Quotidianamente il potere viene
percepito come un’entità esterna al corpo sociale. Esso viene percepito come
qualcosa da conquistare per coloro che lo bramano, convinti che grazie a esso
potranno affrancarsi dal dovere di obbedire a qualcuno e poter finalmente
comandare. Per quelli che non amano essere comandati, ma nemmeno comandare,
il potere è invece il leviatano da sconfiggere, il palazzo da abbattere. Il
mondo si divide così, semplicisticamente, fra chi lotta per il potere e chi
lotta contro il potere. Nel mezzo rimane chi passivamente il potere lo
subisce, così come subisce le lotte che lo circondano. Questa è però una
visione fittizia, è il prodotto di una cultura particolare, di una cultura
creata e strutturata da e per il dominio, è il prodotto della nostra cultura.
Se appena usciamo dalle classificazioni e dagli schemi che caratterizzano e
danno un senso al conflitto, così come lo percepiamo oggi, ci rendiamo conto
che il potere, lungi da essere un’entità malvagia e repressiva che opprime la
società, rappresenta una proprietà, una capacità intrinseca a ogni essere
umano e scorre all’interno del corpo sociale, non al di fuori di esso. Il
potere è la capacità che ogni essere umano ha di contribuire al complicato
processo di strutturazione dei soggetti e delle strutture sociali, attraverso
l’instaurazione continua e mutevole di rapporti con gli altri individui. In
questo senso il potere non è più, evidentemente, solo repressivo. A seconda
dei rapporti che instauriamo con gli altri individui, e di conseguenza a
seconda delle definizioni dei ruoli sociali, il nostro potere potrà essere
creativo e funzionale a pratiche di liberazione. Nel momento in cui, però, la
brama di veder realizzato a tutti i costi il nostro modello dei rapporti e
dei ruoli sociali prende il sopravvento, cerchiamo di escludere gli altri da
questo processo di definizione dell’esistente. Quando questa esclusione ha
successo, il potere verrà esercitato solo da alcuni individui, i quali si
arrogheranno il diritto e la capacità di definire ruoli e rapporti sociali di
tutti. In questo modo si concretizza il dominio dell’uomo sull’uomo, così
come dell’uomo sugli altri animali e sulla natura. Questo è il motivo per cui
è andata persa la consapevolezza di un potere creativo e la percezione quotidiana
è quella di un potere minaccioso e repressivo. Il problema vero è che una
definizione particolare dei ruoli sociali tenderà a fornire una visione
particolare del reale, funzionale a mantenere stabili tali ruoli. In altre
parole, la nostra società ha culturalmente consolidato il concetto per cui il
fondamento del legame sociale è l’obbligo politico, ossia il dovere di
obbedienza. Questa discriminante fondante ha prodotto uno spazio
dell’immaginario caratterizzato da regole proprie e incompatibile per definizione
con altri immaginari, altre rappresentazioni culturali che non postulino il
dovere di obbedienza come matrice dei rapporti sociali. Uno degli effetti più
immediati di questo spazio dell’immaginario sulle nostre “teste” è, per
esempio, l’ipotesi repressiva del potere da cui siamo partiti. Ma molto dei
significati che assegniamo alle cose, alle parole, ai rapporti che
costruiamo, è il prodotto di tale rappresentazione del reale che come
un’ameba cerca di occupare tutto lo spazio dell’esistente significante.
All’interno di questo panorama desolante le pratiche di autogestione si
propongono di scardinare, attraverso pratiche indipendenti e la conseguente
produzione di un pensiero autonomo, lo spazio dell’immaginario del dominio e
riconsegnare il potere di contribuire alla classificazione formale dei ruoli
sociali a ciascun individuo. Si propone di far riscoprire agli individui il
vero obbligo sociale contrapposto a quello politico. Si propone ossia di
ricordare l’obbligo che il genere umano ha, in quanto animale sociale, di
darsi delle norme di relazione interindividuali. Paradossalmente, da questo
obbligo nasce però la specifica libertà dell’uomo. La libertà di poter
scegliere le norme che regolano le relazioni sociali, di poter definire la
classificazione dei ruoli che meglio soddisfa le esigenze dei singoli
individui in una situazione data. Ma anche, e soprattutto, la libertà di
poter mettere in discussione e cambiare tali norme e tali classificazioni.
Importante è infatti ricordare sempre che ogni sistema di classificazioni
produrrà uno spazio dell’immaginario sovrastante che una volta sviluppatosi
renderà possibile la significazione dell’esistente con le enormi conseguenze
che questo comporta. Sarà fondamentale quindi evidenziare in ogni momento questo
collegamento per poter individuare, di volta in volta, il modo in cui i
rapporti che intratteniamo e i ruoli che definiamo influenzino la
determinazione dei soggetti e delle strutture sociali che costituiscono la
facciata visibile e percepibile del reale. Una società sarà allora uguale
quando tutti eserciteranno il loro potere e libera quando si rinuncerà a dare
una definizione valida sempre alla libertà. La libertà dell’uomo consiste
proprio nel poter ricercare sempre una nuova definizione di libertà. Qualsiasi
tentativo di definizione universale si risolverebbe necessariamente in una
forma di espropriazione, prevaricazione e oppressione. |
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sabato 6 luglio 2024
Ricercare sempre una nuova definizione di libertà
martedì 2 luglio 2024
Molti sono gli strumenti atti a modificare la coscienza
lunedì 24 giugno 2024
Comunitarismo libertario e democrazia diretta
Kropotkin è colui che più d’ogni altro ha sviluppato la tematica comunitaria, il principio fondamentale del mutuo appoggio. Secondo lui, la cooperazione che scaturisce da questo valore, e non la lotta spietata per la sopravvivenza (come enunciato nelle tesi darwiniane), è il fattore fondamentale dell’evoluzione. Inoltre, Kropotkin ritiene che un nuovo assetto sociale non debba scaturire da una rivoluzione che elida il passato, bensì dai principi libertari già operanti nella realtà sociale. Passiamo poi a P. Goodman, è vediamo come la sua analisi sia caratterizzata in senso fortemente comunitario, sempre alla ricerca dell’individuazione di una struttura politica che possa coniugare individualità, comunità e giustizia universale, trovandola nell’archetipo delle piccole unità territoriali delineate da Kropotkin in Campi, fabbriche e officine, e in parte realizzatesi nell’America del periodo degli Articoli di Confederazione. Il suo progetto politico, fatto di azioni che diano luogo a piccole riforme e lievi miglioramenti, fa di lui un gradualista, un non rivoluzionario la cui opera è costantemente tesa da una parte alla difesa e all’allargamento delle libertà individuali prodotte dalla modernità, dall’altra alla ripresa della tradizione comunitaria premoderna. Per quanto riguarda poi l’approccio di C. Ward, esso è costantemente teso a focalizzare le “questioni che ci legano gli uni agli altri, come il bisogno di alloggi e di cibo e la produzione di beni e servizi”. Pertanto, la sua analisi lucida e ficcante delle situazioni concrete, delle modalità “non-ufficiali” con cui la gente si organizza nell’utilizzare l’ambiente, tanto quello urbano quanto quello rurale, ci aiuta a scorgere la comunità libertaria e il mutuo appoggio che la fonda, nella concretezza di esperienze di vita autogestite che spesso si formano in quelle pieghe della società dimenticate o “sfuggite” al controllo autoritario degli enti statali. Ecco allora che “la questione di fondo”, secondo Ward, “non è quella di stabilire se l’anarchia sia possibile o meno, ma piuttosto se sia possibile allargare il campo d’azione e l’influenza dei metodi libertari, fino al punto che essi diventino i criteri normali coi quali gli esseri umani organizzano la loro convivenza”. Finiamo con M. Bookchin, egli affronta la tematica comunitaria dal punto di vista filosofico-politico, dandole in particolare una connotazione ecologica. Padre dell’ecologia sociale, secondo lui una società ecologica può nascere solo dalla fine dei rapporti di dominio dell’uomo sull’uomo, abolendo di conseguenza le istituzioni fondate sul rapporto comando/obbedienza. Egli arriva a questa conclusione svolgendo un’analisi storico-filosofica delle epistemologie del dominio. |
giovedì 20 giugno 2024
Il Dominio della tecnica
domenica 16 giugno 2024
L’infanzia di Proudhon
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Proudhon, quinto figlio di
Claude-Francois e di Cathérine Simonin, è nato a Besançon il 15 gennaio 1809
nel quartiere popolare di Battant. Il padre, vignaiolo, bottaio, garzone di
birreria e, per qualche tempo, birraio in proprio, era cugino di Franwis-Victor
Proudhon, ricco e famoso giurista di Digione, e apparteneva a un ramo cadetto
della stessa famiglia. Di intelligenza comune, ma di onestà rigidissima,
quando gestì una birreria si rovinò perché vendeva la birra a un prezzopiù
basso, ma a suo parere più giusto di quello corrente; e perché rifiutava
l'ingresso alle donne per non tener mano alla prostituzione, con la quale
altri birrai si arricchivano. Circa la condotta del padre Proudhon scrisse:
«Sentivo perfettamente ciò che vi era di leale e di regolare nel metodo di
mio padre, ma vedevo tuttavia anche i rischi che ne derivavano. La mia
coscienza approvava la prima considerazione, il sentimento della mia
sicurezza mi spingeva verso la seconda. Fu per me un enigma». La madre,
servente nella birreria nella quale era occupato il marito, poi votata a
umili lavori, era una donna di grandi virtù e di carattere esemplare. Era
figlia di una singolare figura di popolano, Jean Claude Simonin detto
Tournési, sempre in lotta, in nome della giustizia, mai dell'interesse
personale, contro la prepotenza dei signori e dei loro guardiani. La
formazione morale di Proudhon deve molto — egli ne fu consapevole e ne
scrisse in termini di profonda umanità — alla madre e al nonno, cui
assomigliava fisicamente, e del quale la madre gli raccontava le imprese.
Dopo un'infanzia passata a custodire vacche, a servire in birreria, entra nel
1820 nel collegio di Besançon come allievo esterno, grazie alla borsa
ottenuta con l'aiuto di un amico dei genitori. Nonostante le difficoltà materiali
e psicologiche della sua posizione sociale, egli fu uno degli allievi
migliori. Ma povero in mezzo a ricchi, costretto a farsi prestare i libri, a
lasciare sulla soglia dell'aula gli zoccoli che calzava per non fare rumore,
a subire amare delusioni come quella di un giorno in cui, tornato a casa dopo
aver ottenuto una menzione onorevole, non trovò di che mangiare, esperimentò
duramente l'inferiorità sociale che lo separava dagli altri ragazzi, senza
tuttavia piegarsi. Si chiedeva «che cosa fosse la povertà, questo male di cui
si sentiva innocente». Perse la fede religiosa leggendo, nel 1824, il Traité
de l'existence de Dieu di Fenelon, e cercò da solo, col suo pensiero, la sua
via. Nel 1827, ormai prossimo al baccalaureato, dovette abbandonare la scuola
per aiutare la famiglia. Si occupò presso una tipografia di Besançon, e
trovava nel lavoro, e nel bastare a sé stesso, una profonda soddisfazione.
Correggeva bozze, componeva libri, e leggeva moltissimo, in specie opere di
teologia, e soprattutto la Bibbia. Studiò l'ebraico per approfondire la
conoscenza del cristianesimo.
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sabato 8 giugno 2024
Malatesta e la libertà
venerdì 7 giugno 2024
Elezioni europee 2024
Sottraiamoci allora anche noi al rito liberticida che si consuma sotto i nostri occhi e all’indifferenza che nutre l’asservimento collettivo ai poteri forti della politica e dell’economia. Il sistema politico ed economico vigente merita solo un’ampia e radicale astensione.
mercoledì 30 agosto 2023
Perché continuare a delegare? (parte 2)
Non esistono governi buoni:
“...e come sarà mai possibile che il destino di
un Popolo stia in buone mani, quando la scelta de' ministri si farà da una corte
o mediatamente o immediatamente! Sarà un prodigio o un mero azzardo se verrà scelto
un uomo dabbene”. (Si è mai realizzato il prodigio? Quante altre ere storiche
sareste disposti ad aspettare prima di veder compiuto questo prodigio, se mai si
compirà? O lasciate che sia il caso a decidere per voi?)
Verri ragiona sulle varie possibilità di governo,
anche quello eletto dal popolo, non esclude nulla, e dopo aver preso in considerazione
persino l'utopia di un governo presieduto da un animo buono, dice:
“ma gli uomini anche buoni talvolta cessano di
essere tali, e il maggior pericolo di prevaricare è appunto quando sono rivestiti
di un pubblico potere”. (Non circola forse quel proverbio che dice “l'occasione
fa l'uomo ladro?”)
La cosa su cui insiste il Verri, in più punti del testo
e persino nel titolo, è anche il fatto che su questi argomenti egli non abbia studiato
alcun libro, come a dire che anche gli ignoranti sono capaci di decodificare questi
concetti:
“Queste sono le idee che non ho cavate dai libri
ma nella solitudine, ragionando con me medesimo, e scavando, come dissi, nel mio
cervello per trovarvi la verità”.
Alla fine del Settecento, l'idea di una “repubblica”
era paragonabile a quella di un'anarchia. La repubblica, nel suo originario
senso (oggi nascosto, cassato del tutto) veniva davvero considerata essenzialmente
un'utopia. Ed è rimasta un'utopia, visto
che oggi le repubbliche sono tali soltanto nominalmente (come le “democrazie”),
sono cioè diventate custodie in ottone lucidato
per contenervi subdole dittature. Ma il Verri adopera la parola “repubblica”
nel senso vero e originario, nell'idea anarchica di una gestione diretta e popolare della società. E dopo aver stabilito che
la forma migliore di governo è quella in cui il popolo detiene il controllo di tutto,
termina il discorso in questo modo:
“Se qualch’altro mi rimproverasse, perché nel
mio scritto non vi sia civismo, io mi limiterò a invitarlo, perché dia in questi
tempi alla Patria de’ consigli più opportuni de’ miei”.
Insomma, da allora
sono passati 227 anni, ci sembra che di governi ne abbiamo visti e sopportati
abbastanza. Aspettiamo ancora? E se non vi bastano 227 anni possiamo andare ancora
indietro nella Storia, dove troveremo un grande Etienne de la Boétie (XVI secolo) che parla in merito alla condizione
di “servitù
volontaria” del popolo, troveremo Diogene
(
domenica 27 agosto 2023
Perché continuare a delegare? (parte 1)
Ci dicono: “ma come potete ottenere l'anarchia se viviamo
circondati da gente mafiosa e profittatrice, aggressiva e malvagia? Siate realisti!”
Così ci dicono. Intanto, tra parentesi, facciamo notare quel “potete” che è come
dire: fate da soli che a noi non interessa (qualunquismo opportunista). Ma continuiamo.
La questione va ribaltata: quella stessa domanda che
in molti ci pongono, in realtà siamo noi per primi a rivolgergliela, lo facciamo
da sempre, e a ragion veduta. Quindi la ribadiamo ancora per tutti: “come potete voi, o elettori, continuare a credere
di trovare un vostro rappresentante, quando siamo circondati da vampiri malvagi
e profittatori?” Non sarete piuttosto voi gli utopisti, dal momento che non
è mai esistito nella storia un solo governo che abbia garantito al popolo pace,
giustizia, libertà? E come potrebbe? È un controsenso pretendere giustizia e libertà
da un'istituzione preposta al comando e al controllo della massa. Siate voi i realisti,
piuttosto.
È inutile cercare nella memoria, per davvero non è mai
esistito un solo governo che abbia restituito ai cittadini ciò che spetta loro,
ciò che apparteneva a loro per diritto naturale.
Semmai i governi tolgono, rubano alla gente, è il loro compito, sono servili strumenti
dello Stato. Se invece di cercare nella memoria cercassimo negli archivi, nelle
biblioteche, ci accorgeremmo che il lamento
del popolo è antico quanto lo Stato e i governi, ci si lamenta praticamente
da 3000 anni circa (prima vivevamo in florida anarchia). Ma guardateli bene i libri
di storia scolastici, cercatene il sottotesto, non sono altro che la summa delle
lotte per la sopravvivenza dei popoli che protestano contro tutti i governi e che,
con l'inganno, vengono mandati a morire per conto dei sovrani (ma astutamente alla
gente viene detto che si muore “in nome del popolo sovrano” e di una “libertà”che
però rimane sempre un'utopia).
In Italia la storia dei lamenti del popolo va ben oltre
il 1861. Se andiamo indietro nel tempo ci accorgiamo che i governi regionali, di
qualsiasi natura e nome, hanno avuto le stesse caratteristiche dei governi attuali
sedicenti “democratici”. Eletti o non eletti, i sovrani e i ministri non fanno altro
che opprimere il popolo, derubandolo. E saremmo noi anarchici i sognatori e gli
utopisti? In poco più di centocnquanta anni (dalla Comune di Parigi), nonostante
tutti gli ostacoli, tutte le censure, tutti i soprusi che ci tocca subire, abbiamo dimostrato più volte cosa voglia dire
governo del popolo, pace, giustizia e libertà. La stessa cosa non si può dimostrare
in 3000 anni di sistema statale. Fate voi. (valga questo esempio per tutti).
Ma prendiamo soltanto il governo di Milano subito dopo
gli anni della Rivoluzione francese, nel 1796, cioè 65 anni prima dell'unità d'Italia. È stato ritrovato un testo di quell'anno,
scritto da Pietro Verri (filosofo, economista,
storico, politico) per la rivista “Termometro politico della Lombardia”, dal titolo
“Pensieri
d'un buon vecchio, che non è letterato”, che è una raccomandazione al popolo
milanese e in cui Verri evidenzia le stesse nefandezze che tutti noi denunciamo
oggi circa i ministri e i loro governi.
Copiamo pari pari, anche la punteggiatura, partendo dall'inganno
della rappresentatività. Dice Pietro Verri:
“...quando un sovrano pretende d'esser padrone
d'uno stato, tutti gli abitanti di quello stato sono nelle mani dei ministri che
nomina quel sovrano”. (Non è sempre stato così?)
Verri si sofferma ad analizzare questi ministri (“cortigiani”),
ed emerge non solo la loro immoralità, ma anche il loro unico scopo che è quello
di arricchirsi:
“I cortigiani in massa son gente, o divorati dalla
smania di figurare senz'alcun merito, ovvero sono pieni di debiti e non di raro
di delitti; e questo miserabile stato dell'animo loro è quello che li costringe
a starsene con faccia ridente e sommessa, nell'abituale adorazione del sovrano;
a trangugiare con serenità i bocconi più amari, a non avere altra opinione fuori
di quella che conduce alla fortuna”. (Non è sempre stato così?)
Segue il modo in cui, nel governo, ministri e privilegiati
vari si autopercepiscono l'un con l'altro:
“Ivi un animo fermo e robusto dee essere odiato:
un animo candido e leale deve essere deriso: un animo sensibile vi passerà per imbecille.
Vidi e conobbi anch'io le inique corti”. (Avete conosciuto nella Storia
corti diverse da queste?).
giovedì 24 agosto 2023
Gli anarchici e l’emigrazione italiana in Brasile
L’esodo delle masse lavoratrici europee che nella seconda metà dell’800 emigrarono nelle Americhe portò con sé tutti quegli elementi culturali che contraddistinguevano le popolazioni che ne furono protagoniste, compresa quella serie di apparati filosofici e ideologici sorti dopo la Rivoluzione francese, fra cui spiccavano per importanza e diffusione il socialismo e l’anarchismo. Chi professava in patria queste dottrine era spesso soggetto alla persecuzione delle oligarchie dominanti e “l’esilio” nelle Americhe poteva rappresentare una valida alternativa al carcere. Questo esilio, più o meno volontario, degli attivisti anarchici europei era spesso visto di buon occhio dagli stessi governanti, che potevano considerare l’emigrazione come un’ottima valvola di sfogo per alleggerire la pressione sociale in Europa. Per quanto riguarda gli italiani, l’emigrazione di massa nei primi anni si diresse maggiormente verso l’America Latina, e in modo particolare verso il Brasile. Accadde così che numerosi piccoli intellettuali della penisola, militanti di ideologie ritenute sovversive o in qualche modo foriere di rinnovamento sociale, si ritrovassero nel Paese sudamericano a svolgere la propria propaganda in un contesto completamente nuovo, in cui le oligarchie dominanti erano costituite essenzialmente dalla nobiltà di origine coloniale (ma non solo), mentre gli strati socialmente più bassi della popolazione erano formati dai nativi, spesso ex schiavi neri, a cui si aggiungevano gli emigrati di origine europea. Nella città di São Paulo la propaganda anarchica veniva svolta tramite conferenze, dibattiti, rappresentazioni teatrali di carattere didattico (i testi più frequentemente rappresentati erano i drammi di Pietro Gori, benché anche i militanti locali producessero una discreta quantità di letteratura didascalica), ma soprattutto tramite la redazione di giornali e foglietti di propaganda. Nel periodo che va dal 1892 al 1920 si contano più di venti differenti testate italiane dichiaratamente anarchiche, alcune delle quali ebbero durata pluriennale, come a “La Birichina”, “La Battaglia” o “La Lotta Proletaria”. Il tentativo di coinvolgere il proletariato in forme di lotta collettiva si scontrava fondamentalmente con due difficoltà, una endogena e l’altra esogena rispetto alla società brasiliana. La prima era costituita dalle caratteristiche pre-moderne dei rapporti di lavoro nelle fazendas brasiliane (le piantagioni di caffè): la proprietà della terra era fortemente concentrata e i latifondisti, ancora in possesso di una mentalità schiavista (l’economia caffeicola brasiliana si era fondata sul lavoro servile fino alla sua definitiva abolizione, avvenuta solo nel 1888), esercitavano un potere assoluto di stampo feudale nei propri possedimenti.