Torino, 19 Gennaio 1979: nel carcere “Le
Nuove” di Via Borsellino la quotidianità della vita penitenziaria viene
sconvolta da una rivolta di detenuti destinata a protrarsi per diversi mesi
sotto la guida dei CDL (Comitati Di Lotta), costituitisi pochi giorni dopo
grazie all’iniziativa di alcuni compagni e compagne del carcere.
Ciò che i detenuti in rivolta chiedevano
a gran voce erano migliori condizioni di vita all’interno del complesso
penitenziario.
Da un comunicato diffuso dal CDL nei
giorni immediatamente successivi al 19 si apprende infatti dell’invivibilità
della maggior parte degli spazi (molti dei quali dichiarati fuori norma) e
degli abusi a cui i detenuti erano sottoposti non appena alzavano la testa contro
i soprusi quotidiani.
“..la convivenza diventa praticamente
inumana sotto tutti gli aspetti, partendo da quelli igienici, tenendo conto
della mancanza di mezzi per mantenere la pulizia [...]; le docce sono 3 di cui
una funzionante e costrette purtroppo a restare sporche, l’acqua diventa quasi
immediatamente fredda, quindi siamo impossibilitati a lavarci, incrementando
così la percentuale di malattie già esistenti, senza nessuna assistenza medica
per il menefreghismo delle guardie e brigadieri, marescialli che all’insistere
delle richieste ripiegano con metodi di rappresaglia [...]. Noi siamo
sprovveduti per combattere questi abusi, soprattutto perché si incorre in duri
provvedimenti disciplinari. Davanti a queste azioni molti proletari desistono
dall’agire materialmente, ma sono disposti ad ascoltare e condividere questa
causa anche socialmente”.
Le rivendicazioni dei detenuti, in
realtà, erano sorte già da diverso tempo ma la risposta da parte del Direttore
del carcere, preoccupato unicamente di mantenere il quotidiano sistema di
violenze con cui il centro veniva mandato avanti, erano state vane promesse
destinate a rimanere sulla carta e a non avere mai una reale applicazione.
A tutto ciò va aggiunto il silenzio
degli organi di stampa e delle istituzioni esterne al carcere, nonostante i
detenuti più attivi si premurassero continuamente di far arrivare le proprie
rivendicazioni oltre le spesse mura carcerarie e di portare all’attenzione
pubblica una questione che non poteva più essere ignorata.
Solo a partire dalla fine di Gennaio,
quando l’eco delle rivolte all’interno delle Nuove si era spinta troppo lontano
per continuare a tenere la faccenda sotto silenzio, alcuni giornali, in primo
luogo La Stampa, cominciarono a dedicare spazio alla questione; almeno inizialmente,
però, gli articoli si limitavano ad una poco veritiera cronaca delle proteste,
che venivano vendute dai giornali come pacifiche e destinate a concludersi di
lì a poco grazie ad una presunta disponibilità al dialogo da parte della
direzione del centro penitenziario.
La rivolta, in realtà, si protrasse fino
ad Aprile, adottando metodi di lotta di volta in volta diversi: ritardare
collettivamente il rientro in cella, rifiutarsi di presentarsi ai processi,
scioperi della fame, diversi giorni di sosta sul tetto del carcere fino a vere
e proprie devastazioni di alcune zone delle Nuove.
Di fronte all’intensificarsi della
protesta anche le misure repressive da parte dei vertici del centro di
detenzione si inasprirono: oltre ad autorizzare violenze sempre più vergognose
(che spesso assumevano le forme di vere e proprie torture, come la permanenza
sul famigerato letto di contenzione, dove i detenuti venivano tenuti legati
fino a che tutto il corpo diventava una piaga), vennero disposti numerosi
trasferimenti di detenuti in altri poli carcerari, nel tentativo di fiaccare il
crescente rafforzamento del CDL tenendo separati i suoi componenti.
La protesta aveva però assunto
dimensioni difficilmente contenibili, anche in virtù della costante
comunicazione e collaborazione (per quanto vietate) tra il CDL della sezione
maschile e quello della sezione femminile.
Col passare del tempo e con il
costituirsi di una coscienza politica da parte di molti carcerati che dapprima
avevano solo tiepidamente appoggiato la rivolta, anche le rivendicazioni
seppero andare oltre le iniziali richieste di ambienti, cibo e assistenza
sanitaria migliori e la consapevolezza di non poter slegare la propria
battaglia dalle parole d’ordine che provenivano da situazioni sociali esterne
al carcere (lotte di fabbrica e di quartiere) si fece strada fra i detenuti; in
un comunicato del CDL femminile di Febbraio si legge infatti:
“É emersa la necessità di una
ricomposizione politica nel Comitato e la riaffermazione della capacità di
direzione politica del Comitato nella crescita dei livelli di contropotere
proletario all’interno del carcere. Il Comitato quale sintesi delle tensioni
esistenti nella sezione ha aperto un ciclo di lotta che a partire dai bisogni
immediati delle proletarie prigioniere portasse alla crescita del livello di
contropotere interno e di una maggior unità fra tutte le proletarie
prigioniere, e che vedesse l’impiego di lotte quanto più disarticolanti”.