La povertà modernizzata non consiste nella iniqua distribuzione della
ricchezza, ma nella frustrazione prodotta da quelle istituzioni che create per migliorare
la condizione umana, finiscono invece con il peggiorarla, privando l’uomo di quelle
capacità di far fronte autonomamente alle difficoltà e alle necessità che gli si
presentano nel corso della sua vita. Questo tipo di povertà si manifesta quando
l’intensità della dipendenza dal mercato arriva a una certa soglia.
Essa non fa altro che privare le sue vittime della libertà di vivere
in maniera autonoma e creativa riducendole a sopravvivere solo perché, e solo se,
inserite in relazioni di mercato.
La controproduttività è cosa diversa dalle esternalità negative e indesiderabili.
Sono esternalità indesiderabili i danni degli incidenti automobilistici, la degradazione
ambientale, il carico fiscale di scuole e ospedali, superiore a quanto la maggior
parte delle economie riesce a tollerare, le “città fantasma” che nascono in funzione
delle strade e impoveriscono il paesaggio rurale e urbano, la distruzione di arti
antiche e mestieri, la produzione e l’accumulo di rifiuti tossici, la creazione
di costosi cimiteri per i rifiuti industriali. Le esternalità rappresentano costi
che sono “al di fuori” del prezzo pagato dal consumatore per ciò che acquista ma
che ricadranno a un certo punto su di lui, sugli altri o sulle generazioni future.
La controproduttività invece è un tipo di delusione, “interno” all’uso
stesso della merce acquistata ed è componente inevitabile di tutte le istituzioni
moderne. Ogni settore importante dell’economia produce le proprie contraddizioni.
Ogni opera ha necessariamente degli effetti contrari a quelli per cui è stata strutturata.
Gli economisti sono incapaci di quantificare le conseguenze interne negative
e di misurare la frustrazione intrinseca dei clienti prigionieri di un dato prodotto.