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giovedì 30 settembre 2021

Afgane: un alibi che non regge

La vita e la libertà delle donne rappresentano la cartina di tornasole di uno scontro di civiltà messo in scena da decenni. Il ritiro delle truppe NATO dall’Afganistan ha rapidamente riportato al potere i talebani, che hanno immediatamente ricostituito l’emirato islamico dopo vent’anni di occupazione del paese.

Nell’accordo siglato nel 2020 dal misogino fascista Trump con i rappresentanti dell’Emirato e sottoscritto dal suo successore Biden c’era un solo punto cruciale: l’impegno a non sostenere attivamente la Jihad islamica fuori dai confini del paese. Quest’impegno è stato ribadito dai talebani nella prima conferenza stampa dopo l’ingresso a Kabul. Punto.

La resa della NATO era senza altre condizioni.

Lo status delle donne non è mai stato sul tavolo delle trattative, perché si trattava di un affare “interno”.

Eppure nel nostro paese, che ha partecipato attivamente alla “coalizione dei volenterosi”, la narrazione mediatica prevalente ha messo al centro le donne. La concreta possibilità che vengano massacrate, sottomesse, chiuse in case, stuprate è il fulcro del dibattito pubblico.

Intendiamoci. Gli appelli delle donne che in questi anni hanno studiato, lavorato, acquisito un po’ di autonomia sono veri e strazianti. Suscitano una rabbia forte ed impotente. La schiavitù e la violenza che sta investendo queste donne è, ancora una volta, strumento di propaganda sulla superiorità della civiltà occidentale.

Le narrazioni delle donne, le immagini dell’aeroporto di Kabul, i ponti aerei per salvare una manciata di collaborazionisti e di persone di cultura sono solo fumo negli occhi, un tentativo di far credere che, nonostante la disfatta finale, vent’anni di occupazione e guerra fossero giusti.

Nel 2001 le truppe NATO si legarono all’Alleanza del Nord, scalzata dal potere dai talebani nel 1996, ed ormai trincerata nelle inaccessibili valli del Nord. Quelli dell’Alleanza del Nord erano islamisti radicali di altra scuola e di altre etnie rispetto ai talebani pashtun. La condizione femminile durante il loro governo non era stata meno dura che sotto il tallone degli “studenti di dio” seguaci delle scuole deobandi, fiorite nelle aree tribali del Pakistan.

Le donne di RAWA, Associazione delle donne rivoluzionarie afgane, che dal 1977 si battono contro i fondamentalisti, non hanno mai salutato le truppe NATO come liberatori, consapevoli che la vita e la libertà delle donne afgane erano un mero fiore all’occhiello, non un obiettivo reale.

Nascondere la sconfitta politica e militare sotto la fitta cortina di fumo del salvataggio di alcune donne, uomini e bambini è solo l’ultimo atto di un’occupazione militare arrogante e feroce.

I militari governativi che si sono arresi senza combattere, perché così prevedeva l’accordo tra Stati Uniti e talebani, troveranno presto nuova collocazione al servizio dei nuovi padroni. Per le donne e le ragazze che, specie nelle città, erano riuscite ad ottenere qualche margine di autonomia, non ci sarà spazio, se non nel rischio e nella lotta.

Le guerre di “civiltà” si combattono su due fronti. Ovvio che l’emirato afgano segnasse la propria vittoria assoggettando le donne, vero terreno di battaglia sul quale si chiude questa ultima fase della guerra.

La manciata di donne “salvate” con il ponte aereo saranno, probabilmente senza volerlo, al servizio della propaganda occidentale. Finché non si spegneranno nuovamente i riflettori.

In Afganistan e nella diaspora femminista continueranno a lottare clandestinamente tante donne e ragazze, che in quasi cinquant’anni si sono passate il testimone, tessendo una tela a volte invisibile ma dall’ordito potente.