Duval rubò. Per vivere, per mangiare,
senza porsi problemi di alcun genere, con l'unica consapevolezza di non avere
alternative. Rubò una prima volta, in una biglietteria ferroviaria, pochi
franchi sottratti dal cassetto mentre l'impiegato era assente, e gli andò bene.
Rubò una seconda volta, di lì a poco e nello stesso luogo, ma venne sorpreso e
acciuffato. Il risultato immediato fu la prigione e l'abbandono, ormai
definitivo, da parte della moglie. Ma non fu l'unico né il più importante. Quel
primo contatto con l'illegalità lo fece meditare e lo convinse non solo della
sostanziale legittimità del furto (o "riappropriazione individuale",
come si diceva allora) ma della possibilità che esso divenisse un mezzo di lotta.
Un mezzo, si badi, non un fine a sé stante. Ché proprio in questa concezione,
accettabile o no che fosse sul piano della strategia rivoluzionaria, sta la
grandezza d'animo di Clement Duval. Altri sarebbero venuti, dopo di lui, a
rubare, a rapinare, solo per sé e per la propria vita, scambiando per
rivoluzione quella che era invece rivolta individuale (pur comprensibile),
convinti che bastasse sottrarre al ricco i suoi averi, senza domandarsi cosa
bisognasse farne dopo. Duval, al contrario, vedeva nel furto solo uno strumento
per finanziare l'attività politica, per stampare la propaganda sovversiva, per
agitare le masse, per preparare le armi necessarie allo scontro con la
borghesia sfruttatrice, per fare la rivoluzione anarchica. La sua, fu una lotta
solitaria. Dopo i primi tentativi inconsapevoli, egli seppe oltrepassare la
propria tragedia personale, trovando in essa il punto di partenza per una
visione più ampia, la ragione di una lotta fatta né per se stesso né per gli
altri, ma per tutti. Quando Duval uscì di galera, cominciò attivamente a fare
propaganda libertaria nelle fabbriche, intorno a Parigi, e si rese conto di
essere come in guerra. Una guerra condotta senza esclusione di colpi, senza
convenzioni internazionali che ne regolassero i meccanismi, senza aristocratico
fair-play. Ogni rivendicazione finiva con licenziamenti massicci, ogni sciopero
si trovava di fronte i fucili dell'esercito ed erano morti e feriti, ogni
pubblica manifestazione di dissenso era l'occasione per arresti di massa (ed
era la galera, la deportazione, la ghigliottina). Duval pensò che non si
potesse fare altro che rispondere alla violenza con la violenza. E, perciò,
rispose. Una fabbrica di pianoforti, gli edifici della compagnia degli Omnibus,
una ebanisteria, una fabbrica di carrozze, le officine Choubersky dove egli
stesso lavorava, la ditta Belvallette di Passy: i luoghi dove lo sfruttamento
più disumano veniva consumato, dove gli operai sputavano la salute 14 ore al
giorno in cambio di quattro miserabili franchi, dove il privilegio più indegno
si formava e si consolidava, caddero in rovina, distrutti dal fuoco, sventrati
dall'esplosivo. È in questo periodo che nasce nell'iconografia del regime, la
figura dell'anarchico dinamitardo, tenebroso vendicatore dei torti proletari,
incubo del borghese e del benestante. La notte del 5 ottobre 1886, Duval si
introdusse nell'appartamento di Madame Lemaire, una ricca signora che abitava
al n. 31 di Rue de Monceau. Gli inquilini erano in villeggiatura ed egli poté
agire indisturbato: razziò accuratamente tutti gli oggetti preziosi che riuscì
a trovare e devastò quanto fu costretto, per il peso o l'ingombro, a lasciare
sul luogo. Andandosene, involontariamente appiccò il fuoco alla casa. Il danno,
tra furto e incendio, fu di oltre diecimila franchi, una bella somma che
contribuì a dare una certa risonanza all'avvenimento. La polizia non tardò a
scoprire il responsabile. I gioielli espropriati, messi in vendita troppo
presto, lasciavano dietro di sé una traccia evidente, che in qualche giorno
permise di risalire ai ricettatori e quindi a Duval.