Ogni movimento incontrollato in cui, per
quanto embrionalmente, una critica sociale e culturale venga abbozzata, prova
immediatamente il bisogno di definire un nuovo campo di significati e di
affermare una nuova verità, ma il discorso del potere si installa nel cuore di
ogni comunicazione, diventa la mediazione onnipresente e necessaria e riesce
così a infiltrare, controllandolo dall’interno, ciò che lo contesta.
E così il sindacato diventa la malattia
paralizzante e mortale che colpisce un movimento di base fra i lavoratori
allorché questo cessa di discutere senza intermediari tutto ciò che è
discutibile, e di agire di conseguenza.
Il morbo raggiunge la virulenza in
particolare allorché un simile movimento si rassegna ad abbandonare
all’arbitrio del datore di lavoro – altrimenti detto leggi dell’economia – la
definizione del contenuto e degli scopi della propria attività per ridursi a
contrattarne il prezzo, l’orario e le condizioni esterne in genere (e, anche
queste, più di diritto che di fatto). Sintomi evidenti del progredire della
malattia sono, ad esempio: omettere, nel corso delle riunioni, di parlare per
fare piuttosto degli interventi; preoccuparsi di dire, al posto di ciò che si
vive e si pensa, ciò che ci si immagina viva e pensi il lavoratore medio;
accettare che qualcuno pretenda di parlare a nome di altri da cui non abbia
ricevuto un mandato imperativo, revocabile e verificabile; guardarsi bene dal
porre avanti, nel movimento, le contraddizioni sociali ed umane di fondo che si
vivono sulla propria pelle, tacendo, per giocare il gioco degli interessi,
tutto ciò che a prima vista non sembra immediatamente passibile di soluzioni concrete;
introiettare il principio del rispetto di tutte le compatibilità con ogni
esigenza esistente eccetto che con le proprie.