C'era una volta, molto tempo fa, verso
l'anno 1900, un grande ammasso di pietre e di fango che i naturali di allora
chiamavano Parigi. Era la capitale di un paese favorito da un clima temperato e
dove i cereali, le vigne, i più bei frutti crescevano in abbondanza.
Avvicinandosi a questi ammassi di pietre, vincendo gli odori pestilenziali che
se ne sprigionavano, li si vedeva solcati da vie di ogni genere: le une larghe,
costeggiate da belle case; le altre, strette, con, da ogni lato, in fila e
strette, delle case dall'aspetto di topaie. Quel giorno, l'anno finiva; era
festa in ogni città, ma la natura sembrava imbronciarsi e la neve cadeva a
larghe falde. Malgrado ciò, lungo le strade, i magazzini gettavano fasci di
luce e gli occhi erano attirati da ammassi di vettovaglie stranamente fornite
di clienti.
I passeggiatori, gli acquirenti erano
numerosi: gli uni, ricoperti da calde pellicce, andavano ridendo beati,
fregandosene del freddo; gli altri, al contrario, camminavano con timore, erano
ricoperti di stracci, attraverso i quali si disegnavano le loro ossa o si
vedeva la loro pelle.
Di quando in quando, i secondi
assumevano verso i primi degli atteggiamenti di supplica, che non conoscete,
cari bambini, ma che consistevano nel tendere la mano pronunciando delle parole
senza senso, in tono dolente. Essi chiedevano l'elemosina, e cioè pregavano i
fortunati di dar loro una parte del loro superfluo allo scopo di poter
acquistare il necessario per essi e i loro figli. I tre quarti dei ben vestiti
passavano indifferenti; altri, parsimoniosamente, cercavano nella loro tasca la
più piccola offerta da dar loro.
Quando i pezzenti si mostravano troppo
intraprendenti, degli uomini vestiti tutti allo stesso modo, molto
animatamente, li maltrattavano e li cacciavano dalle larghe vie; qualche volta
li portavano anche via dopo aver messo delle catene alle mani. E vi era, allo
stesso tempo, così poca umanità, così poco rispetto della dignità umana, che le
persone benvestite facevano cerchio e gettavano del lazzi ai poveri diavoli
così trattati, e che i malvestiti curvavano il capo, abbassavano le loro
spalle, cercando di far dimenticare il loro crimine di essere poveri avvallando
gli atti degli uomini in uniforme.
Questi ultimi erano chiamati agenti
della forza pubblica, erano mantenuti grandi e grossi; avevano come missione di
difendere i benvestiti, i ben nutriti, contro i pezzenti, i miserabili. Essi
appartenevano, il che vi sorprenderà, a questa classe così sfortunata. Però
chiacchieriamo molto senza entrare nel merito. Una donna si era persa tra
questa folla. La sofferenza si leggeva sui suoi tratti, e la miseria dagli
abiti poveri che la ricoprivano. Ma osservandola, la si capiva essere giovane,
la si vedeva bella. Molte volte la sua mano aveva disegnato il gesto
dell'elemosina, mai essa aveva avuto la forza di eseguirlo. Un'ultima fierezza
irraggiava dai suoi occhi, tutto il suo essere si rivoltava contro
l'avvilimento, la supplica.
Spesso dei benvestiti l'avevano
avvicinata e rivolto degli inviti volgari e, non appena indugiava davanti a una
vetrina di alimenti deliziosi e invitanti, sentiva sul collo l'alito caldo di
un uomo che le sussurrava: "Se vuoi salire da me, la camera e la stanza
rotonda". È con grande difficoltà, cari bambini, se osate capire queste
parole, tanto esse vi sembrano sorprendenti. La dignità della donna, il suo
libero arbitrio, in quei tempi barbari, non erano più rispettati della dignità
e libertà umana. La bellezza, la grazia, la giovinezza delle donne povere erano
comprate dai benvestiti, i ricchi. Nulla secondo il loro volere era rispettato
e i più vecchi, i più brutti in pelliccia avevano, quasi per un pezzo di pane,
le più giovani e le più belle donne.
Si ostentava allora una più grande
morale e un grande pudore e le nostre libere unioni dei nostri tempi erano
fortemente bandite: l'amore si faceva sempre attraverso intermediari, o si
vendeva in appositi mercati. La nostra povera sconosciuta arrossì, si girò.
L'uomo era vecchio, era brutto, degli occhi affondati nel grasso delle sue
guance, due o tre menti, un grosso ventre... Oh, la sua giovinezza a questo
vecchiaccio, a questo lurido gaudente. Esitò, poi apparve sul suo bel viso una
contrazione, alzò le spalle... accettò.
Seguì l'uomo in un albergo, in qualche
strada vicina alla grande arteria. E in una camera banale in cui si udivano le
carreggiate venali, vendette il suo corpo alle bestiali carezze del passante.
Soddisfatto, l'uomo se ne andò verso altri piaceri. Lei davanti all'albergo,
guardava la "stanza rotonda" come smarrita, poi tornava in sé. L'atto
che aveva appena commesso, era per quel metallo. Quel metallo, era del pane per
il bambino che aveva fame; quel metallo era del carbone, per il bambino che aveva
freddo... per il suo bambino, nella mansarda.
Entrò come un turbine in un negozio,
dove era esposto il pane dorato in tutte le sue forme. Delle inservienti che si
affrettavano vicino a dei benvestiti, la osservarono con sospetto: "Una
libbra di pane, per favore".
Perché il pane, cari bambini,
quest'indispensabile nutrimento, si vendeva così come ogni altra cosa. La
servirono e, felice di avere del pane per sé, la poveretta, gettò la moneta sul
bancone. Emise un suono sordo... Una voce cattiva diceva: "falsa, non
bisogna farla a noi, piccola mia". Delle mani brutali le strapparono il
pane e la spinsero fuori. Capì: era stata derubata, ingannata. Il sacrificio
ultimo della madre per il figlio era stato inutile. Delle ingiurie venivano alla
sua bocca contro l'avido che aveva mangiato la sua carne, respirato la sua
giovinezza, senza volerle lasciare una briciola del suo benessere. Ma la sua
testa vuota si curvò, grosse lacrime scorsero lungo le sue guance; scoraggiata,
stanca, prese la strada delle vie strette, delle case nere, lasciandosi alle
spalle il quartiere di lusso e abbondanza.
E, nella strada più stretta, davanti la
più nera casa, si fermò, seguì un lungo viale, salì la scala, e, in alto,
trattenendo il respiro, lentamente aprì la porta della sua camera. Oh,
l'orribile mansarda, oh il nero tugurio. Per terra un materasso sul quale due o
tre sacchi erano gettati, vicino una tavola dagli assi malgiunti, un fornello i
cui tre buchi spalancati sembravano gettare freddo, un baule grigio in un
angolo ed era tutto. Un giorno smorto scivolava da un lucernaio il cui vetro
rotto lasciava passare la brezza. Era tutto, dicevamo? No. In un angolo,
gettando quasi una nota allegra, una culla. In questa culla tutto l'amore
materno si disegnava vincitore; i mille nulla abbellivano questo nido. Un
bambino di cinque o sei anni vi riposava.
Il primo sguardo della donna fu per lui.
Ahimè! Ritornava a casa così come vi era partita, le mani vuote, niente pane,
niente legna, era la morte, l'inevitabile morte. La sua morte, quella del
cherubino, di quell'avvenire. I suoi occhi versarono lacrime, si avvicinò a
passo lento alla culla. O ironia, il bambino sognando, sorrideva alla vista di
qualche remoto paradiso, del vostro, oh cari bambini. Allora, trattenne il
respiro, ma un desiderio di baciare questa carne innocente, questa
carne della sua carne, nacque, imperioso, e posò le sue labbra sulla fronte del
bambino.
Questi aprì lentamente i suoi grandi
occhi ancora pieni di gioia estatica, li gettò sulla madre in lacrime, sulla
tavola vuota, sulla stufa spenta, e triste: "Oh, mamma! Non era che un sogno...
ma che bel sogno! Non avevamo più fame... Non avevamo più freddo... mai
più".
Albert Libertad, dicembre 1899