L’obbligo produttivo aliena la passione
di creare. Il lavoro produttivo rientra nei procedimenti di mantenimento
dell’ordine. Il tempo di lavoro diminuisce proporzionalmente alla crescita
dell’impero del condizionamento.
In una società industriale che confonde
lavoro e produttività, la necessità di produrre e sempre stata antagonista del
desiderio di creare. Quale scintilla umana, ossia quale creatività possibile,
può restare in un essere strappato dal sonno ogni mattina alle sei, sbattuto
sui treni suburbani, assordato dal fracasso delle macchine, torchiato, spremuto
dalle cadenze, dai gesti privati di senso, dal controllo statistico, e
rigettato alla fine della giornata nelle sale di stazione, cattedrali di
partenza per l’inferno delle settimane e l’infimo paradiso dei week-end, quando
la folla si comunica nella fatica e nell’abbruttimento?
Dall’adolescenza all’età della pensione,
i cicli di ventiquattr’ore si susseguono con il loro uniforme macinare del
vetro spezzato: incrinatura del ritmo congelato, incrinatura del
tempo-che-è-denaro, incrinatura della sottomissione ai capi, incrinatura della
noia, incrinatura della fatica. Dalla forza viva dilaniata brutalmente alla
lacerazione sempre aperta della vecchiaia, la vita barcolla da ogni parte sotto
i colpi del lavoro forzato. Mai una civiltà ha raggiunto un tale disprezzo
della vita; allevata nel disgusto, mai una generazione ha provato fino a questo
punto il gusto rabbioso di vivere. Coloro che si assassina lentamente nei
macelli meccanizzati del lavoro sono gli stessi che si trovano a discutere,
cantare, bere, ballare, fare l’amore, tenere la strada, prendere le armi,
inventare una poesia nuova. Già si costituisce il fronte contro il lavoro
forzato, già i gesti di rifiuto modellano la coscienza futura. Ogni appello
alla produttività, nelle condizioni volute dal capitalismo e dall’economia
sovietizzata, è un appello alla schiavitù.