It was like a pebble into the middle of a pond, and the ripples are still traveling
È stato come un sasso
in mezzo a un laghetto, e le increspature sono ancora in viaggio
Peter Norman, New York Times, 4 ottobre 2005
Fra i 12 atleti neri
che votarono a favore del boicottaggio delle Olimpiadi di Città del Messico 1968,
c’erano due fra i favoriti per i
Il clima di quegli
anni era infuocato, e la situazione dei diritti civili negli Stati Uniti era a dir
poco allarmante, il brutale assassinio di Martin Luther King era avvenuto appena
6 mesi prima dell’inizio dei giochi e gli episodi di razzismo, discriminazione e
violenza nei confronti della popolazione di colore erano all’ordine del giorno.
La votazione sul
boicottaggio non seguì i desideri dei due atleti e la maggioranza decretò la partecipazione
ai Giochi. Fu così che il 16 ottobre 1968 gli sguardi degli spettatori dell’Azteca,
Città del Messico, erano puntati sulle due “frecce nere”, pronte a tutto per ottenere
il risultato e ben consapevoli della responsabilità che quel giorno avevano sulle
spalle. L’orgoglio e la soddisfazione dei due atleti di aver sudato e sacrificato
se stessi per poter essere lì sui blocchi di partenza, erano in qualche modo macchiati
dalla certezza che neanche il primo posto sarebbe servito a scuotere la situazione
e a ridare dignità al proprio popolo. L’idea che se avessero vinto “avrebbe vinto
un americano” e che in caso contrario “avrebbe perso un negro”[1], risuonava come
un trapano nelle loro teste, un rumore insopportabile, forse interrotto soltanto
dallo sparo dello starter. Comincia la gara.
La partenza di Smith
non è delle migliori, è Carlos infatti che si impone nella fase iniziale, guadagnando
circa due metri sugli avversari, è dopo la curva che il giovane texano sprigiona
tutta la sua potenza e ne supera uno dopo l’altro, fino a non vedere più nessuno
davanti a sé. A venti metri dal traguardo solleva le braccia sicuro della vittoria,
19 secondi e 83, record del mondo. Dietro di lui Carlos getta dei rapidi sguardi
alla sua sinistra per assicurarsi del secondo posto, quando passa il traguardo con
20”10 non si accorge dell’australiano Peter Norman, 26 anni, che lo passa a destra
completando la gara in soli 20”06 e conquistandosi il secondo posto. Ecco formato
il podio che difficilmente il mondo si dimenticherà, passando quella linea nello
strenuo sforzo di rubare qualche centesimo di secondo alla storia, questi tre giovani
atleti cominciarono la vera gara della loro vita.
Tommie Smith PodiumPrima
della premiazione sulle facce dei due atleti di colore si può leggere la tensione,
hanno deciso che essere i più veloci non basta, devono sfruttare questo momento
di visibilità come palcoscenico per lanciare un messaggio di rabbia e di lotta per
i diritti umani.
Si sarebbero presentati
scalzi, per simboleggiare la povertà, inoltre Tommie aveva un foulard e John una
collanina, in ricordo dei loro fratelli neri linciati durante le proteste, avrebbero
dovuto indossare entrambi dei guanti neri simbolo del Black Power, ma nell’agitazione
l’atleta di Harlem li aveva dimenticati. Fu Peter Norman, che ascoltandoli parlare
suggerì loro di dividersi i guanti, Smith avrebbe preso il destro e Carlos il sinistro.
L’australiano, soltanto apparentemente estraneo alla protesta decise di indossare,
assieme ai suoi due compagni, la coccarda dell’Olympic Project for Human Rights,
appena sopra lo stemma della nazione.
Una volta saliti
sul podio, al momento dell’inno nazionale, il mondo vide i due pugni neri sollevarsi
al cielo e le teste dei due velocisti chinarsi, a completare il quadro di un’immagine
ormai divenuta leggenda, Norman, statuario con lo sguardo fisso in avanti, fiero
di poter prendere parte a questo silenzioso gesto di insurrezione e di protesta.
Contrariamente a
quanto si possa pensare vedendo i filmati o le foto, Peter Norman è stato infatti
molto di più di una semplice comparsa in quella lunga giornata messicana. Nonostante
egli potesse benissimo dissociarsi da quella che, almeno apparentemente, non era
la sua “guerra”, fece una scelta e la potenza del suo non-gesto fu pari a quella
dei pugni alzati di Smith e Carlos.
Le riposte a questo
plateale gesto rivoluzionario non tardarono ad arrivare, subito dallo stadio reazioni
di ogni tipo si levarono rumorosamente, con fischi e insulti che la facevano da
padrone sulle urla di consenso e approvazione, ma le vere conseguenze si ebbero
in seguito e sono efficacemente sintetizzabili nelle agghiaccianti parole del capo
delegazione USA Payton Jordan, che immediatamente dichiarò: “Se ne pentiranno per
il resto della loro vita”. Per evitare il coinvolgimento del resto degli atleti
in eventuali provvedimenti, i due furono immediatamente espulsi dalla squadra e
dal villaggio olimpico, le scuse del comitato USA furono inviate al CIO. Da quel
momento furono molti gli insulti, le minacce, gli atti vandalici e le ripercussioni
che dovettero subire assieme alle relative famiglie, tanto che nel giro di qualche
anno la moglie di Carlos decise di togliersi la vita e quella di Smith scelse di
allontanarsi da lui.
Per Norman ovviamente
le conseguenze furono minori ma non certo assenti, venne escluso dai Giochi di Monaco
e anche quando, molti anni dopo, fu riconosciuta la natura rivoluzionaria del gesto,
la sua figura rimase nell’ombra e non gli fu mai riconosciuto il merito dovuto a
livello internazionale. Atleta impeccabile, tutt’oggi detentore del record sui 200
per l’Oceania, eroe nazionale e professore di educazione fisica, Peter Norman viene
troppo spesso dimenticato o messo in secondo piano.
“Abbiamo avuto la
nostra croce da portare qui negli Stati Uniti” – dichiara Carlos- “Peter ha avuto
una croce più grande da sopportare perché non aveva nessuno lì per aiutarlo tranne
la sua famiglia.” Muore per un attacco di cuore all’età di 64 anni, il 3 ottobre
2006, circa quaranta anni dopo il fatidico giorno, in quel momento “i rapporti personali
fra Smith e Carlos sono pessimi. Comunicano ricordi diversi, ancora si disputano
il merito di aver ideato il guanto di sfida, neppure i vecchi amici riescono a riavvicinarli.
Nessuno dei due però, ha un attimo di incertezza, appena saputo della morte di Norman:
decidono di volare in Australia” per rendere omaggio al loro amico e compagno.
Il coraggio a questi
uomini è costato tanto, e alla domanda su un eventuale pentimento, Smith, qualche
tempo dopo dichiarò: “Quel gesto era mio. L’ho pensato, voluto, creduto. Mi serviva,
ci serviva. Non l’avessi fatto ora sarei una persona diversa, non sarei l’uomo che
sono e che in fondo sono contento di essere”[2]
Toz e TommieDiciannove
secondi. Devono essere passati più o meno diciannove secondi, da quando tramite
un amico ho saputo che Tommie Smith era in Italia per tre giorni, a quando mi sono
ritrovato davanti alla porta di casa con lo zaino in spalla, quattro panini, una
bottiglia d’acqua, la mia maglietta del Collettivo con il leggendario pugno stampato
sopra, senza ovviamente la minima idea di come avrei fatto a incontrarlo.
L’ormai ex atleta
era ospite d’onore al famoso meeting internazionale di atletica che si tiene ogni
anno a Rieti, dedicato quest’anno a un’altra leggenda di questo sport, Pietro Mennea,
che nel 1979 strappò il record proprio al texano con un incredibile 19”72.
Parto da Bologna
quando ancora tutti dormono, mi aspetta un viaggio attraverso il centro Italia,
con orari e coincidenza improbabili e nessuna certezza, nel tentativo di poter scambiare
qualche parola con la leggenda che ha prestato il nome al nostro collettivo.
Dopo ore di attesa
riesco a vederlo all’interno dell’area degli ospiti, mi butto sulle transenne e
lo chiamo, dall’alto del suo metro e novanta si gira, mi guarda e sorride indicando
la maglietta col pugno, nel mio terribile inglese, peggiorato dal caos del momento,
farfuglio qualcosa di simile a complimenti e ringraziamenti vari, gli chiedo di
fare una foto con me, esce dalle transenne mi stringe la mano (con la famosa mano!)
e ci facciamo la foto prima che la sicurezza lo porti via per l’inizio della manifestazione.
Tredici ore di viaggio
circa, per quel minuto con Tommie Smith, ma andava fatto, la fiamma che hanno acceso
quei tre ragazzi decisi e impauriti sopra il podio, quasi cinquanta anni fa, è ancora
accesa ed è anche nostro dovere tenerla viva.
Leonardo, Collettivo Tommie Smith
[1] Tommie Smith
dichiarò dopo la vittoria: “Oggi ho vinto, e ha vinto un americano. Se avessi perduto,
avrebbe perduto un negro”
[2] cfr. Ghedini
R., Il compagno Tommie Smith e altre storie di sport e politica, Malatempora, 2008,
p. 12 e p.214
Articolo tratto da
collettivo tommiesmith.wordpress.com