Il 4 novembre è la festa delle forze
armate. Viene celebrata nel giorno della “vittoria” nella prima guerra
mondiale, un immane massacro per spostare un confine.
Il 4 novembre è la festa degli
assassini. La divisa e la ragion di stato trasformano chi uccide, occupa,
bombarda, in eroe.
Cent’anni fa, a rischio della vita,
disertarono a migliaia la guerra, consapevoli che le frontiere tra gli Stati
demarcano il territorio di chi governa, ma non hanno nessun significato per chi
abita uno o l’altro versante di una montagna, l’una o l’altra riva di un fiume,
dove nuotano gli stessi pesci, dove crescono le stesse piante, dove vivono
uomini e donne che si riconoscono uguali di fronte ai padroni che si fanno
ricchi sul loro lavoro.
Cent’anni dopo, quelle trincee impastate
di sangue, sudore, fango e rabbia la retorica patriottica, il garrire di
bandiere e le parate militari nascondono i massacri, i pescecani che si
arricchivano, le “decimazioni”, gli stupri di massa.
In questi anni lungo i confini d’Italia
si sta combattendo una guerra feroce contro la gente in viaggio, contro chi
fugge conflitti dove le truppe italiane sono in prima fila.
In Iraq battaglioni d’élite
dell’esercito tricolore partecipano all’assedio di Mosul, per cacciare i
jihadisti dello Stato Islamico.
Sono in Iraq da mesi per difendere gli
interessi della Trevi, la ditta italiana che si è aggiudicata i lavori alla
diga di Mosul, uno snodo strategico per chi intende fare buoni affari nel
paese.
I governi alleati dell’Italia hanno
finanziato e protetto i soldati della jihad prima in Afganistan, poi in Siria.
A Mosul si sta consumando in nostro nome un altro immane massacro di uomini,
donne e bambini, pedine di un gioco feroce di potenza.
Ad Aleppo si muore da anni nel silenzio
fragoroso dei più. Le lacrime ipocrite per i bimbi morti non hanno fermato le
bombe.
In Rojava, dove dal 2012 la popolazione
ha deciso di attuare un percorso di autonomia politica, di solidarietà e di
mutuo appoggio, nella cornice del confederalismo democratico, il governo turco
bombarda le città nel silenzio fragoroso di chi, proprio sulle milizie maschili
e femminili della regione a maggioranza curda della Siria, ha fatto leva per
fermare l’avanzata dell’Isis. La rivoluzione democratica in Rojava apre una
crepa nelle logiche di potere che caratterizzano le grandi potenze che si
contendono il controllo del Mediterraneo all’Eufrate.
Sei conflitti armati muoiono più civili
che militari. I soldati sono professionisti super addestrati, strumenti costosi
e preziosi da preservare, mentre le persone senza divisa diventano obiettivi
bellici di primaria importanza per suscitare il terrore, per piegare la resistenza
delle popolazioni da sottomettere, per realizzare i propri obiettivi di
dominio. La propaganda di guerra all’Isis marchia come terroristi i militari
della jihad, ma usa gli stessi mezzi. Solo la narrazione è diversa. Torture,
rapimenti extragiudiziali, detenzioni senza processo, sono normali ovunque.
L’Isis ama di più lo spettacolo e lo usa per dimostrare la propria forza e
attrarre a se nuovi adepti.
Al riparo delle loro basi, a dieci
minuti di auto dalle loro case, i piloti dei droni, osservano in uno schermo le
possibili vittime, le puntano e le colpiscono come in un videogioco. La guerra
virtuale diventa reale, ma accresce la distante onnipotenza di chi dispensa
morte da una base lontana migliaia di chilometri dal sangue, dalle feci, dagli
arti straziati, dall’inenarrabile dolore di chi vede morire i propri figli,
amici, genitori.
Questi giocattoli letali costano molto
meno di un bombardiere. Un Predator armato costa 4 milioni di dollari contro i
137 di un F35.
L’Italia è in guerra da decenni ma la
chiama pace.
È una guerra su più fronti, che si
coniuga nella neolingua del peacekeeping, dell’intervento umanitario, ma parla
il lessico feroce dell’emergenza, dell’ordine pubblico, della repressione.
La guerra diventa filantropia
planetaria, le bombe mezzi di soccorso.
Gli stessi militari delle guerre in
Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia,
sono nei CIE, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa, sono nel
Mediterraneo e sulle frontiere fatte di nulla, che imprigionano uomini, donne e
bambini.
Guerra esterna e guerra interna sono due
facce delle stessa medaglia. Le sostiene la stessa propaganda: le questioni
sociali, coniugate in termini di ordine pubblico, sono il perno su cui fa leva
la narrazione militarista.
Torino è uno dei principali centri
dell’industria aerospaziale bellica.
Sono cinque le aziende piemontesi,
leader nel settore: Alenia Aermacchi, Thales Alenia Space, Avio Aero, Selex Es,
Microtecnica Actuation Systems / UTC. 280 SMEs.
L’industria di guerra è un buon
business, che non va mai in crisi. L’industria bellica italiana fa affari con
chiunque. I soldi non puzzano di sangue e il made in Italy va alla grande.
L’Europa ha pagato miliardi il governo
turco perché trattenesse i profughi che lo scorso anno premevano alle frontiere
chiuse. La verità cruda ma banale è che in Siria, in Iraq, in Afganistan, in
Libia si combatte con armi che spesso sono costruite a due passi dalle nostre
case.
A Torino e Caselle c’è l’Alenia, la sua
“missione” è fare aerei militari. Nello stabilimento di Caselle Torinese hanno
costruito gli Eurofighter Thypoon, i cacciabombardieri made in Europe, e gli
AMX. Le ali degli F35, della statunitense Loockeed Martin, sono costruite ed
assemblati dall’Alenia.
Un business milionario. Un business di
morte.
Lo Stato italiano investe ogni ora due
milioni e mezzo di euro in spese militari, di cui mezzo milione solo per
comprare nuove bombe e missili, cacciabombardieri, navi da guerra e carri
armati. Gli altri servono per le missioni militari all’estero, per il
mantenimento del militari e delle strutture. Si tratta, per il 2016, di 48
milioni di euro al giorno. Il governo nei prossimi anni ha deciso di spenderne
ancora di più. Alla faccia di chi si ammala e muore perché non riesce ad
accedere a esami specialistici e cure mediche.
Nel nuovo Documento programmatico
pluriennale della Difesa – 2016-2018 – sono previsti: 13,36 miliardi di spese
nel 2016 (carabinieri esclusi), l’1,3 per cento in più rispetto all’anno
scorso. Cifra che sale a 17,7 miliardi (contro i 17,5 del 2015) se si
considerano i finanziamenti del ministero dell’Economia e delle Finanze alle
missioni militari (1,27 miliardi, contro gli 1,25 miliardi dell’anno
precedente) e quelli del ministero per lo Sviluppo Economico ai programmi di
riarmo (2,54 miliardi, nel 2015 erano 2,50).
Finanziamenti, quelli del Mise, che
anche quest’anno garantiscono alla Difesa una continuità di budget per
l’acquisto di nuovi armamenti per un totale di 4,6 miliardi di euro (contro i
4,7 del 2015). Le spese maggiori per quest’anno riguardano i cacciabombardieri
Eurofighter (677 milioni), gli F-35 (630 milioni), la nuova portaerei Trieste e
le nuove fregate Ppa (472 milioni), le fregate Fremm (389 milioni), gli
elicotteri Nh-90 (289 milioni), il programma di digitalizzazione dell’Esercito
Forza Nec (203 milioni), i nuovi carri Freccia (170 milioni), i nuovi
elicotteri Ch-47f (155 milioni), i caccia M-346 (125 milioni), i sommergibili
U-212 (113 milioni).
La vocazione umanitaria delle forze
armate italiane ha fame di nuovi costosissimi giocattoli.
In tutto il paese ci sono aeroporti
militari, poligoni, centri di controllo satellitare, postazioni di lancio dei
droni.
Le prove generali dei conflitti di
questi anni vengono fatte nelle basi sparse per l’Italia.
La rivolta morale non basta a fermare la
guerra, se non sa farsi resistenza concreta.
Negli ultimi anni sono maturate
esperienze che provano a saldare il rifiuto della guerra con l’opposizione al
militarismo: il movimento No F35 a Novara, i no Muos che si battono contro le
antenne assassine a Niscemi, gli antimilitaristi sardi che lottano contro
poligoni ed esercitazioni. Anche nelle strade delle nostre città, dove
controllo militare e repressione delle insorgenze sociali sono ricette
universali, c’è chi non accetta di vivere da schiavo, c’è chi si oppone alla
militarizzazione delle periferie, ai rastrellamenti, alle deportazioni.
Per fermare la guerra non basta un no.
Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in
cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi,
uomini armati che pattugliano le strade.
Contro tutti gli eserciti, contro tutte
le guerre!