gli esseri e le passioni armonizzarsi in me e intorno a me. Aspiro a delle affinità che si legano e si slegano senza rotture, secondo il ritmo capriccioso dei desideri, sfuggendo nella gratuità più assoluta ai tics ombrosi della volontà di potenza, e senza che il riflesso della frustrazione imponga la sua grinfia di amarezza sull’assenza di una persona cara. Che ognuno conservi i suoi gusti e i suoi disgusti, i suoi accordi e i suoi disaccordi, o che li cambi, poco importa, purché regni l’esuberanza della vita e non la morte che si annuncia da tutte le separazioni.


lunedì 18 agosto 2025

Errico Malatesta - La divisione del lavoro

 

Noi ammettiamo certamente la divisione del lavoro e ne apprezziamo i vantaggi; ma ne conosciamo pure i danni ed i pericoli. La divisione del lavoro è stata una fra le cause dell'assoggettamento delle masse al dominio delle caste privilegiate. E col principio della divisione del lavoro si può tentare la giustificazione di tutte le mostruosità sociali: divisione tra lavoro mentale e lavoro manuale, divisione tra il lavoro di direzione è quello di esecuzione, divisione tra il lavoro di produzione e quello di difesa dei produttori... che poi si riassumono e si concretano nella divisione tra il lavoro di mangiare e quello di produrre, tra il lavoro di bastonare e quello di farsi bastonare. Menenio Agrippa conosceva già quest'argomento. Noi crediamo che carattere essenziale, non solo dell'anarchismo ma del socialismo in genere, sia il volere che certe funzioni debbano appartenere indistintamente a tutti i membri della società, malgrado i vantaggi tecnici che vi potrebbero essere nell'affidarle ad una classe speciale. Si divida pure il lavoro fino a che si può, per aumentare la produzione è facilitare il funzionamento della vita sociale: ma sian salvi innanzi tutto l'integrale sviluppo e l'eguale libertà di tutti gli individui.

(E. Malatesta da "Agitazione", 1897)

sabato 16 agosto 2025

L’uomo come essere astratto

 

A differenza dell’animale che conosce d’istinto il mondo materiale che gli appartiene e che gli è necessario – così l’uccello migratore conosce il Sud, e la vespa conosce la sua preda – l’uomo non prevede il proprio mondo. Ne possiede solo un a priori formale. L’uomo non è fatto per nessun mondo materiale, non può anticiparlo nella sua determinazione, deve piuttosto imparare a conoscerlo “après coup”, a posteriori, ha bisogno dell’esperienza. La sua relazione con una determinazione fattuale del mondo è relativamente fragile, egli si trova nell’attesa del possibile e del qualunque. Nessun mondo gli è effettivamente imposto (come, viceversa, a qualsiasi animale è imposto un ambiente specifico), al contrario, egli trasforma il mondo e, con mille varianti storiche e come una sorta di sovrastruttura, vi edifica ora un “secondo mondo”, ora un altro. Infatti, per offrirne una definizione paradossale, l’artificialità è la natura dell’uomo e la sua essenza è l’instabilità. Le costruzioni pratiche dell’uomo, così come le sue facoltà teoriche di rappresentazione, testimoniano della sua astrazione. Non solo deve, ma può anche fare astrazione dal fatto che il mondo è così com’è: poiché lui stesso è un essere “astratto”: non è solo parte del mondo (è di questo aspetto che si occupa il materialismo), ma è anche “escluso” da esso, “non di questo mondo”. L’astrazione – vale a dire, la libertà di fronte al mondo, il fatto di essere tagliato per la generalità e l’indeterminato, il ritiro dal mondo, la pratica e la trasformazione di questo mondo – è la categoria antropologica fondamentale, che rivela la condizione metafisica dell’uomo e, insieme, il suo ?????, (parola , discorso) la sua produttività, la sua interiorità, il suo libero arbitrio, la sua storicità.

giovedì 14 agosto 2025

La pena di morte – Errico Malatesta

 

Nell'autunno di 55 anni fa, all'indomani dell'attentato Zamboni, il regime fascista si preparava a reintrodurre quella pena di morte che vi era stata cancellata fin dal 1889 (codice Zanardelli). Per la rivista Pensiero e volontà, di cui era redattore, l'anziano militante anarchico Errico Malatesta scrisse questo articolo, che però non poté esservi pubblicato... a causa della soppressione di tutta la stampa d'opposizione: apparve invece su Il risveglio anarchico (Ginevra), n.867 dell'11 febbraio 1933 - quasi un anno dopo la morte di Malatesta.

Pare quasi certo che in Italia sarà ristabilita la pena di morte.

È naturale. Ognuno, individuo o collettività, si difende come sa e può. Chi non riesce ad assicurare la sua esistenza e la sua libertà di sviluppo, conquistando il consenso, la cooperazione, l'amore degli altri mediante la reciprocità dei benefici e della simpatia, deve affidarsi alla violenza, alla forza bruta. E allora, per chi ne ha il potere, il mezzo più spiccio, se non sempre il più sicuro, per garantirsi contro i possibili pericoli è quello di sopprimere i propri nemici: il massacro se si hanno contro delle masse, la pena di morte se si ha da fare con degli individui. Può disdegnare il ricorso alla violenza chi si sente veramente forte, moralmente o materialmente; ma chi non è sicuro di sé, è sempre, pur nello sfolgorio della sua apparente potenza, tormentato dalla paura, è fatalmente condannato a tremare - e perciò è violento. Noi che auspichiamo la pace e la fratellanza fra tutti gli esseri umani, noi che consideriamo un progresso - il migliore dei progressi - ogni addolcimento dei costumi, ogni trionfo della forza morale sulla forza materiale, non possiamo che fremere d'orrore a quest'altro passo indietro verso la barbarie. Ma questi sono tempi ferrigni, tempi "romani", ed i nostri sentimentalismi faran sorridere di disprezzo i fautori dell'Italia imperiale. Non ripeteremo gli argomenti classici contro la pena di morte. Essi ci paion menzogne, quando li sentiamo sostenere da chi è poi partigiano dell'ergastolo ed altri disumani surrogati della pena di morte. Né parleremo della "santità della vita umana" che tutti affermano, e tutti violano all'occasione, sia infliggendo direttamente la morte, sia trattando gli altri in modo da tormentare ed abbreviare la loro vita. Vi sono - pochi per fortuna, ma vi sono certamente - degli uomini, nati o diventati dei mostri morali, sanguinari e sadici, di cui non sapremmo compiangere la morte. Quando questi disgraziati fossero un pericolo continuo per tutti e non vi fosse altro modo di difendersi che l'ucciderli, si potrebbe anche ammettere la pena di morte. Ma il guaio si è che per applicare la pena di morte ci vuole il boia. Ora il boia è, o diventa un mostro; e, mostro per mostro, è meglio lasciar vivere quelli che vi sono, anziché crearne degli altri. E questo s'intende per i veri delinquenti, esseri anti-sociali che non riscuotono nessuna simpatia e non provocano nessuna commiserazione. Che se si tratta della pena di morte come mezzo di lotta politica, allora... allora la storia ci dice quali possono essere le conseguenze. Ecco. Noi siamo dei cosmopolitani, noi amiamo tutti i paesi come amiamo l'Italia; noi ci rallegriamo di ogni gioia ed ogni gloria umana, come soffriamo per ogni dolore ed ogni vergogna umana, senza distinzione di razza o di nazionalità - e per questo siamo considerati anti-patrioti ed anti-nazionali. Eppure, forse per atavismo, forse per la maggiore solidarietà che naturalmente ci lega a quelli che ci stanno più vicini, noi non sapevamo liberarci da un senso di orgoglio quando credevamo di poter dire: In terra d'Italia non alligna il boia. Dovremo rinunziare anche a questa illusione? a questo residuo orgoglio nazionale?


lunedì 11 agosto 2025

Errico Malatesta – Comunismo e individualismo

 

Ma per essere anarchici non basta volere l'emancipazione del proprio individuo, ma bisogna volere l'emancipazione di tutti; non basta ribellarsi all'oppressione, ma bisogna rifiutarsi di essere oppressori; bisogna comprendere i vincoli di solidarietà, naturale o voluta, che legano gli uomini tra di loro, bisogna amare i propri simili, soffrire dei mali altrui, non sentirsi felici se si sa che altri sono infelici. E questa non è questione di assetti economici: è questione di sentimenti, o, come si dice teoricamente, questione di etica. Da tali principi e tali sentimenti, comuni malgrado il diverso linguaggio, a tutti gli anarchici, si tratta di trovare ai problemi pratici della vita le soluzioni che meglio rispettano la libertà e meglio soddisfano i sentimenti di amore e di solidarietà. Quegli anarchici che si dicono comunisti (ed io mi metto tra essi) sono tali non perché vogliano imporre il loro speciale modo di vedere o credano che fuori di esso non vi sia salvezza, ma perché sono convinti, fino a prova in contrario, che più gli uomini sono affratellati e più intima è la cooperazione dei loro sforzi a favore di tutti quegli associati, più grande è il benessere e la libertà di cui ciascuno può godere. L'uomo, essi pensano, se anche è liberato dall'oppressione dell'uomo, resta sempre esposto alle forze ostili della natura, ch'egli non può vincere da solo, ma può col concorso degli altri uomini dominare e trasformare in mezzi del proprio benessere. Un uomo che volesse provvedere ai suoi bisogni materiali lavorando da solo, sarebbe lo schiavo del suo lavoro. Un contadino, per esempio, che volesse coltivare da solo il suo pezzo di terra, rinuncerebbe a tutti i vantaggi della cooperazione e si condannerebbe ad una vita miserabile: non potrebbe concedersi periodi di riposo, viaggi, studi, contatti colla vita molteplice dei vasti aggruppamenti umani... e non riuscirebbe sempre a sfamarsi. È grottesco pensare che degli anarchici, per quanto si dicano e siano comunisti, vogliano vivere come in un convento, sottoposti alla regola comune, al pasto ed al vestito uniformi, ecc.; ma sarebbe egualmente assurdo il pensare ch'essi vogliano fare quello che loro piace senza tener conto dei bisogni degli altri, del diritto di tutti ad una eguale libertà. Tutti sanno che Kropotkin, per esempio, il quale fu tra gli anarchici uno dei più appassionati ed il più eloquente propagatore della concezione comunista, fu nello stesso tempo grande apostolo dell'indipendenza individuale e voleva con passione che tutti potessero sviluppare e soddisfare liberamente i loro gusti artistici, dedicarsi alle ricerche scientifiche, unire armoniosamente il lavoro manuale a quello intellettuale per diventare uomini nel senso più elevato della parola. Di più, i comunisti (anarchici, s'intende) credono che a causa delle differenze naturali di fertilità, salubrità e posizione del suolo, sarebbe impossibile assicurare individualmente a ciascuno eguali condizioni di lavoro e realizzare, se non la solidarietà, almeno la giustizia. Ma nello stesso tempo essi si rendono conto delle immense difficoltà per praticare, prima di un lungo periodo di libera evoluzione, quel volontario comunismo universale che essi considerano quale l'ideale supremo dell'umanità emancipata ed affratellata. ed arrivano quindi ad una conclusione che potrebbe esprimersi colla formula: quanto più comunismo è possibile per realizzare il più possibile di individualismo, vale a dire il massimo di solidarietà per godere il massimo di libertà.

D'altra parte gli individualisti (parlo, si intende, sempre degli anarchici) per reazione contro il comunismo autoritario - che è stato nella storia la prima concezione che si è presentata alla mente umana di una forma di società razionale e giusta e che ha influenzato più o meno tutte le utopie e tutti i tentativi di realizzazione - per reazione, dico, contro il comunismo autoritario che in nome dell'eguaglianza inceppa e quasi distrugge la personalità umana, hanno dato la maggiore importanza al concetto astratto di libertà e non si sono accorti o non vi hanno insistito, che la libertà concreta, la libertà reale è condizionata dalla solidarietà, dalla fratellanza e dalla cooperazione volontaria. Sarebbe nullameno ingiusto il pensare che essi vogliono privarsi dei benefizi della cooperazione e condannarsi ad un impossibile isolamento. Essi comprendono certamente che il lavoro isolato è impotente e che l'uomo, per assicurarsi una vita umana e godere materialmente di tutte le conquiste della civiltà, o deve sfruttare direttamente o indirettamente il lavoro altrui e prosperare sulla miseria dei lavoratori, o associarsi coi suoi sibili e dividere con essi i pesi e le gioie della vita. E siccome essendo anarchici non possono ammettere lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, debbono necessariamente convenire che per esser liberi e vivere da uomini bisogna accettare un grado ed una forma qualsiasi di comunismo volontario.

(E. Malatesta da Pensiero e Volontà, 1 Aprile 1926)

venerdì 8 agosto 2025

Utilizzo del territorio come pratica di resistenza

L’urbanismo unitario prevedeva un utilizzo del territorio come pratica di resistenza ed opposizione alle strategie di pianificazione dell’urbanismo razionalista considerato colpevole, agli occhi dei situazionisti, di costruire città alienanti per l’individuo e la società. L’urbanismo unitario era un vero e proprio programma di guerriglia, estetica, funzionale e politica, che coinvolgeva e sconvolgeva il tessuto urbano. Rispetto ad un fare tecnocratico, di manipolazione degli esseri umani come cose, realizzato dalla pianificazione degli urbanisti razionalisti che guardavano e progettavano strategicamente la città “dal di fuori”, i situazionisti lavoravano sulla città tatticamente “dall’interno”. I situazionisti negavano i valori pratici dell’urbanistica razionalista (gli spazi progettati come pre-determinati all’uso) a favore di una valorizzazione ludica, di libero gioco e di libero utilizzo della città preferendo gli spazi d’uso semi-determinati e informali. Questa valorizzazione portava ad un congiungimento del soggetto con il suo oggetto di valore che dava luogo, a sua volta, ad una valorizzazione utopica degli spazi urbani, ovvero ad una costruzione di una nuova società attraverso l’unione realizzata tra città e abitanti: da qui il termine urbanismo unitario. Tale unione avrebbe dovuto portare ad un cambiamento radicale e irreversibile della loro identità comune. Come diceva un celebre slogan situazionista scritto sui muri di Parigi durante i giorni del Maggio francese: “niente sarebbe stato più come prima”. Gli studi sul nomadismo e sugli accampamenti degli zingari furono un preludio fondamentale sia alla nascita stessa dell’Internazionale Situazionista, sia al progetto di New Babylon, la città situazionista progettata da Constant. New Babylon era per i situazioni la realizzazioni di un nuovo modello di città, la concretizzazione delle loro teorie sull’urbanismo unitario. New Babylon, nelle intenzioni dei situazionisti sarebbe stata una città composta da parti mobili, modulari, ricombinabili. Una sorta di enorme sovrastruttura abitativa, una enorme rete, un rizoma, che avrebbe ricoperto l’intera sfera terrestre con delle megastrutture ludiche. Si trattava, per Costant e per i situazionisti, di creare un labirinto dinamico in perpetua trasformazione.