Il luddismo si
appellava alle leggi paternalistiche che imponevano sanzioni «contro gli
imprenditori privi di scrupoli e ingiusti» e riconoscevano ai salariati «un
ordine riconosciuto, sebbene inferiore». Dove il libero proprietario di
fabbrica o il grande cotoniero o il produttore di calze su telai meccanici, che
si arricchiva con questi mezzi, fosse visto non solo con gelosia, ma come uomo
impegnato in azioni immorali e illecite. I tumulti e la protesta erano mossi in
altre parole da una economia morale – di cui facevano parte la tradizione del
giusto prezzo e del salario equo – in conflitto all’ideologia del laissez
faire, vista non come una legge naturale ma come una imposizione. Tutte le
rivendicazioni erano insieme rivolte al passato e all’avvenire; e contenevano
in sé l’immagine confusa non tanto di una comunità paternalistica, quanto di
una comunità democratica, in cui l’espansione dell’industria fosse regolata in
base a priorità etiche, e la ricerca del profitto subordinata alla
soddisfazione dei bisogni umani.
Il luddismo ha
origine dalle tradizioni popolari: quelle sociali della rivolta popolare,
quelle politiche dell’inglese nato libero, quelle religiose del dissenso.
La prima di
queste tradizioni sono i tumulti che traggono origine dal carovita, dai
pedaggi, dalle gabelle, dall’accisa, dall’introduzione di nuove macchine, dalla
recinzione di campi e pascoli comuni, dall’arruolamento forzato. I tumulti per
il carovita – imposizioni di un calmiere popolare, blocchi dei carichi di
cereali – possono essere violenti ma si collocano nel quadro di un
comportamento tradizionale, in quanto trovano la loro legittimazione nei
presupposti di un’antica economia a sfondo morale, che bolla di immoralità
qualunque metodo consistente nel trarre profitto dalle necessità del popolo
rincarando i prezzi dei viveri. Nelle comunità sia urbane sia rurali, una coscienza
del consumatore precedette ogni altra forma di antagonismo politico o
economico: l’indice più sensibile del malcontento popolare non erano i salari,
ma il costo del pane. Le leggi divine della domanda e dell’offerta, per cui la
penuria dei beni provoca inevitabilmente una lievitazione dei prezzi, erano ben
lontane dall’essere accettate dalla coscienza popolare, in cui perduravano
nozioni più antiche di contrattazione faccia a faccia. L’antica economia morale
di tipo paternalistico si contrapponeva così alla libera economia di mercato.
La seconda
tradizione culturale poggia sul mito dell’inglese nato libero: un mito fondato
sulla libertà dal dominio straniero, dall’assolutismo e dall’ingerenza dello
Stato, sull’eguaglianza di ricco e povero di fronte alla legge, sulla
protezione delle leggi contro le ingerenze di un potere arbitrario, e infine
sulla libertà di parola, di pensiero e di coscienza. Su questa base si
affermano teorie come quelle di Tom Paine, «ai limiti di una teoria anarchica»,
secondo cui «nell’istante in cui è abolito il governo formale, la società
comincia ad agire».
Terza tradizione
culturale, il dissenso religioso. Un esempio: il metodismo, i cui precetti
erano quelli della sottomissione personale e della santificazione del lavoro,
recitò «la doppia parte di religione degli sfruttatori e di religione degli
sfruttati», riuscendo a essere simultaneamente religione della borghesia
industriale e di vasti strati della classe proletaria, tanto che tensioni
continue insorgevano in seno ad una religione i cui precetti erano pur tuttavia
quelli della sottomissione personale e della santificazione del lavoro. Il
ribelle politico metodista portava nella sua attività radicale o rivoluzionaria
un intenso fervore morale, un senso di devozione e vocazione, una
capacità metodista di impegno organizzativo tenace, e un alto grado
di responsabilità personale»; in particolare nelle campagne il metodismo poteva
prendere una forma improntata a una più viva coscienza di classe, consentendo
ai lavoratori dei campi di acquisire «indipendenza e rispetto di sé».