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mercoledì 4 marzo 2015

Movimento ’77 Tra creatività e “militarismo” Pt 3 Autonomia Operaia

Si è detto in precedenza come sia difficile distinguere nettamente un’area creativa ed una militarista. Tuttavia, analizzando i documenti del Movimento, qualcosa effettivamente emerge. La rivista “Neg/azione”, per esempio, critica gli autonomi, quelli di Aut Op per intendersi, perché “partono da una realtà rivoluzionaria, l’esigenza di sviluppo autonomo di bisogni proletari, per riproporre la ‘militanza rivoluzionaria’ (professionale) e il partito, con l’unico risultato di incanalare queste esigenze rivoluzionarie negli schemi capitalistici della politica e della ideologia”. Insomma, pur rifiutando la figura coscienziale del partito, Aut Op, per i giovani di “Neg/azione”, farebbe rientrare il partito dalla finestra, burocratizzando lo stesso concetto di autonomia. Per un altra rivista, “A/traverso”, tutto ciò che è politica è totalitario, perché non può ammettere l’esistenza della contraddizione, se non come conflitto riconducibile all’equilibrio.
L’esigenza di autonomia, quella con l’iniziale minuscola, è così sentita dai giovani del Movimento che si diffida di qualsiasi organizzazione politica, persino di una molto originale come Aut Op. Ma che cos’è realmente l’Autonomia, quella con l’iniziale maiuscola?
 Si tratta di un’area entro la quale si muovono migliaia di collettivi di quartiere, di fabbrica e di scuola, centinaia di realtà autogestite e decine di migliaia di giovani che non si riconoscono nelle forze della sinistra tradizionale né in quelle della nuova sinistra, la quale, scrivono i Comitati Autonomi Operai di via dei Volsci di Roma, oggi non propone altra alternativa se non quella di “stare a rimorchio, di sottomettersi, di farsi carico dei progetti di ripresa padronale”. Per Aut Op, il partito rivoluzionario “rimane una necessità storica del proletariato, come fattore di continuità nella fase in cui cresce ma non si afferma ancora totalmente il contropotere di massa, come acceleratore anzi di questo processo”, ma è comunque solo “uno strumento, un mezzo, un’arma della rivoluzione, non il suo fine”.
- Non può esserci allora costruzione del partito rivoluzionario se non c’è parallelamente costruzione e diffusione dell’organizzazione autonoma operaia (...) e tra le masse della pratica rivoluzionaria; se non si stabilisce fin da ora un legame naturale, non solo “politico” ma materiale, organizzativo, tra partito e strutture dell’autonomia di massa. -
Il partito, dunque, non è che un mezzo. Eppure, anche se subordinato alla crescita della “pratica rivoluzionaria” tra le masse, esso ha comunque una certa importanza anche per Aut Op. D’altro canto, ponendosi anche se in maniera originale come avanguardia del movimento di massa, Autonomia si colloca nell’ambito del pensiero e della prassi marxista-leninista tradizionale. E questo gli attira le critiche di altri settori del movimento.
I primi collettivi autonomi nascono nel 1971, ma è tra il 1972 e il 1973 che questi si moltiplicano in tutto il paese. Il 25-26 novembre 1972 si tiene a Napoli il primo Convegno dei Collettivi autonomi del Mezzogiorno e l’anno successivo, a Bologna, il primo di Autonomia Operaia Organizzata, al quale vi partecipano più di 400 delegati di tutta Italia. In questo Convegno Aut Op lancia solo alcune parole d’ordine, come il rifiuto della mobilità, la lotta all’intensificazione dei ritmi di lavoro, le 36 ore settimanali e il salario uguale per tutti. Ma dai lavori emerge anche la linea politica del gruppo: “Il problema del potere - si legge nella relazione introduttiva - è quello di praticare la coscienza del potere nelle masse per tradurlo in prassi politica”. Solo così la rivendicazione diventa tutta politica e l’organizzazione può trasformarsi in “partito rivoluzionario”. Gli autonomi non sono per una lotta violenta clandestina: “tutto - si legge nella mozione conclusiva - deve essere riservato alla capacità dei nuclei operai di saper colpire nel momento buono, nella direzione giusta, secondo il polso e il grado di coscienza operaia, contro l’organizzazione capitalistica del lavoro, contro gli strumenti della repressione padronale”. Aut Op decide di non dotarsi di una struttura centralizzata, a differenza di quanto decidono di fare in questi anni molte altre organizzazioni dell’estrema sinistra (Lc compresa): viene creata invece una Commissione nazionale, con il compito di coordinare le varie realtà.
Nell’autunno del 1973 Pot Op si scioglie. Decine di suoi attivisti, come Negri, Piperno e Scalzone, confluiscono in Autonomia. E così “l’organizzazione che non è ancora partito” cresce notevolmente.
Il battesimo del fuoco di Aut Op, è proprio il caso di dirlo, si celebra l’8 settembre 1974, in occasione dello sgombero delle case occupate del quartiere di San Basilio, alla periferia di Roma. La battaglia è sanguinosa. La polizia spara ed uccide Fabrizio Ceruso, del Comitato autonomo di Tivoli.
L’occupazione delle case è solo una delle tante battaglie che gli autonomi conducono in quella che chiamano “fabbrica sociale”. Per combattere il carovita, per esempio, Aut Op pratica l’autoriduzione e l’esproprio proletario (che presto diventerà un incubo per i commercianti di tutto il paese); contro la violenza neofascista, l’antifascismo militante, contro la repressione danno vita a “Soccorso Rosso” e contro lo spaccio di eroina nei quartieri a ronde armate.
Aut Op è diffusa su tutto il territorio nazionale, soprattutto nelle grandi città: Milano (in periferia e in alcune grandi fabbriche, come la Pirelli e l’Alfa Romeo, mentre alla Statale deve fare i conti con lo strapotere del Ms, prima, e del Mls poi), a Bologna (nelle periferie e all’Università), a Marghera-Mestre (area industriale, ex roccaforte di Pot Op), a Padova (Università), a Roma (all’Università La Sapienza, al Policlinico, nei quartieri di San Lorenzo, San Basilio e molti altri della cintura periferica) e a Napoli (nelle zone più degradate).

(continua)