A differenza
dell’animale che conosce d’istinto il mondo materiale che gli appartiene e che
gli è necessario – così l’uccello migratore conosce il Sud, e la vespa conosce
la sua preda – l’uomo non prevede il proprio mondo. Ne possiede solo un a
priori formale. L’uomo non è fatto per nessun mondo materiale, non può
anticiparlo nella sua determinazione, deve piuttosto imparare a conoscerlo
“après coup”, a posteriori, ha bisogno dell’esperienza. La sua relazione con
una determinazione fattuale del mondo è relativamente fragile, egli si trova
nell’attesa del possibile e del qualunque. Nessun mondo gli è effettivamente
imposto (come, viceversa, a qualsiasi animale è imposto un ambiente specifico),
al contrario, egli trasforma il mondo e, con mille varianti storiche e come una
sorta di sovrastruttura, vi edifica ora un “secondo mondo”, ora un altro.
Infatti, per offrirne una definizione paradossale, l’artificialità è la natura
dell’uomo e la sua essenza è l’instabilità. Le costruzioni pratiche dell’uomo,
così come le sue facoltà teoriche di rappresentazione, testimoniano della sua
astrazione. Non solo deve, ma può anche fare astrazione dal fatto che il mondo
è così com’è: poiché lui stesso è un essere “astratto”: non è solo parte del
mondo (è di questo aspetto che si occupa il materialismo), ma è anche “escluso”
da esso, “non di questo mondo”. L’astrazione – vale a dire, la libertà di
fronte al mondo, il fatto di essere tagliato per la generalità e
l’indeterminato, il ritiro dal mondo, la pratica e la trasformazione di questo
mondo – è la categoria antropologica fondamentale, che rivela la condizione
metafisica dell’uomo e, insieme, il suo ?????, (parola , discorso) la sua
produttività, la sua interiorità, il suo libero arbitrio, la sua storicità.