La rivoluzione ordina di creare nuove istituzioni, la ribellione spinge
a sollevarsi, a insorgere.
La natura profondamente anarchica della ribellione è dunque chiara: essa
è diretta ad ottenere una situazione in cui gli individui non siano più governati
da istituzioni (cioè da poteri stabiliti), ma si autogovernino da se stessi (modello
perfetto dell'anarchia).
La ribellione, dunque, non è alternativa o indifferente alla rivoluzione
ma è molto di più. Essa è sempre comprensiva dell'avversità ad ogni dominio storico.
Tuttavia, ogni rivoluzione che vuoi essere veramente distruttiva dell'ordine esistente deve contenere almeno una parte della ribellione come superamento
della storicità del dominio determinato; deve essere, in altri termini, pervasa
da una dimensione metafisica. Rivoluzione e ribellione non devono essere considerati
sinonimi. La prima consiste in un rovesciamento della condizione sussistente o status,
dello Stato o della società, ed è perciò un'azione politica e sociale; la seconda
porta certo, come conseguenza inevitabile, al rovesciamento delle condizioni date,
ma non parte di qui, bensì dalla insoddisfazione degli uomini verso se stessi, non
è una levata di scudi, ma un sollevamento dei singoli, cioè un emergere ribellandosi,
senza preoccuparsi delle istituzioni che ne dovrebbero conseguire. La rivoluzione
mira a creare nuove istituzioni, la ribellione ci porta a non farci più governare
da istituzioni, ma a governarci noi stessi, e perciò non ripone alcuna radiosa speranza
nelle istituzioni. Essa non è una lotta contro il sussistente, poiché, se essa appena
cresce, il sussistente crolla da sé, essa è solo un processo con cui mi sottraggo
al sussistente. E se abbandono il sussistente, ecco che muore e si decompone. Ma
siccome il mio scopo non è il rovesciamento di un certo sussistente, bensì il mio
sollevarmi al di sopra di esso, la mia intenzione e la mia azione non hanno carattere
politico e sociale, ma invece egoistico.